Giuseppe Siri. Le sue immagini, le sue parole

di Benny Lai e Annamaria Scavo
Introduzione di Andrea Riccardi
De Ferrari editore
pp. 172, euro 14

Presentazione all’Istituto Sturzo il 18 settembre 2008
con Giulio Andreotti, Andrea Riccardi e Paolo Gheda

Sono contento di essere stato chiamato a questa presentazione perché così ho letto per intero il libro ed è stata una buona lettura. Ne ho avuto tre acquisti: il dono della lingua asciutta che aveva Siri, già a tutti noto ma qui meglio godibile stante il tono informale delle conversazioni; le foto rare che lo raccontano, la maggior parte da me mai viste; alcune vicende – e una soprattutto, che denominerò “apprendistato curiale” – meglio lumeggiate.

Innanzitutto la lingua. E’ una bellezza leggerlo, un godimento dell’intelletto. Una parlata sempre visiva, mai astratta.
Per esempio i compaesani della Valle dell’Olba: “Era gente forte, intelligente. Tutti longilinei, asciutti” (p. 18).
Montini: “Guardava con quegli occhi che parevano dardi” (100). E ancora: “Montini era fatto a guglie gotiche e non a cupole quanto a intelligenza” (101).
Il cardinale Boetto: “Era un omone grasso, tutto tondo. Pancia tonda, volto tondo” (45).
Ma la parlata di Siri è capace anche di stacchi narrativi degni di un regista del grande cinema: “Nella notte successiva alla morte di Minoretti il Papa stentava a prendere sonno. Forse a causa del chiarore della luna che entrava nella sua stanza” (43).
Anche nelle monizioni il linguaggio è a vocazione visiva: “Il tempo è breve, usatelo bene” (157).

Tra le foto ce ne sono alcune che non solo ci informano – questo lo fanno tutte – ma completano il ritratto di Siri, l’arricchiscono di umanità, proprio come la parlata.
Quella davvero forte della copertina, una scelta felice: dice l’uomo maturo, il suo distacco tra il paterno e l’ironico, come dicesse – poniamo dei suoi collaboratori – “non sbagliano molto perché sanno che tengo gli occhi aperti” (67).
Quella del celebrante (15) che è stata scelta per accostarlo ai sei papi di cui racconta. Un’immagine insieme ieratica e verace. Insomma: vero uomo e vero prete.
Ce n’è una che lo mostra ridente tra la folla “pazza di gioia”, dice lui, di piazza San Pietro, all’indomani della Conciliazione tra lo Stato e la Chiesa (36). Su quella “gioia” tornerò.
Una che lo ritrae giovanissimo, viso aperto e colloquiale, come docente nei corsi per laureati a Camaldoli (40).
Mi piacerebbe continuare l’antologia. Mi fermo su una che ce lo mostra in primo piano con papa Wojtyla durante la visita a Genova del settembre del 1985: due volti di sorprendente comunicativa. Tutti l’abbiamo sempre detto dell’uomo Wojtyla, non tutti l’abbiamo detto – o lo diremmo – di Siri eppure così qui ci appaiono (151).

E ora – a proposito di questi due volti della Chiesa – faccio uno stacco narrativo anch’io, come fossi un regista e racconto ciò che vidi la domenica 22 settembre 1985 al Palasport di Genova e non fu poco: un’immagine che riassumeva un passaggio d’epoca. Ecco Giovanni Paolo che prende tra le mani il volto della ragazza che l’ha salutato a nome di 13 mila compagni e la bacia in fronte; la ragazza va dal cardinale Siri, che sta a due passi dal pontefice, un gradino più in basso e l’arcivescovo ottantenne alza la mano e offre l’anello da baciare. Dal bacio della mano al bacio in fronte. Forse lo stacco tra quella gestualità antica e l’altra contemporanea ci dice perché Siri non sia stato eletto papa, pur essendo entrato come papabile in quattro conclavi. E qui dico una battuta al collega Benny Lai che – nella sua lunga fedeltà all’amico cardinale Siri – non ha mai cessato di interrogarsi su questo fatto della mancata elezione, fino a intitolare un suo libro “Il Papa non eletto. Giuseppe Siri cardinale di Santa Romana Chiesa” (Laterza, Roma-Bari 1993): è successo perché la prima volta (nel 1958) Siri era troppo giovane, le altre tre volte (nel 1963 e nei due conclavi del 1978) era troppo vecchio. Un invecchiamento veloce, dovuto all’accelerazione impressa al mondo ecclesiastico dal Concilio Vaticano II.

Che egli fosse un personaggio antico rispetto per esempio a Montini – che aveva nove anni di più – lo capiamo da tanti elementi della formazione e della cultura dei due, ma lo percepiamo anche solo da un episodio a lungo narrato e goduto da Siri in queste memorie parlate: la sua gioiosa, entusiastica partecipazione agli eventi della Conciliazione, nel 1929 – basterà paragonare quella gioia alla profonda tristezza che la stipula dei Patti Lateranensi ingenerava nel trentaduenne Montini, già attivo nella Segreteria di Stato vaticana – basterà questo confronto per dire che Siri apparteneva per intero a quel mondo sul quale il rinnovamento roncalliano e conciliare farà scendere il sipario nel giro di appena cinque anni.

Leggendo mi sono chiesto che cosa imparavo, con questo libro, che non sapessi. Direi che ho appreso un aspetto minore della figura di Siri, ma che è forse quello che meglio ci spiega l’origine della sua affermazione ecclesiastica: le modalità del suo apprendistato curiale. Sì, parlo di apprendistato curiale anche se Siri non ha mai fatto parte della Curia. Egli di fatto ha avuto un ruolo di grande curiale, cioè di collaboratore dei papi e questo si può dire di tre papi: Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI. Avrebbe potuto averlo con Giovanni Paolo I ma non ci fu il tempo, e non l’ebbe con Giovanni Paolo II.
E’ stato un collaboratore di tre papi e lo è stato da Genova! Credo non vi sia stata mai una simile figura di grande curiale extra moenia che abbia protratto la sua funzione informale per oltre trent’anni, nel variare dei pontificati.
Che avesse avuto questo ruolo si sapeva, lo sapevo. Quello che non sapevo – prima di questo libro – era la minuzia, la passione e anche il vanto del modo in cui il giovane Siri seppe costruirsi quel ruolo.
Egli dissimula, ostenta pudore, dice e non dice, ma nell’insieme assai chiaramente racconta come nasce quel suo capolavoro, quell’apprendistato curiale che lo porta ad essere vescovo ausiliare a 38 anni, arcivescovo di Genova a 40 anni, cardinale a 47 anni. Nonché abituale frequentatore dei papi e delle loro segreterie di stato per più decenni.

Stanti gli ottimi risultati ottenuti nel liceo viene mandato a studiare a Roma dal cardinale Minoretti e a Roma passa quattro anni dal 1926 al 1929, studiando alla Gregoriana ed essendo alunno del collegio lombardo. In questi ambienti intreccia le amicizie che lo guideranno nella vita. Al lombardo conosce l’ambiente ecclesiastico milanese allora dominante sotto il papa ambrosiano Pio XI e soprattutto conosce Montini, che al momento giusto lo porterà da Pio XII.
Egli ci dice che non voleva venire a Roma per lo studio della teologia e che fa resistenza a Montini che lo vuole presentare a papa Pacelli e che resiste a ognuna delle nomine che gli arrivano a gran ritmo. Ma sappiamo bene come leggere quelle schermaglie: sono l’elemento primo di quell’apprendistato.
La sua forte partecipazione emotiva a quel mondo l’avvertiamo nella soddisfazione con cui ci informa che veniva a sapere le cose per primo. Venire a sapere è l’arte della Curia.

Eccolo dunque che dice di avvertire per primo – al Lombardo – l’arrivo della Conciliazione: “Io mi accorsi prima degli altri di quanto stava per accadere”. E come viene a saperlo? “Il cardinale Tosi, arcivescovo di Milano, abitava al Lombardo e avevo con lui molta confidenza. Un giorno lo accompagnai al concistoro indetto da Pio XI”: così leggiamo a p. 38, ma conviene leggere tutto il brano, che è un capolavoro di consapevolezza di sé sempre unita alla dissimulazione di sè.
Andrebbe poi studiata la pagina sul momento conciliare della “nota previa” – p. 98 – dove prevede e quasi macchina un colpo di scena, sfruttando un momento di cattiva salute, per conferire autorità a quello che vuole sostenere: “Contavo proprio sull’inevitabile malore per dare drammaticità all’intervento”.
La stessa analisi potremmo condurre sulla narrazione dei contatti con Montini e Tardini, del rapporto con i suoi due arcivescovi genovesi, della relazione – la più importante di tutte – con Pio XII. Segnalo in particolare la rievocazione di un momento di approccio a Montini mediato dalla mamma di Siri (p. 100) e il capoverso di p. 71 che inizia con la frase a ogni rispetto straordinaria: “Pio XII aveva deciso che dovessi essere il suo successore”. “Aveva deciso” badate bene, non “aveva pensato”. “L’uomo sente molto l’autorità” ebbe a scrivere Silvio Negro di Siri.
E c’è una foto – il libro come dicevo è fatto anche di belle foto – che ci dà un’immagine quanto mai viva e sintetica di quell’attitudine curiale: è quella di p. 73, che ce lo mostra giovanissimo cardinale, con il vecchio galero ben piazzato in capo, che scende dall’automobile in una circostanza di gran gala – forse l’avvio del conclave del 1958, chissà – e gli occhi vivi di chi cerca intorno l’intesa con persone conosciute. Come se dica: vengo da Genova, ma so su chi posso contare.
Con un altro spunto di Silvio Negro termino la mia divagazione: “L’arcivescovo di Genova è un uomo di tipo classico, portato cioè a esplicare se stesso in tutte le direzioni” (p. 351). Realizzatore di opere sociali e pastorali e prima ancora di edilizia e di viabilità, mediatore in vicende militari, politiche e sindacali, teologo e maestro di dottrina sociale, cultore di eloquenza e di bella scrittura, intessitore di rapporti diplomatici ed ecumenici, suggeritore di mosse di governo non solo ai papi ma persino ai politici – e dieci altre capacità che non nomino, fino – pensate – alla passione con cui si fa diffusore dell’allevamento dei maiali. Ecco che a questa attitudine a tutto tondo, a questo enciclopedismo ecclesiastico della grande tradizione, le parlate autobiografiche che possiamo leggere in questo volume aggiungono l’elemento formativo – si direbbe nascente – della scuola curiale. Egli dunque è un ecclesiastico genovese di forte personalità e di spiccate doti intellettuali, che compie il suo apprendistato curiale negli ambienti romani della Gregoriana e del Lombardo, e con tale patrimonio di contatti svolge un ruolo di primo piano per quasi un ventennio, tra la nomina ad arcivescovo di Genova (nel 1946) e la conclusione del Vaticano II (1965).

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