A 50 anni dall’elezione di Giovanni XXIII

Attualità di una presenza riformatrice

Con il vescovo Gaetano Bonicelli
per la Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri
Teatro Filippini Verona – Giovedì 23 ottobre 2008 – ore 20,45

Prima dico il mio rapporto di giovanissimo cristiano con Papa Giovanni nei giorni del suo Pontificato. Poi provo a indicare per punti l’attualità della sua presenza riformatrice. Infine darò un’occhiata ad alcune obiezioni, essendo tra coloro che vedono in Giovanni un grande dono alla Chiesa cattolica e al nostro tempo, ma non volendo chiudere gli occhi ai limiti della sua azione.

Avevo 14 anni quando il cardinale Angelo Roncalli fu eletto Papa. Il televisore non era ancora nelle case della campagna marchigiana da cui vengo, ma c’era nella scuola media che frequentavo e ricordo il professore di religione che diceva con sicurezza, dopo la fumata bianca: “Sarà Roncalli!”
Sentivo quel nome per la prima volta. La sicurezza con cui il professore aveva indovinato il nome dell’eletto mi tornò alla memoria più tardi, quando da vaticanista mi applicai allo studio dei conclavi e scoprii che l’attesa per l’elezione del patriarca di Venezia era diffusa negli ambienti ben informati

Il secondo ricordo legato all’elezione riguarda un compagno di classe che andava giurando a tutti la sua incapacità di vedere la familiare figura di Giovanni XXIII al posto dello ieratico Pio XII: “Non sarà mai come lui!” Esclamazione che ho poi sentito, fortunatamente, alla morte di ogni Papa e soprattutto alla morte di Papa Roncalli e di Giovanni Paolo II.
Oggi so che ogni elezione papale suscita attesa, ogni morte di Papa genera rimpianto. Più è marcata un’avventura pontificale, più sono vivi il rimpianto e l’attesa.

Nel 1959, durante una gita scolastica, vidi Papa Giovanni sulla sedia gestatoria, in San Pietro. Aveva annunciato il Concilio qualche mese prima, ma io nulla ne sapevo e mi incantavo a vederlo passare tra i flabelli.
Alla vigilia dell’apertura del Concilio, lo vidi pellegrino a Loreto il 4 ottobre del 1962. Io sono di Recanati, non potevo dunque non essere a Loreto quel giorno, essendo di appena sette chilometri la distanza tra le due città. Fu la mia prima partecipazione, dalla parte della folla, a un viaggio papale. Ricordo il pericolo di restare schiacciato dalla ressa e il professore di storia che il giorno dopo ci diceva: “Erano 104 anni che un Papa non usciva da Roma e da Castel Gandolfo”.

Lo rividi meglio – Papa Roncalli – sette giorni dopo per televisione, all’apertura del Concilio, che al mattino entrava in San Pietro in sedia gestatoria e la sera salutava la luna e mandava una carezza ai bambini. Ma ancora più viva nella memoria, direi negli occhi, mi rimane l’immagine sua che batte il piede, calzato con scarpette di raso, quando pronuncia le parole: “Sancta libertas filiorum Dei”, durante la lettura dell’allocuzione di chiusura della prima sessione del Concilio, l’8 dicembre 1962. Con quelle parole Papa Roncalli difendeva il libero dibattito dei padri conciliari dalle recriminazioni dei tradizionalisti, che temevano ne venisse un pericolo per l’unità cattolica. Allora non colsi l’idea, che era grande, ma registrai quello scatto d’uomo vivo che ne raddoppiava la rivendicazione: la “santa” libertà di discutere e deliberare che spetta a un Concilio, libertà che viene da Dio, che la Chiesa aveva sempre custodito nella sua grande tradizione e di cui nei primi due mesi del Vaticano II era tornata a dare mostra al mondo.
Ho scelto quel passo come prima citazione delle parole di Papa Giovanni da far risuonare in questa mia testimonianza: “In un contesto così vasto si comprende anche come ci sia voluto qualche giorno per giungere a un’intesa su ciò che, salva caritate, era motivo di comprensibili e trepide divergenze. Anche questo ha la sua spiegazione provvidenziale per il risalto della verità, e ha dimostrato in faccia al mondo la santa libertà dei figli di Dio, quale si trova nella Chiesa”.
Più tardi mi sarei reso conto dell’importanza di quel passaggio, riassuntivo direi della consapevolezza che il Papa bergamasco ebbe riguardo all’audacia dell’impresa conciliare e al suo significato – in primis – di restituzione al corpo episcopale della sua piena funzione di guida nella Chiesa. Il gesto del piede che accompagnava quell’affermazione papale vi aggiungeva la partecipazione emotiva dell’uomo Roncalli. Egli si era preso la responsabilità di lasciare liberi i padri conciliari di rifare le commissioni, l’agenda e gli schemi approntati dalla Curia e di dividersi, quando fosse necessario, in votazioni non pilotate. Quelle decisioni erano state criticate e ora il Papa le rivendicava appassionatamente.
Vedendo vent’anni e quarant’anni più tardi la passione con cui l’uomo Wojtyla gridava e accompagnava con i gesti più diretti il suo monito alla mafia e la sua invocazione di pace, ho ricondotto quelle nuove e più libere insorgenze dell’uomo sotto le vesti Papali a quel piede battuto da Papa Roncalli per accompagnare un’affermazione che era insieme primaziale e personalissima. In quel gesto c’era in germe la rivoluzione dell’immagine papale che è stata poi operata da Papa Wojtyla.

La mia prima intuizione di Papa Giovanni – un avvio di comprensione, germinale ma duraturo – arriva nei giorni della sua morte. Avevo 19 anni. Ero alla fine del liceo, distrattissimo rispetto a quell’evento. Ma fu messaggio per me la pietas popolare e intellettuale, credente e secolare, che quella morte suscitò. Lessi poi le parole di Pasolini ispirate da essa: “Non serve fare santo chi è santo”. Giovanni davvero fu sentito come santo da tutti. Dai miei familiari contadini e dall’ateo professore di filosofia con cui ne parlai – pochi giorni più tardi – durante l’esame di maturità e che mi interrogò a partire dalle parole “Pacem in terris”: l’incipit dell’enciclica che il Papa aveva firmato – quasi come un testamento rivolto all’intera umanità – due mesi prima della morte.

L’attualità della presenza riformatrice del Papa bergamasco la indico in cinque punti principali – quattro riconducibili a sue iniziative o pronunciamenti, uno – il quinto – che propongo come cifra o forma di tutta la sua azione pontificale.

1. La convocazione del Concilio Vaticano II (annunciata il 25 gennaio 1959) e dunque l’indicazione fondativa e fondamentale per il recupero della sinodalità nel governo della Chiesa cattolica. Il dibattito sulla collegialità verrà dopo la sua morte, ma i suoi frutti migliori – che saranno consegnati alla Costituzione dogmatica De Ecclesia (1964) – sono in nuce nell’idea semplice e pure inventiva che fu la convocazione di un Concilio ecumenico come atto primaziale, deciso in proprio e annunciato senza alcuna consultazione episcopale. Si ha il paradosso che il governo papale, giunto al massimo di accentramento istituzionale, di propria iniziativa – motu proprio – avvia un processo di decentramento e di riequilibrio con la componente episcopale, a tutt’oggi incompleto ma ormai chiaramente impostato; e l’avvia appunto convocando quel concilio che i manuali di teologia discutevano se fosse ancora necessario, una volta definiti il primato di giurisdizione e l’infallibilità Papali, come aveva fatto il Vaticano I.

2. L’avvio della piena partecipazione della Chiesa cattolica al movimento ecumenico: costituzione del “Segretariato per l’unione dei cristiani” (1960), invito dei “fratelli separati” a partecipare con osservatori al Vaticano II, primi atti ecumenici compiuti personalmente dal Papa. – Seme che avrà grande sviluppo nell’approvazione conciliare del decreto De Oecumenismo (1964) e che comporterà un deciso ampliamento dell’azione papale a promozione del dialogo ecumenico, con richieste di perdono, viaggi di riconciliazione, liturgie ecumeniche.

3. L’avvio del dialogo con l’ebraismo e con l’islam: correzione di tre preghiere [quella famosa del Venerdì santo con la cancellazione dell’espressione “perfidi giudei” e un’altra del rito del battesimo degli adulti dove fece togliere l’invocazione “abbia in orrore la perfidia giudaica” che era prevista nel caso di un battezzando proveniente dall’ebraismo (ambedue del 1960); e una terza riguardante l’Islam con la soppressione di un passo della “Consacrazione del genere umano al Sacratissimo Cuore di Gesù” che diceva: “Siate il re di tutti quelli che sono ancora avvolti nelle tenebre dell’idolatria e dell’islamismo” (1959)] e incarico al cardinale Bea conferito il 18 settembre 1960 di preparare uno schema di documento sulla questione ebraica da proporre in Concilio. Anche questo primo passo avrà sviluppi conciliari specifici, con la Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane (1965) e con la successiva scorporazione dei rapporti con l’ebraismo da quest’ambito e loro inserimento nelle competenze del dicastero per l’ecumenismo. Anche la partecipazione dei papi a tale impegno avrà grandi esiti, sia con Paolo VI, sia con Giovanni Paolo II, sia oggi con Benedetto XVI.

4. Una nuova radicalità nella predicazione della pace adeguata all’epoca delle armi nucleari, attestata fattualmente con l’appello per la “crisi di Cuba” (1962) ed esposta in dottrina con l’enciclica Pacem in terris (1963). Due sono gli elementi innovativi principali di questo documento, che risulterà determinante per l’elaborazione della costituzione conciliare sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (1965) e per il rilievo che al tema della pace daranno i Papi suoi successori: l’affermazione che “è impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia” (paragrafo 67); la sollecitazione perché “vengano istituiti poteri pubblici che siano in grado di operare in modo efficiente sul piano mondiale” per poter garantire “il bene comune universale che oggi pone problemi a dimensione mondiale” (paragrafo 75). Da qui vengono le visite all’Onu dei successori e la continua loro sollecitazione per il potenziamento di tale organismo al fine di attuare un’efficace “protezione” dei diritti umani nel mondo globale.

5. L’attestazione convincente di una vicinanza all’umanità contemporanea in nome del Vangelo che ha rappresentato per tanti una riscoperta del cuore del messaggio cristiano incentrato sull’amore. Per dirla con le parole di Giovanni Paolo II il giorno della beatificazione di Papa Roncalli (3 settembre 2000), “Di Papa Giovanni rimane nel ricordo di tutti ‘’immagine di un volto sorridente e di due braccia spalancate in un abbraccio al mondo intero. Quante persone sono state conquistate dalla semplicità del suo animo, congiunta ad un’ampia esperienza di uomini e di cose!” Tra gli elementi di questa attitudine: la disponibilità a incontrare non cattolici, ebrei e comunisti; l’indirizzo dell’enciclica Pacem in terris “a tutti gli uomini di buona volontà”, oltre che “al clero e ai fedeli di tutto il mondo”; l’affermazione – quasi testamentaria: dettata al segretario personale una settimana prima di morire – che “ora più che mai, certo più che nei secoli passati, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici; a difendere anzitutto e dovunque i diritti della persona umana e non solamente quelli della Chiesa cattolica”. Per l’eco che quella attitudine ebbe fuori della Chiesa, cito la dedica che Pier Paolo Pasolini metterà ad apertura del film Il Vangelo secondo Matteo un anno dopo la morte di Roncalli: “Alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII”.

Oltre alla grande approvazione, venutagli da persone di ogni ambiente, Giovanni XXIII sperimentò e sperimenta tutt’ora una forte opposizione, anche interna alla Chiesa, che non si è attenuata né con il passare del tempo, né con la beatificazione pronunciata nel duemila da Giovanni Paolo II e accompagnata da questa valutazione d’insieme, chiaramente intesa a far breccia nell’atteggiamento ostile: “La ventata di novità da lui portata non riguardava certamente la dottrina, ma piuttosto il modo di esporla; nuovo era lo stile nel parlare e nell’agire, nuova la carica di simpatia con cui egli avvicinava le persone comuni e i potenti della terra. Fu con questo spirito che egli indisse il Concilio Ecumenico Vaticano II, col quale aprì una nuova pagina nella storia della Chiesa: i cristiani si sentirono chiamati ad annunciare il Vangelo con rinnovato coraggio e con più vigile attenzione ai “segni” dei tempi. Il Concilio fu davvero un’intuizione profetica di questo anziano Pontefice che inaugurò, pur tra non poche difficoltà, una stagione di speranza per i cristiani e per l’umanità”.

Un’occhiata alle obiezioni è comunque necessaria, almeno a quelle che ancora vengono formulate in ambienti responsabili, a mezzo secolo dall’elezione di questo Papa. Le prendo dal cardinale Giacomo Biffi – che è uno degli uomini più schietti della gerarchia cattolica – nella formulazione che gli dà nel volume autobiografico Memorie e digressioni di un italiano cardinale (Cantagalli, Siena 2007). Biffi conviene sul rinnovamento apportato da Papa Roncalli ma subito esprime la sua critica: “Anch’io capivo che con lui era iniziata per la cristianità un’epoca nuova e diversa. Solo la valutazione di alcune frasi mi lasciava esitante”.
La prima riguarda la “ironia severa” che il Papa esprime sui “profeti di sventura”, che annunziano eventi sempre infausti “quasi che incombesse la fine del mondo”. Il commento del cardinale è risentito: “A proclamare di solito l’imminenza di ore tranquille e rasserenate, nella Bibbia sono piuttosto i falsi profeti” (p. 178).
Altra frase giovannea che lascia perplesso Biffi: “Bisogna guardare più a ciò che ci unisce e non a ciò che ci divide”. La critica: “Nelle questioni che contano la regola non può essere che questa: noi dobbiamo guardare soprattutto a ciò che è decisivo, sostanziale, vero, ci divida o non ci divida” (p. 178).
Terza frase posta sotto accusa: “Bisogna distinguere tra l’errore e l’errante”. “La storica saggezza della Chiesa – scrive Biffi – non ha mai ridotto la condanna dell’errore a una pura e inefficace astrazione. Il popolo cristiano va messo in guardia e difeso da colui che di fatto semina l’errore” (p. 179).
Quarta critica all’dea che ora bisognasse “usare la medicina della misericordia piuttosto che quella della condanna”. Ma la prima misericordia – scrive Biffi – è “la misericordia della verità”; e questa “non può essere esercitata senza la condanna esplicita, ferma, costante di ogni travisamento e di ogni alterazione del ‘deposito’ della fede” (p. 184).
Si tratta di quattro obiezioni riconducili a una: perché tutte girano intorno all’atteggiamento da tenere nei confronti del mondo esterno alla Chiesa e in particolare nei confronti degli “errori” che chiedono condanna. Il cardinale segnala dunque un eccesso di fiducia, o di ottimismo, che accompagnava “il coraggio e lo slancio di questo ‘giovane’ successore di Pietro”. E qui viene opportuno ricordare come anche Papa Wojtyla una volta abbia detto che Giovanni XXIII era restato “giovane nella mente e nel cuore come per un prodigio di natura”.
Il cardinale Biffi con questi rilievi si direbbe che prepari il lettore all’ultima pagina del suo libro di memorie, dove riporta quanto ebbe a dire in una delle congregazioni generali del preconclave del 2005, un appello al “futuro Papa” perché “si renda conto dello stato di confusione, di disorientamento, di smarrimento che affligge in questi anni il popolo di Dio” – e trova il modo di esprimere la propria “vibrante gratitudine” al cardinale Ratzinger per la Dominus Jesus (2000), un documento che “è stato contestato a tutti i livelli dell’azione pastorale, dell’insegnamento teologico, della gerarchia” (p. 615).

Nel suo atteggiamento fiducioso Giovanni XXIII è stato seguito da Paolo VI per i primi tre-quattro anni del Pontificato – poi Papa Montini, negli anni della contestazione giovanile e anche ecclesiale, nonché dell’incipiente crisi vocazionale e disciplinare dell’intera compagine cattolica, si fece più guardingo e su una linea di cautela si è mantenuto Giovanni Paolo II, forse attenuata dall’impeto della sua passione per la missione. Alla cautela montiniana sta oggi pienamente tornando Benedetto XVI e dunque possiamo dire che da Giovanni XXIII ci è venuto l’input più fiducioso che ancora segna e marca questa stagione ondivaga del rinnovamento cattolico.
Mai esso è strato confutato o ritrattato dai successori, ma è anche vero che non è stato più il sentimento dominante del Pontificato romano dal 1967-1968 in poi.

Conclusione

Nel confronto con i predecessori e i successori, Papa Giovanni ci appare caratterizzato da due elementi principali: la fede nella Provvidenza che guida la storia e la fiducia negli uomini che ne sono protagonisti. Dall’incontro tra questi due “doni” deriva la sua preoccupazione di rivolgersi a tutti gli uomini e di disporre la Chiesa cattolica a un serio atteggiamento di servizio nei loro confronti.
Tale ansia di apostolo ispirò le due principali imprese del suo Pontificato: la convocazione del Concilio e la “Pacem in terris”. Da quella convocazione si direbbe che la cattolicità viva in perenne stato di concilio: l’interrogativo su come arrivare con il Vangelo all’uomo d’oggi non è stato più abbandonato. E anche non è mai caduto l’impegno della cattolicità al servizio della pace.
Possiamo concludere che nei suoi elementi fondamentali quell’urgenza evangelica risvegliata nel corpo ecclesiale da Papa Giovanni sia giunta fino a noi e costituisca tutt’oggi una delle luci più preziose per il nostro cammino.

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