Come fu che non diventai democristiano

L’uso del passato è l’argomento di questa puntata: se vi sia un esercizio cristiano della memoria e che preghiera possa venire dal “giorno di ieri che è passato”.

Un uso leggero del passato
L’estate per me è la stagione della memoria. Quando resto solo in città, basta la luce sulle case a ubriacarmi di passato. Ma possono contribuire all’abbaglio una figlia che va a Genova a manifestare contro il G8 (20-22 luglio) e la chiamata a coordinare una serata delle ACLI a Vallombrosa (31 agosto) sui fatti di trent’anni fa.
Nell’estate 2000 fu la morte di Fiorentino Sullo, avvenuta il 4 luglio, a impegnarmi in un corpo a corpo intrecciatissimo con il me stesso di 33 anni prima. Forse dovevo a quel rispettabile personaggio della “corrente di base” se non ero diventato democristiano. E che cosa invece diventai e se era stato un vantaggio, o che altro.

“Torni in giacca e cravatta”
Ringraziai Sullo in morte, chiedendomi se avesse senso ringraziare qualcuno per non essere diventato qualcosa. E se sia da considerare una disgrazia l’essere stati democristiani, o comunisti, o socialisti, che oggi sono nomi sfortunati. E infine che si debba pensare della vita che facciamo, quando non ci piace più.
Era il 1967 e facevo lettere all’Università di Roma. Senza saperne il nome, ero un free-lance: scrivevo articoli per le pagine culturali e li portavo ai giornali.
Sullo dirigeva il settimanale La Discussione, che è finito tra le salmerie toccate a Buttiglione, il quale l’ha trasformato in “quotidiano dei Cristiani democratici uniti”, mantenendogli la dicitura “fondato da Alcide De Gasperi”. Una fine in coda di pesce, ma forse è andata peggio a Rinascita, che lessi negli anni più de La Discussione: era “fondato da Palmiro Togliatti” e oggi non c’è più.
Ero al pensionato romano della Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI) “Igino Righetti”. Non era ancora spuntato il sessantotto, con le sue nuove costellazioni, e noi fucini eravamo naturaliter democristiani. Dunque scrissi due articoli e li portai al settimanale. Pensavo che due – per un lanciatore libero – fossero meglio di uno.
Li consegnai al segretario di redazione in via IV Novembre, a due passi da via della Pilotta, dov’è la Pontificia università gregoriana. Dopo un mese il segretario mi disse: “Sono piaciuti al direttore, che li pubblicherà e che vorrebbe farle una proposta di collaborazione. Venga domani alle 10”.
Quando tornai il segretario di redazione non c’era. L’usciere mi accolse – anzi mi respinse – così: “Lei ha l’appuntamento? Ma dall’onorevole si va in giacca e cravatta! Torni giovedì alla stessa ora”.
Non tornai perché non avevo camicie e cravatta: andavo avanti con una giacca e due maglioni che si alternavano in lavanderia. Vestivo meglio dei miei fratelli contadini e a me bastava. I figli ridono quando racconto che d’inverno non uscivo la sera perché non avevo il cappotto e così facevo tanti esami a febbraio.
Migliorato il guardaroba, quattordici anni più tardi sono entrato al Corriere della sera, dove valeva ancora la regola della giacca e della cravatta: nessuno scandalo dunque. Anzi una schietta gratitudine all’onorevole Sullo, che da lì a qualche mese divenne ministro della Pubblica istruzione; e il sessantotto poté partire con i cortei che gridavano “contro la riforma Sullo”.

Ognuno conosce il suo peccato
Se Sullo mi proponeva di collaborare, io accettavo e mi sarei ritrovato democristiano a vita. A motivo poi della lentezza in curva che caratterizza anche la mia guida dell’automobile, penso che democristiano lo sarei ancora. Come lo sono alcuni o molti, pur non essendoci più la DC. E temo che oggi sia una condizione penosa, di apolide più che di esule.
Non riuscendo io a pagare la retta del pensionato con l’attività di free-lance, i presidenti della FUCI Giovanni Benzoni e Mirella Gallinaro mi fecero lavorare a Ricerca, la rivista della Federazione. Il condirettore di Ricerca era Angelo Bertani, e ne è venuta – come per Giovanni e Mirella – l’amicizia di una vita.
Dopo Ricerca bazzicai Settegiorni, la rivista della sinistra DC diretta da Orfei e Pratesi, dove feci qualcosa come il vice del vaticanista Sandro Magister. Poi entrai a Il Regno, avendo incontrato a un congresso delle ACLI (Cagliari 1972) Alfio Filippi, che mi trovò sfaccendato e mi chiamò a lavorare nella sua vigna. Dal Regno passai a La Repubblica, quando Scalfari fondò il suo giornale (1976) e a me era nato il primo figlio. Per l’assunzione fu decisivo il parere di Sandro Magister, che nel frattempo era passato all’Espresso. Da La Repubblica al Corriere della Sera ci saltai vent’anni fa.
Guardando indietro, non vedo nessuna ragione per vantarmi di non essere divenuto democristiano. Fu all’incirca un caso. E guardando intorno non vedo motivo di compiangere i coetanei che democristiani divennero e restarono. Anche se certo ne venne loro qualche problema in più, compresa la perdita del lavoro, quando la balena si arenò.
Con tangentopoli, i giornalisti democristiani sono stati accusati in solido di aver tenuto il sacco ai ladroni di stato. Ma è andata anche peggio a chi divenne socialista. Un poco meglio invece a chi si fece comunista, che però si dovrà discolpare a vita per la lentezza – che oggi pare incredibile – nell’avvertire il cambio dell’epoca. Ognuno conosce il suo peccato.
Anche chi non divenne nulla lo conosce. E io sono tra questi. Ho frequentato da esterno le feste dell'”Unità” e le pagine di Rinascita, chiedendo a quel partito di aprire porte e finestre, per ridurre il tasso dell’ideologia e non è servito – si direbbe – a niente. Come non hanno ottenuto granché gli amici che hanno fatto ottime prediche sui fogli democristiani.
La conclusione provvisoria è per un uso leggero del passato nostro e altrui. Per evitare che le pagliuzze degli altri nascondano le nostre travi. E perché solo nel silenzio coglieremo l’invito a convertirci e a credere al Vangelo che ci può venire da ciò che siamo stati.

Una figlia no-global
Eccomi a litigare con la figlia che parte per Genova. Poi l’ascolto che racconta al telefonino – correndo – le cariche della polizia e le violenze delle tute nere. Le metto da parte i giornali e le e-mail della controinformazione che mi mandano gli amici. Ne discutiamo interminabilmente e le passo quello che scrivevo del movimento degli studenti quando volgeva il mitico sessantotto e io avevo la sua età. “Un sampietrino non fa rivoluzione” è il titolo di un mio articolo per Ricerca.
Anche allora ci fu un morto, nella facoltà romana di magistero occupata dagli studenti. E lo scatenamento dei giornali di destra sui danneggiamenti, mentre quelli di sinistra gridavano contro “l’invasione armata degli atenei”. Anche noi allora – come ora i nostri figli – eravamo convinti che la politica fosse tempesta di cervelli e che i fatti avrebbero seguito le idee. Come se bastasse spostare queste più in là, per smuovere quelli. Ma quando mai!
Eppure io sono contento che una mia figlia sia stata a Genova. Che tanti giovani tornino a interessarsi alle cose del mondo, esponendosi al rischio delle compagnie violente e delle manganellate. Ma rivendicando il diritto a cercare in campo aperto una migliore fedeltà al proprio destino e ai destini generali.

Se il padre Sorge è ancora quello
Quanto scrivevo trenta e più anni fa su Ricerca a proposito del movimento degli studenti, l’ho riletto insieme a ciò che scrivevo delle ACLI, seguendo il congresso di Torino che ruppe il collateralismo con la DC (1969), il convegno di Vallombrosa che propose l'”ipotesi socialista” (1970) e la “deplorazione” di Paolo VI (1971).
Ho lodato le ACLI per il coraggio di dedicare a quella stagione travagliata un “momento della memoria”, dove mi è stato affidato il compito di coordinare i racconti del vescovo Fernando Charrier (che allora era assistente di Gioventù aclista), di Emilio Gabaglio (il “giovane presidente” eletto dopo Torino) e del padre Bartolomeo Sorge, che il sostituto Benelli volle nel gruppo di ecclesiastici che “dialogava” con gli aclisti tra il 1970 e il 1971.
Quella sera a Vallombrosa ho udito una signora confidare agli amici che non sarebbe venuta al “momento della memoria”, perché aveva “sofferto troppo per quei fatti”. E un uomo della stessa età che diceva: “Sono curioso di vedere se il padre Sorge è ancora quello di allora”.
A me parve che lo fosse, mosso come sempre da un’inquietudine che gli impedisce di adattarsi all’esistente. E anche Charrier e Gabaglio, nella loro sofferenza gemella, concordi tutti e due a non ritenerla inutile. E d’accordo anch’io che la FUCI, le ACLI e l’Azione cattolica della scelta religiosa – e ogni altra famiglia che partecipò a quel travaglio – prepararono la comunità cattolica ai tempi nuovi della politica. Se la fine del partito cattolico non è stata traumatica, lo dobbiamo – io credo – ai gruppi che per tempo si erano presi il rischio delle scelte politiche, alla ricerca di una fedeltà creativa al nome cristiano.
La stagione estiva della memoria l’ho conclusa con il Salmo 90: “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore”. Tenere tutto dentro e purificarne la memoria, imparando la pietà per noi e per gli altri. Invocare il dono della sapienza per intendere gli errori di ieri e le possibilità di oggi. Guardare avanti a nome di tutti.

Luigi Accattoli
da Il Regno 16/2001

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