Il “Roveto” di Santi’Ilario: «I disabili vi precederanno»

Sono trent’anni che faccio interviste, ma il colloquio che mi ha coinvolto di più è avvenuto ora: il 2 ottobre, a Sant’Ilario di Nerviano (Milano), con quattro novizie disabili dell’Istituto delle Piccole apostole di don Luigi Monza (1898-1954). Maria Grazia viene da Mondello Lario (Lecco), Nunzia da Vibo Valenzia, Francesca da Cremona, Laura da Cantù. Si va dai 61 anni di Maria Grazia, iniziatrice di questa avventura, ai 32 di Nunzia. Insieme compongono la Comunità Il Roveto.
Francesca è spedita nel parlare e si muove con le stampelle. Le altre si spostano su una carrozzina, ma come sono rapide a sciamare, senza lasciarsi bloccare dall’ascensore, quando è il momento di passare al piano superiore! Hanno difficoltà a parlare e con le mani, ma hanno collaudate maniere di girare le pagine della Bibbia, o del libro delle ore, servendosi della fronte, o del naso, o di un congegno tenuto tra i denti, che chiamano «bastoncino».

Il Roveto di Sant’Ilario milanese
Chiedo quale sia la parola del Vangelo che più le attira e mi indicano coralmente un versetto centrale dell’Annunciazione, quando Maria chiede«come è possibile, non conosco uomo» e l’angelo risponde «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37). Uno sfondamento di prospettiva che apre il Secondo Testamento in rispondenza all’altro, che aveva aperto il Primo, quando il Signore aveva chiesto ad Abramo «c’è forse qualche cosa di impossibile per il Signore?» (Gen 18,14).
Come sono riconoscente di questa nuova lettura delle parole dell’angelo e – di riflesso – delle parole del Signore ad Abramo! Le avevo sempre applicate ai limiti dell’umano, ma ora so che le posso applicare ai limiti del singolo e dunque anche ai miei limiti!
Altra parola del Vangelo amata dalle novizie di Sant’Ilario è la risposta di Gesù ai discepoli a proposito del cieco guarito al capitolo 9 di Giovanni, se avesse peccato «lui o i suoi genitori» perché nascesse cieco: «Né lui ha peccato, né i suoi genitori, ma è così perché si manifestino in lui le opere di Dio» (Gv 9,3).
Dunque gli invalidi d’ogni apparenza, ciechi e zoppi e disabili a parlare, o ad ascoltare, o a ricordare sono nati così, o così sono diventati, «per la gloria di Dio»: me l’hanno assicurato le novizie che mi sono più care!
Ho accennato d’istinto ai «disabili a ricordare» ed ecco che mi viene in mente il fatto che il 3 ottobre 2004 Giovanni Paolo ha proclamato beato un monaco cistercense «debole», anzi «sprovvisto di memoria», inabile al servizio militare e«inetto al lavoro manuale», ma «semplice come una colomba e sempre contento», il francese Marie-Joseph Cassant (1894-1903). Superò a gran fatica gli esami per l’ordinazione, dopo aver ascoltato dal professore di teologia questo verdetto: «Ordinarla sacerdote sarebbe disonorare il sacerdozio».

Largo ai poveri di spirito e di corpo
Ma può disonorare alcunché un limite umano, se è dato per la gloria di Dio? Si sa come tutta questa materia sia finalmente in corso di revisione. Oggi dei disabili gravi vengono ordinati sacerdoti, in deroga al diritto, e iniziano a essere ammessi nelle famiglie religiose. Ma quanta fatica si fa per compiere dei passi di schietto sapore evangelico!
Quando capiremo davvero che il Figlio dell’uomo è venuto a curare i malati e non i sani e che i poveri di spirito gli sono più vicini d’ogni altro?
Le persone che più hanno aiutato le quattro donne a realizzare il loro sogno sono state don Luigi Serenthà (definì «un consiglio dello Spirito» il desiderio di consacrazione di Maria Grazia), don Giuseppe Beretta («guida spirituale» della comunità) e il card. Martini, che un giorno ebbe a dire a Maria Grazia (incontrandola su presentazione di don Serenthà): «Tenga duro perché i tempi sono maturi». Don Serenthà, gran teologo e amico de La nostra famiglia, muore nel 1986: dunque la ricerca delle quattro novizie viene da lontano.
Essendo quattro le intervistate, quattro sono i passi della Scrittura che mi hanno regalato come loro preferiti. Ho riferito i due presi dai Vangeli, ed eccone altri due del Primo Testamento: «Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi?» (Sal 8,5) e «L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore» (1Sam 16,7).
Tra i doni dello Spirito alla nostra epoca io metto in primo piano l’attenzione ai disabili. Ne vedo quattro manifestazioni principali: l’accettazione del bambino con problemi da parte dei genitori; la sua scelta per l’affido o l’adozione; il disabile che accetta la sua disabilità e soccorre gli altri disabili; gruppi e comunità che si dedicano al loro recupero. La comunità Il Roveto porta il segno della terza e quarta tra queste manifestazioni.
«Noi non siamo contemplative!», mi hanno gridato in coro, domandando io se nell’Istituto esisteva già un filone dedito esclusivamente alla preghiera. «È ragionevole che una comunità composta di disabili trovi più confacente dedicare un maggiore spazio alla preghiera, ma noi intendiamo fare nostra l’intera finalità dell’Istituto», hanno precisato.

«Il dono di accettare i nostri limiti fisici»
Lavorano, infatti. Soprattutto grafica al computer: creano e stampano biglietti e carta da lettere, block notes, calendari. A loro è stata affidata l’informatizzazione dell’itinerario formativo dell’Istituto. E siccome l’Istituto si occupa prioritariamente delle persone disabili, attraverso l’animazione dell’opera La nostra famiglia, ecco che le quattro novizie disabili partecipano – come possono – alla riabilitazione delle persone disabili.
Così presentano la loro vocazione nell’opuscolo Il Roveto: «Noi che abbiamo ricevuto il “dono” dello Spirito Santo di accettare i nostri limiti fisici alla luce della risurrezione, vivendoli come testimonianza positiva e redentiva, sentiamo il dovere di farci carico nella preghiera, nell’ascolto, nell’accoglienza e nell’offerta della nostra vita, di tutti coloro che, per qualsiasi motivo, si trovino a sperimentare la sofferenza, il dolore, la prova. Il nostro impegno è quello di portarli al Signore perché siano illuminati con la luce della fede e possano sperimentare, nel mistero del dolore, la bontà amorosa del Padre, che mai viene meno alle promesse di bene per le sue creature e che tutto conduce secondo disegni di provvidente amore per ciascuna di essere».
Non sono attive soltanto nell’Istituto, le quattro novizie: il parroco di Sant’Ilario le ha incaricate di scrivere ogni mese una lettera ai malati della parrocchia. Nel decanato Villoresi, cui appartengono, è nata un’associazione per dare loro sostegno, «Amici del Roveto». I volontari della parrocchia le aiutano in tanti modi. In casa loro si tengono incontri biblici trimestrali di un gruppo di loro frequentatori, Le scintille del Roveto. «Non siamo adatte a tenere discorsi – dice Maria Grazia – ma possiamo essere una presenza provocatoria, per chiunque ci incontri».
La visita al Roveto mi ha chiarito l’idea che la nuova frontiera della lotta alla disabilità oggi è quella della partecipazione dei disabili a essa.

La Piccola famiglia dell’Assunta di Montetauro
«Che può venire di buono dai disabili?». Così suona il pregiudizio che ha comandato fino a oggi il rapporto con queste persone. E se non possono «dare», è ragionevole calibrare l’investimento nei loro confronti: le aiuteremo quanto basta per garantirgli una qualche qualità della vita, ma non quanto sarebbe necessario perché possano divenire protagoniste del proprio e dell’altrui riscatto.
Non fa dunque meraviglia che una prima comunità di consacrate disabili nasca nei dintorni de La nostra famiglia, che si dedica al recupero dei disabili. Un recupero completo, che mira ad accompagnare la persona con difficoltà verso la scoperta della pienezza di vita che è in essa: di quella pienezza può far parte la vocazione religiosa.
Un atteggiamento altrettanto evangelico l’avevo conosciuto – e quasi toccato con mano – visitando un’altra comunità di consacrate che si dedicano a bambini e persone disabili, la Piccola famiglia dell’Assunta, a Montetauro di Coriano, Rimini (se ne parla qui nel capitolo 11, Il genio della carità). Le ho ritrovate a Loreto, nella piana di Montorso, alla messa del papa domenica 5 settembre 2004, per il «pellegrinaggio» dell’Azione cattolica.
Duecentomila persone cantavano sotto il sole. Dalla tribuna stampa scorsi la sagoma inconfondibile di suor Paola, la responsabile della comunità, dov’ero stato due volte, affascinato dalla totale dedizione di ognuna di loro (sono una trentina) ai «piccoli» di cui si fanno mamme: ognuna ha un «figlio» che tiene sempre con sé, in camera, a tavola, in cappella. Ed erano là, nella piana di Montorso, ognuna con in braccio il «piccolo», o per mano, o nella carrozzina accanto a lei. «Come avete fatto a ottenere i primi posti, accanto alle autorità?», ho domandato. E suor Paola, sudata e felice: «Perché gli ultimi saranno i primi!».
Chiedo come mai siano a Loreto: «Per la beatificazione del riminese Alberto Martelli! Ma anche per portare i nostri piccoli dal papa. Rimini è a poco più di cento chilometri da Loreto e loro hanno tutto il diritto di essere presenti ai grandi eventi».

«Diventare mamme di questi bambini»
La prima somiglianza tra la Piccola famiglia dell’Assunta (la cui regola è stata dettata trent’anni fa da don Giuseppe Dossetti) e le Piccole apostole della carità la vedo in questa decisione a stare alla pari con il disabile davanti al Signore.
La seconda somiglianza la trovo nell’amore di predilezione con cui le consacrate di queste due famiglie si fanno mamme dei disabili. Per le mamme adottive di Montetauro fa testo la regola. Per le Piccole apostole valga questa esortazione del fondatore don Luigi Monza: «Bisogna diventare mamme per questi bambini».

Luigi Accattoli
Da Il Regno 18/2004

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