Racconto fatti di Vangelo: e la privacy?


Uso il blog – www.luigiaccattoli.it – come laboratorio per la ricerca di “fatti di Vangelo” e con esso raccolgo buoni materiali, o cerco ampliamenti di storie che mi sono già note, chiedendo ai visitatori “chi sa mi dica”. Con un post del 3 gennaio ho chiesto aiuto per avere un completamento della storia di Aurelio Andreoli, malato di Aids, che ha narrato la sua vicenda – compreso il recupero della fede nella malattia – in un diario pubblicato da Marsilio nel 1999 (Il bacio di Francesco. Un credente nella notte dell’Aids): dall’editore e da Ernesto Olivero prefatore del volumetto ho saputo che nel frattempo Aurelio è morto ma non sono riuscito a conoscere la data né le circostanze della morte. Dai visitatori non ho avuto contributi conoscitivi ma varie considerazioni e una dura protesta.

Scusate se sono brutale – ha scritto a commento di quel post una visitatrice che si firma discepolo – ma trovo che questo ficcare il naso nella morte di una persona sia una forma sublimata di voyeurismo morboso, anche se a fin di bene. La morte ha una sua intimità che nessuno ha diritto di violare, neanche per la legittima curiosità di sapere che cosa ha detto questo sant’uomo negli ultimi istanti. Gli ultimi istanti e le eventuali ultime parole vanno lasciati al silenzio”.

 

Le parole di chi muore

nella speranza della risurrezione

Sono quasi vent’anni che vado raccogliendo storie di vite convertite e ritengo importante l’attestazione di chi muore nella speranza della risurrezione. Quell’attestazione passa per i testamenti, il modo della morte, l’eventuale conversazione del morente con chi gli è vicino, le sue indicazioni per la tomba o la messa di addio.

Ho cercato di ottenere questi elementi informativi ogni volta che mi parevano utili e li ho narrati in centinaia di storie che sono consultabili nei due volumi intitolati Cerco fatti di Vangelo pubblicati uno dalla SEI nel 1995 e un altro dalla EDB nel 2011 (un terzo uscirà con la EDB il prossimo marzo), ma anche nella pagina del blog che ha quello stesso titolo. Tra le storie presenti nel blog al capitolo 14 (Dalla droga dall’Aids dalla strada e da ogni male) c’è quella di Aurelio Andreoli.

Desiderando completarla così avevo scritto nel post, provocando la protesta della visitatrice: “Da quando lessi il diario di Aurelio sono alla ricerca di notizie sulla morte di questo cristiano meritevole di memoria. Vorrei sapere chi l’ha accompagnato negli ultimi giorni, se abbiamo le sue ultime parole, dove sia sepolto. Ho chiesto qua e là ma senza esito. Ora lancio la richiesta nella Rete: chi sa di Aurelio mi parli di lui”.

E’ lecita una tale indagine o costituisce violazione della privacy? Più volte mi è capitato – nonostante la prudenza del giornalista sperimentato – di incappare
in obiezioni simili a quella della visitatrice: “Come si è permesso di pubblicare quel testamento, quella lettera, quella preghiera letta in chiesa, di farsi raccontare quelle ultime parole dai familiari”. Ho sempre seguito le regole del buon giornalismo, riproducendo testi già pubblici o chiedendo l’autorizzazione a riportare quelli inediti. Ma avverto che la correttezza del pubblicista non è l’obiettivo della protesta di tanti, che piuttosto mettono in discussione la stessa opportunità di indagare, e non solo sulla morte ma anche sulla vita delle persone, sui gesti di carità, sulle attestazioni della fede.

Una visitatrice milanese di nome Emilia dice di condividere la mia passione per i “fatti di Vangelo” ma di trovarsi in difficoltà a rispondere quando le obiettano che non è il caso di “anticipare il giudizio della Chiesa” o le ricordano che “Paolo ha scritto a Timoteo d’insistere in ogni occasione nell’annunciare la Parola, non la storia di chissà chi”.

 

Voi risplendete

come astri nel mondo”

Anch’io sono stato rimproverato da lettori o uditori occasionali per aver usato la parola “santo” o “giusto” nell’accezione biblica, come se ciò fosse facoltà d’ognuno. E ho sentito usare contro di me le raccomandazioni evangeliche “Quando tu preghi, entra nella tua camera e chiudi la porta” (Matteo 6,6); “Non sappia la tua sinistra quello che fa la tua destra” (Matteo 6, 3); “Ciò che tra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole” (Luca 16, 15); “Come potete credere voi che ricevete gloria gli uni dagli altri e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Giovanni 5, 44).

Alle citazioni rispondo con le citazioni: “Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli” (Matteo 5, 14-16); “Chi fa il male odia la luce (…). Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio” (Giovanni 3, 20s); “In mezzo a una generazione malvagia e superba voi risplendete come astri nel mondo” (Filippesi 2, 15).

Citando e controcitando ci si diverte – io mi diverto – ma non si va lontano. Già dovettero avvedersene Gesù e il Satana nel deserto. Occorre interpretare ogni detto nell’insieme della Scrittura e alla luce del comportamento di Gesù e dell’intelligenza che ne ha avuto e ne ha la Chiesa.

Un punto per me è chiaro: è inaccettabile ogni esibizione della preghiera, dell’elemosina, del digiuno che sia dettata da intento promozionale mondano. Denaro, audience, fama di santità: nella Chiesa nulla si vende meglio della fama di santità. Ma questo divieto non toglie che si faccia conoscere il bene operato disinteressatamente e disinteressatamente a noi narrato. Chi narra sa sempre perché narra.

 

La propaganda della fede

ha la sua legittimità

Altro punto chiaro: io racconto. A me non compete comprovare, valutare, riconoscere. A me – giornalista trovarobe – spetta la sola narrazione. Nel condurla è giusto che io mi ispiri ai Vangeli, che sono anche narrazioni. In essi sono narrate le ultime parole dei morenti (comprese quelle di Gesù e del ladrone), le preghiere di tanti, le conversioni, atti di generosità minimi e massimi. Se di tutto questo non dovesse esservi narrazione, allora vuol dire che i Vangeli sono sbagliati.

Un ragazzo fa una preghiera di perdono alla messa di addio per l’intera sua famiglia sterminata da un folle. Gli chiedo di pubblicare quel testo. Egli – che nel frattempo è divenuto adulto e ha figli – obietta che il Vangelo invita a pregare nel segreto. Io osservo che quella sua preghiera fu comunque pubblica. Egli replica che “lì” quella preghiera pubblica era nel giusto luogo perché si trattava di un’assemblea liturgica che pregava con lui mentre al di fuori di un contesto orante si verrebbe a configurare un elemento di propaganda. Io controargomento che la propaganda della fede (De Propaganda Fidei) ha la sua legittimità, purchè svolta disinteressatamente e faccio riferimento alle invocazioni che riempiono i Vangeli e che furono preghiera in atto e poi – nel testo evangelico – preghiera narrata: dunque la narrazione della preghiera non è proibita.

Se Matteo 8 narra la preghiera del centurione (“Signore io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto”) e se Luca 22 narra l’invocazione di Gesù al Padre nell’Orto degli Ulivi (“Padre, se vuoi, allontana da me questo calice”) vuol dire che la preghiera è narrabile.

 

Il convertito di Medjugiorjie

come Zaccheo che dona ai poveri

Lo stesso dirò per le conversioni. Poniamo che il nostro fatto sia la conversione di un bandito o di un morente di Aids. L’obiezione prima sarà che facciamo propaganda, e qui qualcosa abbiamo già detto: la propaganda è riscattata dal disinteresse. Ma diranno anche che narrando quella conversione facciamo violenza a quella persona, o alla sua memoria, o alla famiglia. Ma allora – dico io – come spieghiamo che i Vangeli narrino la conversione in morte del ladrone, quella della samaritana con i cinque mariti “e quello che hai ora non è tuo marito” (Giovanni 4) e quella della peccatrice che bagna di lacrime i piedi di Gesù? Il Maestro non proibisce questi racconti, anzi li sollecita: segnala ai discepoli la vedova che getta due monetine nel tesoro del tempio e dice della donna con il vaso di alabastro: “Dovunque sarà proclamato il Vangelo si dirà quello che ha fatto” (Marco ai capitoli 12 e 14).

Qualcuno vive una conversione a Medjiugorjie e spende dieci milioni di euro per realizzare in loco un Cittadella per giovani disadattati. “Raccontare questo fatto non è pubblicità?” Controdomando: e Luca 12, che narra di Zaccheo che dà ai poveri “la metà di ciò che possiede”?

 

Imparo a distinguere

le storie dalle parabole

Il narratore rispetta la volontà di nascondimento dell’interlocutore ma anche si propone un lavoro di convincimento. Intervisto un malato di Aids che accetta di apparire con nome e cognome ma sa che i genitori sono contrari: è un caso che mi è capitato. Propongo ai genitori di partecipare alla conversazione perchè vedano che cosa cerco. Alla fine accettano che io metta il nome e la città e le date, tacendo il cognome: “Perché il cognome non è solo nostro”.

La giusta via – io credo – è quella di una reciproca pedagogia: del giornalista che mira alla comunicazione e dei protagonisti intesi alla riservatezza. Si pianta la bandierina dove arriva il convincimento. Molte storie per questa ragione restano inedite o vengono rubricate come “parabole”. Se non si possono mettere i dati essenziali per un riscontro documentale – nome e cognome, luogo e date – il “fatto” potrà essere comunque narrato ma secondo un genere morale più che fattuale. Tra i capitoli della mia pagina internet intitolata Cerco fatti di Vangelo l’ultimo, che ha il numero 21, è intitolato “Parabole” e contiene fatti minimi o anche grandi ma privi di verificabilità documentale. Un giorno forse pubblicherò un volume di “parabole”.

 

Da Il Regno 2/2012

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