Finché qui si coltiverà il grano

Sono stato nel libro di Rut a raccogliere spighe
Ho scoperto da una telefonata che i miei fratelli contadini potrebbero cessare di seminare il grano dall’oggi al domani. Tale scoperta ha raddoppiato il mio sentimento della precarietà d’ogni operazione umana, perché se ce n’era una – ai miei occhi – destinata a durare, questa era la coltivazione del grano.
Hai vendemmiato? Come va la raccolta delle olive? Sono le domande con cui chiudo le telefonate domenicali ai fratelli che sono ancora contadini, nella campagna tra Recanati e Osimo, ma saranno gli ultimi perché nessuno dei figli farà il loro mestiere. E già loro stessi sono tentati di smettere – come vent’anni fa avevano tolto la stalla – perché «il lavoro della terra non rende più».

«Quest’anno non semineremo»
«Non abbiamo ancora seminato», mi diceva a fine ottobre Anna, una tenace cognata che conduce ancora tutto l’allevamento da cortile tipico delle campagne marchigiane, produce per casa e vende tutto l’anno ai conoscenti olio, vino, uova, conigli e pollame: «Anzi Sergio dice che quest’anno neanche semineremo, perché con l’ultimo raccolto non abbiamo guadagnato quasi niente e per il prossimo anno si mette anche peggio».
Non seminerete? Non so che dire, come alla notizia di una malattia. La semina e la mietitura del grano, l’alfa e l’omega della vita dei campi. Nove mesi di attesa come per l’arrivo di un figlio. E io a fare domande al telefono, lungo i mesi, per sapere se il grano cresce bene, se hanno tracciato i fossetti per lo scolo delle acque, che sono detti «acquarecci», come va con i concimi e il diserbo e se in qualche campo il grano si è «corcato» – per una pioggia – prima di spigare.
Capito dai miei parenti proprio nel mezzo della disputa sulla convenienza o meno della semina ed eccoci riuniti sull’aia in quieta chiacchiera, rivolti al sole che cala e non scotta. C’è chi racconta della «festa del covo» di Campocavallo (Osimo), che è la parrocchia dei miei parenti. Festa caratterizzata da un carro che trasporta una raffigurazione ogni anno diversa – e quasi sempre a carattere religioso – ottenuta con spighe di grano intrecciate. C’è pure un sito Internet che ne parla con il giusto orgoglio dei borghi per le loro tradizioni: www.festadelcovo.net.
Dice il cognato Armando: «Il covo ha la mia età, si fa dal 1939 ma non so quanto potrà durare ancora». È pessimista Armando sulle tradizioni che se ne vanno, con i ragazzi che non vogliono più saperne di lavorare la terra. Ogni anno, da quel 1939 che portò la guerra, nella contrada di Campocavallo si costruisce il covo con tecniche sempre più raffinate, a riproduzione – ultimamente – di basiliche e santuari.
I primi tempi – come si vede nel volume La festa del covo di Campocavallo (2003), che mi hanno regalato in occasione di una visita al Museo del covo – i soggetti erano più vari: dall’addobbo con spighe del quadro della Vergine addolorata che si venera nel santuario di Campocavallo all’ostensorio, alla «barca di Pietro», alla colomba della pace, ai simboli del calice, del pane e dei pesci, dell’àncora, delle sette spade. O anche l’Italia che eleggeva i consigli regionali (1970), o l’elezione del primo Parlamento europeo (1979). In pratica dei mosaici di spighe più chiare e più scure a raffigurare l’Italia e l’Europa.
Al covo si lavora tutto l’anno: a scegliere le spighe, a realizzare le trecce, a coprire con esse le strutture in legno e ferro che riproducono in scala il santuario di Lourdes o la basilica del santo di Padova. Con incantata minuzia.

Ora vanno girasoli ed erba medica
«Quando finirà la nostra generazione – dice Armando – finirà anche il covo». Obietto che no, le tradizioni anzi hanno una ripresa tra i giovani e questa è bella – su ciò nell’aia c’è un pieno accordo – e «durerà finché in queste terre si coltiverà il grano». «Allora – fa Armando – durerà sempre, perché la coltivazione del grano non finirà mai».
«Non ne sono così sicuro», dice Sergio. «Se il prezzo del grano resta fermo, mentre continua ad aumentare quello dei concimi e dei carburanti, non ce la faremo più a coltivarlo. Sto facendo il conto della semente, dei concimi, del diserbo, della mietitrebbia e non so se vado in paro».
Ma che campagna è se non semini il grano? Puoi mettere i girasoli, o l’erba medica, o lasciare il terreno «a sodo», cioè non coltivato, limitandoti a incassare il contributo dell’Unione Europea per il sostegno dell’agricoltura. «Ma che non metti il grano per niente pare una cosa da non dire», è il commento – in coro – dei miei fratelli.

Il ciclo del grano era sotto il segno della croce
«Da non dire» – nella lingua dei contadini delle Marche – sono le cose nefaste, da scongiurare con un segno di croce. Tutto il ciclo del grano e del pane veniva posto sotto il segno della croce ed eri preparato quando vedevi il prete all’altare che tracciava quel segno sull’ostia.
Si faceva un segno di croce sul mucchio del grano, appena riposto nel granaio. Si mettevano croci di canna in capo ai filari, nella zona del campo coltivata a grano. Sulle croci s’infilavano rametti dell’ulivo che era stato benedetto in chiesa la domenica delle Palme.
Quelle croci venivano poi piantate sul covone più alto delle biche – dette «cavalletti» – in cui si sistemava il grano nei campi, tra la mietitura e la trebbiatura. Poi lo si portava sull’aia a formare un unico mucchio grandioso, detto «barcone», alto come una casa e con l’ultimo strato di covoni messi a spiovente come un tetto. Sul punto più alto del barcone si metteva una croce.
Una croce si faceva sulla pasta lasciata per una notte a lievitare nella madia e un’altra su ognuna delle pagnotte prima di metterle nel forno e un’ultima, infine, sull’uscio del forno appena richiuso, tracciata con la pala di legno dell’infornatura. Il forno con il pane dentro era un luogo santo come una donna incinta.
La croce veniva posta a protezione dai topi, dai fulmini e da ogni danno che potesse venire dall’inimicus homo, com’era detto nel latino del parroco quel buio personaggio del Vangelo che di notte semina zizzania nel campo del grano.
Come periodo del mio distacco dai campi immagino di potere indicare quello che va dalla fine dell’università all’inizio del lavoro di giornalista. Prima passavo almeno l’intera estate in campagna e credo che tre mesi vissuti lì, aiutando nei campi, ti mantengano contadino.

Mi dispiace vedere tante spighe per terra
Da allora giro il mondo sempre guardandolo come un prolungamento della campagna in cui sono nato. Chiedo il posto vicino ai vetri e lo tengo d’occhio dall’aereo e da ogni finestra. Mi piace vedere città, montagne e mari, ma non trovo spettacolo più festante dei campi di grano a maggio e giugno, quando lievitano sotto il sole e crescono a pareggiare quasi le viti e i canneti.
Non ho mai visto una magia più lucente di quella delle lucciole che riguardano il grano nella notte sciamando in ogni direzione. Non so indicare un colore più caldo dell’oro delle stoppie. Non conosco profumo più croccante di quello delle pagnotte appena sfornate e mangiate calde lì davanti alla bocca del forno, spezzandole con le mani. «Non taglierai il pane con il coltello», c’è scritto in Pitagora.
Tengo tutto questo dentro di me. Il mio attaccamento ai campi si manifesta in maniera patetica solo una volta all’anno quando sono in vacanza, in luglio, a Santa Marinella e mentre i miei sono al mare io me ne vado un pomeriggio in un campo di stoppie a raccogliere un bel mazzo di spighe che poi porto a Roma e tengo sulla credenza.
Da piccolino andavo con la mamma a spigolare. Ripensandoci mi pare di essere stato più di una volta nel libro di Rut a raccogliere spighe con lei nei campi di Booz. Mi dispiace vedere che le mietitrebbie lasciano tante spighe a terra. Figuriamoci come mi spaventa l’idea che domani non si abbia più a coltivare il grano nei luoghi dove la gente mia campagnola l’ha fatto forse per tremila anni.
Ho interrogato gli esperti e mi hanno rassicurato: la coltivazione del grano cambia ma non cessa, viene sempre più spesso abbandonata dai piccoli coltivatori ma è ancora rimunerativa per le grandi aziende, comprese quelle dislocate in zone collinari.
Proprio nei luoghi dove sono i poderi degli Accattoli la soglia del rendimento – mi dice Luca, un perito agrario con il quale sono imparentato – è sui dieci ettari: una coltivazione che li superi ha un «margine apprezzabile», al di sotto «conviene fare bene i conti prima di seminare».

Quando tre ettari sfamavano dieci bocche
Dieci ettari per la mia mitologia contadina sono tantissimi! Quando sono nato io, i miei coltivavano una terra di tre ettari appena ed eravamo dieci bocche: i nostri genitori, noi sette e una nonna. A vedere com’è piccola quella casa e minuscola quella terra – ora che sono stati tolti gli alberi da frutto e i filari che la popolavano e l’ingrandivano – mi chiedo come facevamo mai a sfamarci e a trovare posto quando andavamo a dormire! Dicevo tre ettari, ma la coltivazione del grano era annualmente su un ettaro e mezzo, dal momento che si coltivava a rotazione, perché – come già insegnava Virgilio nel primo libro delle Georgiche – il raccolto del grano è più abbondante «se la zolla avrà sentito due volte il sole e due volte il freddo».
Tutti i miei fratelli hanno sempre avuto terre inferiori ai dieci ettari e dunque davvero sta finendo la tradizionale conduzione diretta dei terreni da parte di un solo coltivatore. Immagino che a Campocavallo intrecceranno ancora le spighe per il covo, ma dovranno prenderle dalle medie e grandi aziende. Del resto anche in quel paese innocente sono state ormai introdotte le rotatorie per il traffico e già da tempo il segno di croce sul pane i bambini lo vedono fare solo in chiesa.

Luigi Accattoli
da Il Regno 2/2007

Lascia un commento