Cristianesimo alla fine? O siamo all’inizio?

Siamo alla fine dell’avventura cristiana sulla terra? Guardo ai miei figli secolarizzati eppure cristiani e dico: no, siamo piuttosto all’inizio! Io almeno sento così, benché non lo sappia argomentare. E trovo tanti cristiani comuni che pensano come me, quando ne parlo in giro per l’Italia. Provo a dire in ordine quel sentimento, offrendolo alla riflessione di chi ne sa di più.

Attualità della promessa evangelica
“Forse siamo solo all’inizio dell’era cristiana”, ha detto ad apertura dell’ultimo concistoro straordinario l’arcivescovo di Parigi card. Jean-Marie Lustiger (Regno-doc. 11,2001,339). Ha spiegato così la sua intuizione: “L’annuncio del Vangelo è ancora al suo inizio e manifesta oggi una capacità di riscatto, di giustizia e di pace che gli uomini non potevano immaginare quando vivevano nei limiti del vecchio mondo. Per il mondo nuovo che oggi si affaccia e le cui forme a malapena sapremmo intuire, la salvezza promessa dal Vangelo non ha certo esaurito la sua perenne novità. Esso apporta ai figli di Dio la sola risposta degna dell’uomo alle nuove sfide che la mondializzazione pone alla fraternità umana”.
Perché il papa ha chiamato il card. Lustiger ad aprire il concistoro che doveva trattare delle “prospettive” della Chiesa nel terzo millennio? Io credo che l’abbia scelto per il suo sguardo in avanti.
Lustiger è noto per quell’aperta profezia. E io lo amo per essa. Sono almeno dodici anni che la va proponendo. La prima esposizione d’insieme – ch’io sappia – la fece in occasione del dottorato honoris causa che gli fu dato dalla Facoltà teologica dell’Università di Augusta, il 17 novembre 1989: è riportata – con il titolo “La novità del Cristo e la post-modernità” – come ultimo capitolo nell’antologia di suoi testi intitolata Grazie a Dio. I diritti dell’uomo, tradotta in italiano dall’editore Massimo nel 1991.
Qualche spunto. “Il corso dei tempi comincia appena a manifestare l’originalità singolare del cristianesimo”; e ancora: “Annunciare il Vangelo oggi vuol dire manifestare, nello scenario delle invenzioni e delle scoperte del mondo moderno, una parabola ancora inedita dell’eterna fecondità di Dio, della novità sempre sorprendente della sua presenza”.
Secondo il cardinale arcivescovo di Parigi ci sono “tre esperienze comuni della coscienza contemporanea” – l’unità del genere umano, la capacità di autodistruzione, l’integrità della creazione -, che “comprovano la rinnovata attualità del messaggio evangelico”. Che cioè trovano nelle parole di Cristo una risposta adeguata. E infine: “Annunciare il Vangelo a un’epoca secolarizzata vuol dire aiutarla a scoprire, nella sua stessa originalità, parabole e figure dell’irriducibile novità del Vangelo: la nostra epoca pretende essere post-moderna, ma non è post-cristiana”. Il suo excursus si conclude con questo aforisma: “La post-modernità appartiene già agli inizi del cristianesimo”.
C’è consonanza tra il sentimento del tempo che muove il cardinale di Parigi e quello che ancora spinge Giovanni Paolo a “prendere il largo”. Il testo papale più rivolto al futuro è l’enciclica Redemptoris missio (1990), che ha un paragrafo intitolato “L’attività missionaria è solo agli inizi” (n. 30). Questo è l’incipit dell’enciclica: “La missione di Cristo redentore, affidata alla Chiesa, è ancora ben lontana dal suo compimento. Al termine del secondo millennio della sua venuta, uno sguardo d’insieme all’umanità dimostra che tale missione è ancora agli inizi” (EV 12/547).

Anche il mondo va verso la fine?
Il mondo va verso la fine? era intitolato un fascicolo di Concilium ([1998] 4) che guardava al nuovo millennio. Giudiziosamente i diversi specialisti invitavano a ogni prudenza nel porre limiti all’avventura dell’uomo sulla terra.
Un atteggiamento simile a quello con cui lo storico francese Henri-Iréné Marrou guardava, già nel 1953, al destino del pianeta avendo ancora negli occhi l’apocalisse della seconda guerra mondiale: La fine del mondo non è per domani (Medusa 2000). Con Marrou dunque – e con gli scrittori di Concilium – possiamo affermare ragionevolmente che “nulla ci permette di costruire la minima ipotesi sulla lunghezza della traiettoria che resta da percorrere”.
Questo pensano anche i teologi, rassegnati da tempo a “lasciar aperto al futuro del mondo qualsiasi spazio” (H. U. von Balthasar, Cordula ovverosia il caso serio, Queriniana, Brescia 1968, 86).
Era del resto quanto già pensava Giovanni XXIII, che un giorno confidò a Capovilla, a proposito delle responsabilità dei cristiani: “Chi conosce la storia sa che lentamente, lentamente la nostra Chiesa si è purificata. Faremo altri passi. Restano ancora tanti secoli davanti a noi” (Presbyteri [2000] 10, 787).
C’è un effetto calamita tra il sentimento cristiano d’essere agli inizi e quello analogo degli storici, che riflettono sui “milioni di anni preistorici” e sul fatto che “noi siamo soltanto a qualche millennio della nostra storia: siamo appena all’inizio, la storia è ancora bambina” (J. Le Goff, “Ora comincia un’altra storia”, in Corriere della sera 29.1.1999).
La convinzione della lunga durata storica raddoppia il sentimento cristiano d’essere agli inizi. “Passiamo risolutamente dalla Chiesa al Vangelo per rifare una Chiesa nuova”, scriveva lo storico credente Jean Delumeau a premessa del volume Il cristianesimo sta per morire? (SEI, Torino 1978, 16).
Si direbbe che gli storici siano aiutati dalla loro scienza a guardare avanti con occhio sgombro. Ma anche altre scienze sollecitano i credenti a guardare in quella direzione. “Il cristianesimo, rispetto all’evoluzione dell’umanità nel suo insieme, è appena agli inizi: è una religione nata da poco e balbettante”: così si esprime il gesuita francese Paul Valadier, che insegna antropologia ed etica al Centro Sevrès di Parigi (in A. Filippi, F. Strazzari (a cura di), La cosa più importante per la Chiesa del 2000, EDB, Bologna 2000, 186).

Non finisce mai di cominciare
Le scienze umane sembrano concordi nel lasciare spazio al futuro dell’uomo e dunque anche al domani cristiano. Il nostro ascolto del Vangelo “non finisce mai di cominciare”, dice suggestivamente il prete e psicanalista francese Maurice Bellet in Il corpo alla prova o della divina tenerezza (Servitium, Sotto il Monte BG 1996, 66).
Secondo Bellet, “il Vangelo non è stato ancora ascoltato”, e noi “ci troviamo in una situazione culturale così inedita che dobbiamo intendere il poema evangelico in maniera completamente originale, come fosse la prima volta” (Achille Rossi, prefazione all’edizione italiana del volume M. Bellet, Incipit o dell’inizio, Servitium, Sotto il Monte BG 1997, 8 ).
Come mai sono soprattutto i francesi a fare questo ragionamento del Vangelo ai primi passi? Per aggiungere ancora una voce, ecco Jean Guitton: “Io penso che arriverà un giorno in cui tutto il mondo sarà evangelizzato”, dice in un’intervista l’amico di papa Montini e subito annota che – per quell’adempimento – si chiedono tempi lunghi, perché “l’evangelizzazione dell’estremo Oriente è appena cominciata” (La fede. Colloquio di Marino Parodi con Jean Guitton, Liberal Libri, Firenze 1999, 22).

Tocca ai francesi guardare avanti
Io penso che tocchi ai francesi guardare avanti perché sono – tra i cristiani cattolici – i meno spaventati dalla modernità, nella quale si sono avventurati camminando dietro le due grandi luci di Teresa di Lisieux e di Charles de Foucauld, nuova Teresa d’Avila e nuovo Francesco d’Assisi, mandati alla nostra epoca a mostrare un modo nuovo e accessibile a tutti di vivere il Vangelo: quello della piccola sorella e del piccolo fratello universali.
Nella modernità i cristiani sanno finalmente che non devono cercare cose grandi. In essa entrano spogliati del potere che gestirono un tempo. È stata strappata loro di mano la spada con cui un tempo fecero scendere i popoli nei fiumi per battesimi epocali. Ma questa inermità – se accettata – si rivela come la condizione più prossima a quella scelta e comandata da Cristo. Ce lo hanno appunto mostrato Teresa, che si siede “alla mensa dei poveri peccatori”, e Charles, che sceglie il deserto dove mostrarsi “fratello all’ebreo, al musulmano e all’ateo”. E di nuovo ce lo ha indicato il card. Lustiger, quando ha celebrato in Notre Dame il martirio dei monaci francesi d’Algeria (1996), presentandolo come attestazione dei tempi nuovi del Vangelo, vissuti nel segno della vicinanza umana e del perdono.
Forse dunque non è un caso che sia toccato ai francesi guardare avanti e interpretare nel post-moderno il sentimento di quella che Paul Claudel chiamava “l’eterna infanzia di Dio”.
Tocca ai francesi e a chi è andato a scuola dai francesi. Ho sentito più volte Carlo Caretto – discepolo di Charles de Foucauld – incoraggiare con queste parole chi l’ascoltava sui prati di Spello: “Siamo come al principio. Siamo come i primi cristiani”.

Offrire al mondo il volto di Cristo
Non so per quali vie quell’insegnamento che ci viene dalla Francia abbia fecondato la predicazione di Giovanni Paolo II, o si sia sposato – nella sua anima – ad altra eredità, forse legata al sentimento slavo dell’anno millenario. Ma è certa la somiglianza di queste sue parole con quelle del card. Lustiger che abbiamo citato sopra: “Offrire al mondo secolarizzato il volto di Cristo come fonte di speranza e di dignità: è una sfida di fede che lancia tutta la Chiesa verso un futuro sconosciuto, ma certamente pieno di potenzialità e di ottimismo per il regno di Dio” (29.9.1989).
Avverto quella sfida del futuro sconosciuto quando parlo di Gesù ai miei figli secolarizzati.

Luigi Accattoli
da Il Regno 14/2001

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