Io non ti condanno. Dai divieti di entrare in Chiesa a una nuova tolleranza

Racconterò di un cartello che vieta l’ingresso ai disabbigliati in una cattedrale e ragionerò della longeva stoltezza di sviare la gente dalle chiese. Rappresentando quel cartello una coppia di vacanzieri, pretestuosamente tratto delle famiglie di fatto e sogno di una nuova tolleranza nei loro confronti.

Vietato che cosa?
Capito nel duomo di Pistoia, a metà ottobre e trovo un divieto di ingresso troppo forte, tracciato su una coppia stilizzata di vacanzieri e arricchito dal commento ancora più forte di un visitatore. Lei ha un mini vestito e una massa di capelli da un lato, che la fanno indovinare in un movimento allegro. Tiene con la destra il braccio di lui, che è in pantaloncini e canottiera. Sembrano venire dal mare. Li campisce un cerchio rosso e li attraversa la diagonale – pure rossa – che completa il divieto.
Sul margine bianco del cartello, un bello spirito ha scritto con il pennarello sette parole affilate: “Vietato cosa precisamente? Essere abbronzati, innamorati, contenti?”.
Di più non dice, lo scriba sottile. Ma la sua glossa mi basta perché mentalmente io ritiri tutti i divieti d’ingresso dalle chiese che ho visto e che vedrò. Già ora riesco benissimo a entrare – con l’anima – nel duomo di Pistoia senza vedere quel cartello: vedendo anzi chiaramente che l’ho tolto.
Non voglio dire che sarà tolto davvero da chi ve lo piantò, ma è possibile che avvenga.
All’origine della glossa e della mia drastica decisione, ovviamente c’è un equivoco. Il cartello – nell’intenzione di chi l’affisse – voleva dire semplicemente: “Non entrate in chiesa disabbigliati”.
Ma un cartello dice sempre più cose di quante non ne intenda il piantatore. Specie se usa i simboli della segnaletica stradale per “vietare” l’accesso a una cattedrale: cioè se mescola i codici. E più ancora se l’icona del divieto rappresenta una giovane coppia in vacanza, che è un’immagine della libertà capace di attirare ogni divieto. Un cartello dunque trasmette tanti messaggi e il glossatore malizioso ha scelto quello che si adattava alla sua ironia: la chiesa teme la giovinezza e la sua libertà, tant’è che proibisce l’ingresso in cattedrale a chi troppo le ostenta.
Non è vero, naturalmente. Nell’asciuttezza di quella glossa – apposta al cartello del divieto di ingresso – si legge una decisa prevenzione. Non è vero che la Chiesa tema la gioventù, ma purtroppo ancora oggi può risultare credibile chi l’accusi di quel timore.
A mostrare che la Chiesa non teme la giovinezza, bastano i due milioni di ragazzi venuti a Roma l’agosto scorso, per la giornata mondiale della gioventù: erano disabbigliati, abbronzati, innamorati, contenti eppure il papa li ha ammessi – così com’erano – nelle basiliche romane. Con le regole del duomo di Pistoia, nessuno di loro sarebbe potuto entrare in San Pietro e invece non solo entravano, ma si sdraiavano sul pavimento, per sentirne il fresco con le gambe nude. E tutti erano contenti di averli lì.
Perché dunque suona credibile – diciamo: sui muri e nei media – il sospetto che gli uomini di Chiesa temano la gioventù, la libertà, le coppie vacanziere? Perché la Chiesa si attarda a usare un linguaggio di divieti che va oltre lo scandalo necessario del Vangelo e che provoca scandali gratuiti. A volte sembra farlo – come nel caso del cartello di Pistoia – per totale inesperienza del mondo: e uno non sa se rallegrarsene o protestare.

Fare festa a chi entra
Io sono contrario a ogni divieto di ingresso nelle chiese, essendo già così pochi quelli che si avventurano a entrare! Mi pare che non sia l’abbigliamento di chi entra a fare violenza a quell’ambiente, ma il cuore di chi vi sta da padrone, giudicando chi e come vi possa entrare.
Più appropriatamente dirò – parafrasando Matteo 15, dove Gesù abroga il divieto di mangiare senza lavarsi le mani – che vedere una coppia disabbigliata in chiesa “non contamina l’uomo”, perché sono i sentimenti che escono dal cuore a contaminare l’uomo e non le immagini che entrano dagli occhi. Fermare uno sulla porta può voler dire cacciarlo per sempre: questo pensiero lo dedico agli zelanti ostiari (custodi delle porte) dei nostri giorni. Dovremmo piuttosto fare festa a chiunque voglia entrare, specie se giovani e in coppia. Sarebbe ora di tornare a un uso abbondante e più sciolto delle nostre bellissime chiese.
Ma la discussione con gli ostiari non ci poterà lontano. Dietro il divieto di Pistoia c’era – implicitamente – dell’altro e quell’altro è stato intuito: il timore della libertà sessuale dei giovani.
Uscito dal duomo di Pistoia ho trovato davanti al battistero – fai attenzione, mio lettore: qui si passa dal piano dei segni a quello della realtà – una coppia allacciata che leggeva una carta della città: lui da dietro l’abbracciava alla vita, tenendo il viso tra i capelli di lei, che badava solo alla carta. Fosse avvenuto in chiesa, quel gesto, non ci sarebbe stato bene?
Perché ci mette pensiero quella giovane coppia? Non sono sposati e sono in vacanza da soli, penserà il diffidente ostiario. Di certo praticano la piena intimità. Magari costituiscono una coppia di fatto. E sarebbero fuori dalle regole!
Ebbene io credo che questi pre-giudizi – lucidamente intuiti dall’anonimo glossatore – siano lontani dallo spirito di Gesù quanto il cartello da lui glossato: il Vangelo invita a guardare alle persone, prima che alle regole. In esso gli uomini malati o affamati hanno la precedenza sulle regole del riposo sabbatico. La ragazza che sta per essere linciata ha la precedenza sulla legge che prescrive la lapidazione della donna adultera.

Porre fine alle lapidazioni
Il Vangelo ci invita a guardare con purezza di cuore gli uomini e le donne del terzo millennio, combattuti come sempre tra la legge e la vita: ci invita a vedere che le “famiglie di fatto” sono famiglie, che i “figli naturali” sono figli, che le “coppie omosessuali” sono composte da persone.
C’è una legge certo, anzi ci sono più leggi della società o della chiesa che segnalano quelle situazioni come irregolari, ma il cristiano non si ferma alla constatazione delle irregolarità. La legge non gli basta. Se essa assume un ruolo dominante, egli avverte che potrà essergli di intralcio. In questo è più libero dei fratelli maggiori ebrei e dei fratelli musulmani.
L’episodio dell’adultera che Gesù salva dalla lapidazione insegna a cercare creativamente – in ogni epoca – il modo e le parole per dire “non peccare più”, senza dar corso alla lapidazione.
Non si lapida più nessuno da un pezzo, ma evangelicamente non fa poi tanta differenza se le parole hanno preso il posto delle pietre: come c’è l’adulterio nel cuore, così ci può essere la lapidazione verbale. Dura ancora nel mondo d’oggi – ricordiamoci dei toni cui arrivò, il luglio scorso, la polemica sul “gay pride” – la riprovazione morale usata come strumento di battaglia politica e la condanna tranciante senza alcuna considerazione per le persone. Resta, soprattutto, l’illusione che le leggi civili possano dare efficacia al precetto cristiano.
Gesù affida la sua parola al libero ascolto degli interlocutori. Quando dice: “Neanche io ti condanno, vai e d’ora in poi non peccare più” (Giovanni 8, 11), non ha alcuna garanzia che la sua consegna sarà obbedita. La lapidazione era invece efficace, almeno come deterrente. Ma Gesù invita ad abbandonare la via della deterrenza legale. Affida il precetto alle coscienze e ci invita a fare altrettanto.

Indicare alla Chiesa una nuova tolleranza
Tentiamo d’applicare quell’insegnamento alle “unioni di fatto”: quale efficacia può avere – in ordine al convincimento delle coscienze – una battaglia dei cristiani per impedirne il riconoscimento fattuale sul piano della convivenza civile? Non avrà piuttosto un effetto contrario, di indurimento dei cuori in una scelta che di suo, magari, era destinata ad evolvere verso una decisione matrimoniale?
Noi cristiani comuni viviamo – con le nostre famiglie – a diretto contatto con le famiglie di fatto. Conosciamo le tante ragioni che portano a quella scelta. Sentiamo i nostri figli inclinare pericolosamente – con le parole, per ora – verso di essa. Siamo certi che non potremo agire, nei loro confronti, se non per illuminazione e per contagio. Certo con nessuna costrizione, o induzione legislativa. Se ci battiamo per il mantenimento di una situazione per loro svantaggiata non renderemo più convincente la nostra parola.
Mi permetto allora di chiedere – forse a nome delle famiglie fondate sul matrimonio che vivono porta a porta con le famiglie di fatto – se non ci sia la possibilità di dire con chiarezza l’ideale cristiano del matrimonio senza trascurare il fatto che le “famiglie di fatto” sono famiglie e hanno diritto a un inquadramento legislativo che le aiuti quantomeno sul piano economico e delle responsabilità nei confronti dei figli.
Un riconoscimento ovviamente diverso rispetto a quello di cui gode la famiglia matrimoniale: un’equiparazione sostanziale danneggerebbe la famiglia tradizionale, già variamente penalizzata.
Ma le famiglie di fatto hanno realmente bisogno di un inquadramento minimo che le tuteli sul piano sociale e fiscale, per quanto riguarda gli assegni familiari e le detrazioni, le sovvenzioni scolastiche e ogni provvidenza.
E quando sono le coppie omosessuali a rivendicare diritti? Credo sia giusta l’opposizione al diritto all’adozione, ma non trovo giustificato il rifiuto a riconoscergli diritti economici e patrimoniali, a partire dalla reversibilità della pensione, da regolare con una serie di contratti privati.
Tocca ai cristiani comuni – che vivono a contatto con le nuove tentazioni – indicare alla chiesa una nuova tolleranza.

Luigi Accattoli
Da Il Regno 22/2000

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