Il messaggio cristiano al vaglio dei media


Pavia 03 05 12

Il vaglio dei media non è indolore: veicolano efficacemente, ma operano una drastica selezione, riducono al politico, tendono a fare della notizia cristiana un uso provocatorio, spettacolare o di alleggerimento.

Il rapporto dei media con la Chiesa è quello della “spina nella carne”: e questa natura di stimolo, di motivo per restare sveglio, di non appagamento, vale reciprocamente, nella reciproca insoddisfazione. La Chiesa non può fare a meno dei media, i media non possono ignorare la Chiesa. Ma la loro relazione è inevitabilmente conflittuale.

I media stimolano la Chiesa a parlare semplice, a parlare a tutti, a non nascondere le questioni scottanti. Pensiamo a quanto le siano stati utili per “costringerla” ad affrontare con decisione gli scandali della pedofilia del clero e delle finanze vaticane.

Analogamente la Chiesa rappresenta una sfida per i media: sfugge alla loro presa che punta sulla quantità e sul principio di novità, protesta per la riduzione al politico, rivendica il primato dello spirituale e vorrebbe dettarne un’interpretazione conforme alla propria auto comprensione.

Di questo conflitto ho fatto esperienza diretta e cruenta – direi – in 36 anni di informazione religiosa sui grandi quotidiani “laici”: sono stato per sei anni alla “Repubblica” nascente e poi per trent’anni al “Corriere della Sera”.

Ho lavorato con i direttori Eugenio Scalfari, Alberto Cavallari (che mi ha assunto al “Corriere della Sera” nel 1981), Piero Ostellino, Ugo Stille, Paolo Mieli 1, Ferruccio De Bortoli 1, Stefano Folli, Paolo Mieli 2, Ferruccio De Bortoli 2. Sette direttori di gran nome, per un totale di nove direzioni, stanti i due turni a testa assegnati a Mieli e De Bortoli. Tutti ottimi professionisti, ma nessuno di loro è cristiano, due sono ebrei (Ugo Stille e Paolo Mieli), tutti si considerano “laici”, anzi laicissimi interpreti e protagonisti del giornalismo italiano. Il più vicino alle istanze cristiane è Ferruccio De Bortoli che io chiamo “naturaliter cristiano”.

Potete dunque immaginare le dispute, le trattative, gli scontri per la programmazione e lo svolgimento dell’informazione religiosa in quelle due testate. La mia funzione – e un poco anche la mia scelta – è stata quella di interprete: ho mirato a realizzare un linguaggio che potesse essere inteso sia dagli uomini di Chiesa sia dai responsabili dell’informazione mediatica. Sia dai partecipanti alle assemblee domenicali, sia dalle folle delle piazze.

Il tema che mi è stato proposto mira impegnativamente al rapporto tra il messaggio cristiano e la lettura che ne propongono i media. Perdonerete la semplificazione se tratterò piuttosto – da giornalista quale sono – del rapporto tra la Chiesa e il mercato dei media. Per media commerciali intendo tutti quelli che traggono la maggioranza del loro incasso dalla vendita degli spazi pubblicitari: quindi non solo le televisioni private, ma anche i quotidiani e i settimanali d’opinione, le reti radiofoniche e televisive del servizio pubblico, i siti internet e i blog non puramente amatoriali.

Questi media sono migliori di quelli sovvenzionati del passato e meglio rispondenti alle esigenze della democrazia e della mondialità. Ma la lotta per l’audience tende a sottoporli progressivamente all’unica regola dell’efficacia commerciale, riducendo lo spazio delle competenze, il rispetto dell’uomo, il servizio al lettore e al visitatore, ogni senso del limite.

Sono migliori di quelli sovvenzionati: più tempestivi, più veritieri. Ma la concorrenza che li impegna a dire i fatti li spinge anche a ingrandirli, fino a deformarli. Né gli permette di riflettere o echeggiare il dibattito che è nella realtà, ma li spinge a crearlo e ad accentuare il conflitto. Questa invadenza di campo è particolarmente invasiva nel caso della notizia religiosa.

Se possiamo apprezzare alcune virtù dei media commerciali, dobbiamo però ricordare che l’informazione non può essere ridotta a merce senza fare violenza agli uomini di cui tratta e alla comunità alla quale è offerta.

Contro la tentazione di ridurla a merce, i giornalisti (sia i responsabili delle testate, sia i singoli operatori) devono far valere il principio che l’informazione è innanzitutto un diritto fondamentale dei cittadini. Non deve quindi essere trattata esclusivamente come un prodotto che si vende, ma principalmente come una conoscenza che si trasmette al servizio dell’uomo.

La difficoltà a resistere alla tentazione commerciale viene dal fatto che l’informazione – che non è una merce – viene però veicolata da un prodotto (il giornale, la trasmissione) che viene messo in commercio. Il sistema commerciale dei media tende a produrre un’informazione merce – i giornalisti devono difendere l’informazione conoscenza.

La sfida può essere vinta realizzando un’alleanza tra gli operatori dei media consapevoli di quella tentazione e il pubblico preoccupato delle manipolazioni commerciali dell’informazione. La dinamica selvaggia dell’audience rischia di premiare il giornalismo senza etica, quell’alleanza potrebbe rendere vincente il giornalismo responsabile. In paesi più esperti di noi nella comunicazione di massa si sono ottenuti buoni risultati per questa via.

La sfida va comunque accettata. Non ci sono alternative immediatamente praticabili rispetto al sistema commerciale dei media. Oggi i media sono indispensabili alla vita associata. E sono indispensabili anche in prospettiva religiosa. L’uomo d’oggi riceve una prima immagine del mondo (e anche della Chiesa) dai media: da qui la loro importanza.

Ma i media deformano la realtà della Chiesa. La deformano sia con il registro alto, o ideologico (che la coglie come una realtà dominata da grandi divisioni e conflitti di potere, decisa a imporsi anche con la politica), sia con il registro basso o spettacolare (coglie gli aspetti marginali, confinanti con l’economia, la sessualità, la magia, il folclore).

L’effetto d’insieme (i due registri sono compresenti nella grande stampa quotidiana italiana, che è colta e popolare insieme) è di una duplice deformazione dell’immagine della Chiesa: che il primo registro tende a costringere sotto specie politica, il secondo tende a relegare a notizia leggera.

Il secondo registro va guadagnando terreno ed è destinato a divenire egemone, con il procedere dell’americanizzazione dei nostri media: cioè con l’affermazione piena della loro natura commerciale, che li porta a privilegiare la notizia con maggiore capacità di risonanza immediata, concorrenziale o spettacolare.

Invece di deprimersi di fronte a queste difficoltà, la comunità cristiana potrebbe migliorare il proprio rapporto con i media percorrendo due strade principali:

– cercando di maturare una considerazione realistica del mondo dei media commerciali: non vanno demonizzati, ma neanche ci si deve fare illusioni su un loro facile uso a fini di evangelizzazione; resteranno sempre come una sfida per l’uomo religioso;

– trovando il modo di parlare più con i gesti e i fatti che con le parole: il mondo moderno apprezza i testimoni più che i predicatori e i media – vera cifra del moderno – recepiscono un gesto, o una storia di vita, dieci volte meglio di un discorso.

 

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