Violenze alle donne. E la mia vergogna di essere uomo

Vedo il borseggiatore sul bus 64, Stazione Termini-Stazione San Pietro, che si accosta da dietro alla giovane turista, aderendo a lei nella calca per distrarla e derubarla meglio. E mi vergogno di essere un uomo.
Vedo un papà che grida dalla strada alla sua donna affacciata alla finestra, lascia la figlia che teneva per mano e risale furioso in casa. La bimbetta tutta vestita lo segue attenta a dove mette i piedi, ma trova la porta chiusa e guarda su. La mamma che l’ha vestita ora l’intrattiene amabilmente. Vorrei essere lei.
È notte e quasi tace l’incessante traffico di Roma. Dalla via – che si chiama “di Santa Maria Maggiore”, ma è un luogo di prostituzione – arriva nella mia camera il vociare concitato delle ragazze albanesi, alle prese con la ronda dei protettori. Uno degli uomini grida e loro tacciono.
Cinque anni fa una ragazza denunciò lo sfruttatore e quello, uscito di prigione, l’accoltellò una notte davanti alla mia finestra.
Mi vengono alla mente le occasioni in cui ho gridato e una donna ha taciuto perplessa. Penso ai miei figli maschi quando fanno i duri con le sorelle.

Caino e le sorelle
Leggo le statistiche degli omicidi, della prostituzione e della pedofilia e mi vergogno ancora di più.
L’ISTAT ha calcolato in 714.000 le donne italiane stuprate. E che una su due abbia subito almeno una violenza fisica, una telefonata oscena, un atto di esibizionismo.
La maggior parte delle donne uccise nel mondo – costantemente e dappertutto – vengono assassinate nelle loro case, da uomini con i quali hanno condiviso la vita quotidiana. Una su due – in Italia – è uccisa dal marito, o dal partner.
Su 53 casi di parenticidio (uccisione di familiari), avvenuti in Italia tra il 1975 e il 1995, 49 sono stati compiuti da maschi e solo 4 da femmine.
Caino continua ad aggredire le sorelle con la furia di sempre. Aumentano anzi le violenze sessuali e i reati legati alla prostituzione: più 22% per i primi e più 39% per i secondi, in Italia, nel 2000! Un’esplosione che pare dovuta innanzitutto all’accresciuta presenza degli extracomunitari. Che sempre difenderò. Trasecolo e penso alle mie tre figlie.
Nello spavento di quelle statistiche c’è però una consolazione: l’accresciuta rilevazione delle violenze è dovuta anche alla maggiore prontezza delle donne nel denunciarle. La donna che si ribella è un guadagno per l’uomo.
Conclusione provvisoria: c’è speranza se Adamo si vergogna e se le figlie di Eva imparano a rimandargli l’eco della sua violenza.

Bisognerebbe vedere tutto
Sono sull’Eurostar Milano-Roma e ascolto quattro donne che parlano dello slavo che ha violentato e ucciso a Bologna una bambina di nove anni. Che gli sarà preso, si chiedono. Un raptus, una pazzia. Ma fino a questo punto! Non gli si vedeva nello sguardo? Tu sei la sorella della bambina e stai con lui e non vedi niente. Bisognerebbe vedere tutto. Ma come puoi credere che il tuo uomo uccida in casa tua?
In quell’accoramento di sorelle non c’è animosità contro gli uomini, né contro gli slavi. Una dice: “Qualche volta penso di restare sola”.
Sta scritto: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (Gen 3,16). Ho l’impressione che lì sia detta tutta la violenza dell’uomo sulla donna.
Ma se una donna confida calma che pensa di “restare sola”, per scampare anche l’ombra della violenza maschile, allora quel versetto della Genesi riceve un nuovo commento.

Enkidu, fiero e violento
Il combattimento della donna con l’istinto che l’espone alla violenza di Adamo dura da sempre, sulla terra. In parallelo a esso si svolge un’altra scommessa di Eva, teso ad ammansire il violento compagno.
Qui è il mito di Gilgamesh e di Enkidu a sovvenirci: “Fiero e violento era Enkidu e l’intero suo corpo era coperto di pelo”. Per “spingerlo” nel mondo degli uomini, Gilgamesh gli pone davanti una donna nuda e il mostro, “incantato e rapito”, l’attira a sé e infine siede ai suoi piedi e “la guarda fisso negli occhi, intento a ogni sua parola” (T.H. Gaster, Le più antiche storie del mondo, Mondadori, Milano 1971, 33).
Il poema babilonese di Gilgamesh fu scritto 35 secoli fa, ma le donne non hanno ancora addomesticato completamente gli uomini. Le vediamo all’opera ogni giorno. L’effetto Enkidu lo riscontriamo nei nostri ragazzi, quando s’innamorano.
Spetta alle donne bonificare il desiderio maschile dall’istinto di rapina. Addomesticare il raptus. Ricondurlo a elemento di sorpresa. “L’impazienza di Adamo” (come suonava un bel titolo di Adriana Zarri, Borla, Roma 1964) è vitale per la felicità della coppia.

Ribellione e vergogna
L’educazione familiare dovrebbe stimolare sia la ribellione delle femmine ai soprusi maschili, sia la vergogna dei maschi per ogni loro prevaricazione.
La vergogna è un bene raro, quand’è libera. Mi vergogno, dunque posso cambiare. Un uomo è tanto più malleabile quante più sono le cose di cui si vergogna.
Una comunità può migliorare se stessa se matura un sentimento di imbarazzo collettivo. La vergogna per la Shoah aiuta i cristiani a riconoscere gli ebrei come fratelli maggiori.
Lo stesso potrebbe avvenire con le donne. La vergogna è una risorsa potente. Essa viene dal centro dell’uomo. Von Balthasar (nel volume di aforismi Il chicco di grano, Jaca Book, Milano 1994, 38) dice che “è il centro dell’uomo”.
Aiutare l’uomo a vergognarsi ogni volta che alza la voce o la mano sulla sua compagna vuol dire aiutarlo a liberarsi da ogni vergogna nell’amore: “Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna” (Gen 2,25).
Ma non c’è solo la violenza fisica. C’è quella ambientale e della lingua, quella istituzionale e dei media, quella della religione. Di tutte dovremmo imparare a vergognarci.
Io mi vergogno più che posso del fatto che le donne sono tenute a un ruolo secondario nel giornale in cui lavoro e nella parrocchia dove vado a messa. E cerco di fare in modo che non l’abbiamo nella mia casa.

La discriminazione
Ho sott’occhio un’indagine ISTAT sugli sbocchi professionali dei laureati (cf. P. Santi, “Giovani, brave e discriminate”, in Il Mulino [2001]2, 292-299), che segnala come le donne laureate siano più numerose degli uomini, abbiano concluso gli studi in minor tempo e con voti migliori; ma che tardino di più a trovare lavoro, quale che sia la laurea e si fermino a livelli più bassi e ovunque guadagnino di meno dei colleghi maschi. Sappiamo che sono più brave, ma non riusciamo a prenderne atto!

Più leggera e più memore
La donna è migliore dell’uomo. Di sicuro è meno pericolosa.
È più leggera, più flessibile, più memore. Più dotata di sguardo e di immaginazione e dunque meglio disposta a usare misericordia.
Meno tesa a uno scopo. L’ossessione del risultato alimenta l’istinto violento di Adamo.

La gratuità e l’attesa
Avevo appena abbozzato – nel mio file – questo pensiero, sulla donna più “leggera” dell’uomo e mi chiedevo come dirlo meglio, quando mi è arrivato un volumetto di una “mistica” anonima, pubblicato negli Oscar Mondadori, che mi ha dato un buon aiuto. Eccone una pagina, “donnesca” tra tutte: “Mentre la categoria della pesantezza evoca ciò che fa parte dell’esperienza di tutti i giorni, come il possesso, l’accumulo, l’arroganza, il senso di superiorità e, al tempo stesso, tutti coloro che se ne fanno interpreti, la categoria della levità evoca, al contrario, ciò che fa parte del nostro sogno e, prima ancora, del mio: gratuità, scioltezza, discrezione, amore umile e arreso alle attese dell’altro” (Anonima contemporanea, Quante cose potrei dirti. Le parole dettate da Gesù a una mistica dei nostri giorni, Mondadori, Milano 2001, 24).

Dire il Vangelo con l’anima delle donne
Per una conclusione rapida – se non lieve! – proverò a dire quanto mi appaia pesante, a volte, l’aria che si respira negli ambienti di soli uomini. Anche quando sono santi.
Mostrando la faccia nascosta di Eva, l’islam diverrà più umano: credo che ogni cristiano condivida questo sogno. E allora proviamo a immaginare quanto sarà più bella la Chiesa quando avrà fatto il giusto spazio alle donne.
Ma sarà soprattutto con l’anima delle donne – cioè con la loro parola – che la comunità cristiana potrà affrontare il problema dei problemi che oggi si trova di fronte: che è quello di parlare alle nuove generazioni.
Nessuno sa quanto una mamma che cosa voglia dire crescere un uomo. Che faremmo in Italia senza le maestre che ci allevano i figli?
Come potremo allora interrogarci sulla trasmissione della fede alle nuove generazioni, facendo girare il microfono tra soli uomini?
Perché capita che nella comunità dei credenti le donne trovino una difficoltà doppia a farsi ascoltare rispetto a quella, già grande, che trovano nel mondo del lavoro. Sono più brave a parlare di Gesù ai ragazzi e più pronte ad animare l’assemblea e la carità: e che altro c’è da fare nella comunità? Eppure se nel nuovo governo ci sono solo due donne (nel governo Amato ce n’erano quattro e sei nel governo D’Alema: si va all’indietro!), non ci sono donne in assoluto a capo di un ufficio della CEI, o di un dicastero romano. E nessuna donna (e nessuno sposato, uomo o donna che sia) si è neanche affacciata all’ultima assemblea della CEI e all’ultimo concistoro, dove solo degli uomini celibi erano autorizzati a ragionare del futuro della fede!
Non voglio dire che le donne debbano essere vescovi e cardinali, ma che i vescovi e i cardinali non possono non ascoltarle, dando loro una parola prevalente, com’è prevalente la loro opera nella vita cristiana d’ogni giorno. Tocca agli sposati segnalare ai celibi l’urgenza che le donne parlino nella Chiesa.

Luigi Accattoli
da Il Regno 12/2001

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