E’ possibile fare notizia del Vangelo oggi?

 

Sant’Erasmo sabato 13 giugno 2009

Il titolo completo della conversazione che mi è stata proposta sarebbe questo: “Nell’attuale panorama italiano dell’informazione è possibile fare notizia del Vangelo?” Questa è la mia risposta breve: è arduo ma è possibile.

Mi viene posta quella domanda perché io sono un giornalista. Essendomi trovato per decenni a trattare l’informazione religiosa sulla Repubblica e sul Corriere della Sera è naturale che nella Chiesa – anche qui oggi in qualche modo siamo nella Chiesa – mi venga posta la domanda se tra tante notizie il nostro sistema dei media accolga anche la Buona Novella.

Anche specificando così la domanda, la mia risposta segnala la difficoltà ma afferma la possibilità. Trattandosi tuttavia di una risposta esperienziale, sento la necessità di inquadrarla nell’insieme della mia attività di comunicatore della notizia evangelica che non è solo professionale ma è anche – e prima – familiare ed ecclesiale. Trovo utile e pedagogico impostare in questo modo la riflessione, perché in tutti e tre gli ambiti che così vengo a toccare – familiare, ecclesiale, professionale – riscontro in definitiva le stesse sfide e le stesse opportunità. E’ significativo che sia così: ogni volta che ci poniamo seriamente l’obiettivo di comunicare il Vangelo all’umanità di oggi finiamo presto o tardi con l’imbatterci nello stesso destinatario segnato da una forte tentazione di incredulità (ambito familiare), quasi senza parole di fronte alla propria e all’altrui incredulità (cerchia ecclesiale), apparentemente arreso all’incredulità (universo dei media).

Da circa sei anni conduciamo in famiglia una lettura continuata del Vangelo di Luca, per incontri quindicinali che chiamiamo “Pizza e Vangelo” perchè prima si mangia una pizza e poi si legge il Vangelo: è rivolta ai ragazzi, vengono amici, fidanzati e fidanzate dei nostri cinque figli, compagni di scuola. I ragazzi in maggioranza sono non praticanti, qualcuno si dice ateo. Vedo da questa esperienza che viene dalla cultura a dominante scientifica dei nostri figli la maggiore loro difficoltà ad accettare il Vangelo; e anche – a specchio – la maggiore nostra difficoltà a proporlo. Da una parte la scienza e dall’altra il mistero. Non esistono facili accomodamenti.

Eppure questa esperienza di comunicazione familiare del Vangelo sta a dire che è possibile mettere mano all’opera. Se dici ai figli e ai loro amici: proviamo a fare una lettura di primo approccio a uno dei quattro Vangeli canonici, accettano. Accettano la proposta. La disponibilità culturale non manca, purché si resti in un ambito amicale e informale, per nulla ecclesiastico e che non dà per presupposta la fede. Penso che nessuno o quasi dei venti ragazzi che complessivamente raggiunge la nostra iniziativa parteciperebbe a una lettura biblica proposta da una parrocchia o da una associazione. I ragazzi temono la cattura da parte dell’organizzazione ecclesiastica e non hanno più alcun interesse per la istituzione Chiesa. Lo specifico della nuova generazione verso la Chiesa lo indicherei così: la generazione adulta non ha fiducia nella Chiesa, i giovani non hanno interesse a essa.

Ma questi nostri figli secolarizzati e ormai lontani dalla Chiesa sono comunque interessati alla figura di Cristo e ai Vangeli che la veicolano. Pieni di precauzioni, più disponibili alle riserve critiche degli storici e degli esegeti che alla nostra tradizionale fiducia nel testo canonico, ma comunque interessati. Partecipano della più ampia sensibilità della giovane generazione per l’arte, la lettura, la storia, che riempie oggi come non mai le mostre, i musei, le biblioteche, le platee degli eventi culturali di ogni genere, dalla lettura di Dante nelle piazze alla lettura della Bibbia “notte e giorno”. All’interno di quella più ampia sensibilità trova spazio anche una specifica sensibilità per la domanda e l’offerta a riguardo della figura di Cristo e della letteratura evangelica.

Su questo primo ambito della notiziabilità del Vangelo nella nostra epoca oso concludere che i nostri ragazzi secolarizzati sono disponibili alla ripresentazione della figura di Gesù e al confronto sulla fede, purché essi avvengano

–         per il tramite dei Vangeli e non per altra via

–         in modalità e contesto non ecclesiastico

–         senza dare per scontato il loro ritorno alla Chiesa.

 

Mi vado interrogando sulle modalità che una simile iniziativa – di prima e libera proposta del Vangelo – potrebbe assumere in un contesto allargato, non più solo familiare. Credo che tutti i giovani dell’adunata di Tor Vergata nel 2000 accetterebbero – se li sapessimo offrire – incontri liberi sul Vangelo. Immagino che neanche uno su dieci, di quei due milioni, sia disponibile a un impegno in zona ecclesiastica.

La mia esperienza nell’ambito ecclesiale è ovviamente più ampia, ma io tendo a vederla in continuità con l’esperienza familiare che ho appena detto. Si tratta prevalentemente di un’esperienza di conferenziere su temi di attualità cristiana che mi porta in ogni parte d’Italia, con una media di un incontro alla settimana da circa tre decenni. Qui l’ambiente fa – almeno apparentemente – buona accoglienza al mistero e lo scandalo viene dall’etica del precetto e dall’invadenza politica di cui divieni automaticamente portatore, pur non avendone intenzione, per il solo fatto che ti venga data la parola da un parroco o da un vescovo, o da un responsabile di Azione Cattolica. Cioè ogni volta che parli in un ambiente di esplicita pertinenza ecclesiale-ecclesiastica.

Dicevo che i giovani non hanno interesse alla Chiesa, mentre gli adulti hanno sì interesse ma tendono a non fidarsi. L’uditorio delle mie conferenze è a dominante adulta ed ecco che il dibattito tende a incentrarsi ossessivamente sulla credibilità della Chiesa istituzione. Immagino che debba passare la nostra generazione perché nella considerazione comunitaria e associata la riflessione cristiana possa incentrarsi nel suo oggetto specifico e centrale: e cioè sulla possibilità della fede oggi, sulla ragionevolezza in particolare della fede cristiana nella società post-moderna.

Capita insomma – sia nell’ambito familiare, sia in quello ecclesiale – che scattino meccanismi spontanei e quasi automatici che tendono a deviare immediatamente o ben presto la riflessione dai contenuti di partenza che attengono al mistero di Cristo e della risurrezione, per andare a finire (in famiglia) sulla credibilità del miracolo, sull’esistenza del diavolo, sull’idea del peccato; oppure (nella Chiesa) sull’autoritarismo e gli scandali ecclesiastici, sul pluralismo politico e i referendum, sul Papa e sulla Cei.

Quanto poi al terzo ambito, che è quello dei media, al quale subito passo e al quale d’ora in avanti mi atterrò, le due difficoltà si sommano e si esaltano reciprocamente: ogni attestazione di fede va a sbattere contro l’incredulità che ha fondamento nella scienza e contro l’inattendibilità che è motivata dallo scandalo della Chiesa. La comune difficoltà sostanziale opposta dai tre ambiti alla notizia del Vangelo mi ha convinto da tempo che la via della vera risposta – per nulla facile, come premettevo, ma comunque possibile – passa per una decisa adozione della via testimoniale, che è poi originariamente quella evangelica: dove prevalgano modalità narrative e di testimonianza della conversione rispetto alla presentazione verbale – sia omiletica, sia catechetica, sia dottrinale – del messaggio cristiano.

La ridotta ma perdurante disponibilità dell’uomo d’oggi ad ascoltare il messaggio evangelico – una disponibilità che io credo mai verrà meno del tutto – è intercettabile quasi esclusivamente per via testimoniale. Questa vorrebbe essere la mia affermazione centrale. Qualcosa come la mia tesi, se questo non fosse un linguaggio presuntuoso.

Le news di Dio – infatti – sono oggi deboli nella città mondiale. Almeno quelle verbali. Ma sono forti – a volte – quelle fattuali perché lo Spirito di Dio soffia pur sempre, anche nel nostro mondo e soffia – come sempre – dove vuole. La comunità dei credenti dovrebbe apprendere dalla Scrittura il linguaggio fattuale dei segni, dei gesti e delle parabole per comunicare al meglio con l’umanità dell’informazione globale. A mio parere le storie di vita comunicate nella lingua media dell’epoca costituiscono la via privilegiata di approccio al mondo d’oggi. Sono queste storie e queste vite convertite che oggi possono costituire qualcosa di paragonabile alle leggende auree, ai Fioretti, agli Exempla, alla Bibbia dei poveri, alle vite dei santi di altre epoche. Cioè le vie dell’annuncio adeguate alla nostra epoca.

Nel mercato dell’informazione, la notizia forte (cioè suscettibile di un uso concorrenziale) scaccia quella debole. La notizia religiosa rischia di risultare debolissima ogni volta che si riduce a messaggio verbale, o a segnalazione di avvenimenti interni alla comunità religiosa. Essa invece può esser forte quando veicola un gesto o una storia di vita.

Si tratta dunque di trovare il modo di parlare più con i gesti e i fatti che con le parole: il mondo moderno apprezza i testimoni più che i predicatori e i media – vera cifra del moderno – recepiscono un gesto dieci volte meglio di un discorso.

In ogni caso il linguaggio della comunicazione ecclesiale (sia quello dei documenti, sia quello che veicola gesti e storie di vita) dovrà essere curato non soltanto ai fini della sua comprensibilità all’interno della comunità, ma anche per quanto riguarda la divulgazione giornalistica. Tale richiesta non dovrebbe essere vista con sospetto: proporsi di raggiungere una comprensibilità giornalistica significa avere cura che il linguaggio religioso abbia senso comune.

Quanto ai gesti e ai fatti, essi possono essere più eloquenti dei discorsi, ma perché lo siano giornalisticamente (cioè nell’universo della comunicazione mediata dai grandi strumenti di massa) è necessario che siano accompagnati dalle parole indispensabili alla loro interpretazione. Ciò del resto dovrebbe essere spontaneo per una Chiesa che pone al centro della sua vita le azioni sacramentali, che sono fatte di gesto e parola.

Un esempio felice di “gesto” cristiano veicolato dai media è la visita di Giovanni Paolo II ad Alì Agca nel carcere di Rebibbia, il 27 dicembre del 1983: il Papa che entra nella cella del suo attentatore e parla con lui per 21 minuti ebbe venti volte lo spazio che giornali e televisione avevano dedicato un anno prima all’enciclica Dives in misericordia. Esemplare la discrezione verbale con cui il Papa accompagnò quel gesto, limitandosi a dire le parole necessarie alla sua interpretazione: “Oggi, dopo più di due anni, ho potuto incontrare il mio attentatore e ho potuto anche ripetergli il mio perdono”.

Altro esempio di felice comunicazione cristiana per gesti e fatti è l’intera avventura di Madre Teresa: una donna che quasi non sapeva parlare e diceva pochissime parole, ma che è riuscita (lo si vide con la partecipazione davvero mondiale ai suoi funerali, avvenuti a Calcutta il 13 settembre del 1997) a farsi capire da tutti – e a essere ottimamente divulgata dai media – attraverso l’apertura di case per malati di Aids, l’invio di suore negli ospedali sovietici per soccorrere i contaminati di Cernobyll, la realizzazione di una mensa per i barboni in Vaticano e altre innumerevoli invenzioni del suo genio di carità.

Chi ha – come me – i capelli bianchi ricorda il messaggio che arrivò, si direbbe, a ogni uomo con la morte di Papa Giovanni nel 1963. Provo a dire meglio: il forte messaggio evangelico che Giovanni XXIII trasmise all’umanità intera con la propria morte. Per tutti ne fu straordinariamente colpito Pier Paolo Pasolini che disse: “Non serve fare santo chi è santo” e un anno dopo dedicò il film Il Vangelo secondo Matteo «alla cara, lieta, familiare figura di Giovanni XXIII». Qualcosa di simile è avvenuto con la morte di Giovanni Paolo II nel 2005: un’analoga efficace comunicazione del messaggio cristiano attraverso il compiersi di una “vita” e di una “figura” cristiana esemplare.

A rendere più eloquenti i fatti rispetto alle parole e i testimoni rispetto ai documenti non c’è soltanto la pigrizia dei media nell’era della televisione. A ben vedere, alla radice di questo privilegio ecclesiale dei gesti e delle storie di vita c’è il fatto che in origine il messaggio cristiano è notizia e testimonianza. Dalla preferenza istintiva dei media per i fatti può venire uno stimolo significativo alla stessa comunità ecclesiale: non è senza motivo, insomma, questa attesa del mondo – segnalata dai media, anche in forma polemica, a volte – che la Chiesa non dimentichi mai di accompagnare la notizia evangelica con la testimonianza che l’accredita.

Dal mercato dei media – sarà necessario che io mi esprima così – viene dunque un invito a privilegiare la vita sulle parole e a legare le parole alla vita. Come ai tempi in cui si formavano i testi del Nuovo Testamento, anche oggi la predicazione dovrebbe tendere a riproporre la notizia evangelica e la testimonianza che l’accredita. Le parole del Vangelo e i fatti di Vangelo che ne mostrano l’attualità nel mondo d’oggi: la possibile traduzione in vita vissuta.

Il Vangelo dice “beati i poveri” ed è decisivo per la comunicazione di questa parola al mondo d’oggi che vi siano dei cristiani che attestino la praticabilità di quella beatitudine: e cioè persone che con scelte concrete mostrino come si possano onorare i poveri, dargli il primo posto, mettersi al loro servizio. E così per le parole “lo vide e ne ebbe compassione”, “amate i vostri nemici”, “oggi sarai con me nel Paradiso”.  Ogni pagina del Vangelo sarà oggi “notiziabile” se vi saranno dei cristiani che la incarnano fattivamente. Ieri forse era possibile darne notizia anche in altro modo, ma oggi solo così.

Nell’ambiente ecclesiale italiano c’è forse, attualmente, un eccesso di elaborazione verbale del messaggio, che qualche volta sembra rispondere più a un’esigenza di scuola e di maniera che alla necessità di accompagnare la comunicazione testimoniale. Tendo a pensare che il gergo ecclesiale si infittisca con il distacco del messaggio verbale da quello testimoniale. E che per questa via si perda ogni presa sulla disponibilità all’ascolto che pure vi sarebbe – su quella piccola e contraddittoria disponibilità all’ascolto della quale ognuno di noi fa esperienza quando interloquisce con i non credenti interessati a comprendere la scandalosa condizione di chi crede oggi alla risurrezione della carne.

A mio parere i cattolici d’Italia stanno facendo molto e bene per modernizzare la loro presenza nei media, ma mostrano un’eccessiva fiducia nel messaggio verbale e una sottovalutazione di quello testimoniale. Potrei muovere alcune o molte critiche a quella modernizzazione, ma ora non mi interessa questa faccia e credo non interessi neanche a voi che ascoltate questa mia riflessione. Dico solo che quella modernizzazione punta troppo sulla parola e poco sui fatti.

I fatti – cioè le testimonianze cristiane fattuali: un gesto che esprime una conversione, una decisione che ricapitola un cammino di riconciliazione, una preghiera pagata con la vita, una morte vissuta nella speranza della risurrezione – costituiscono, devono costituire, la via privilegiata dell’evangelizzazione (o meglio: della pre-evangelizzazione) attraverso i media.

I fatti infine fondano e verificano l’attendibilità delle parole. E questo vale sia per la comunicazione immediata che per quella mass-mediale. I discorsi possono crescere su se stessi e allontanarsi dalla realtà, divenire incomprensibili. Se invece restano legati ai fatti non corrono questi rischi. Possono interpretare i fatti, dare loro risonanza, aiutare a comunicarli. In una parola: renderli parlanti. E i fatti ci sono sempre nella Chiesa: è la loro comprensione e comunicazione che è generalmente inferiore alla loro consistenza.

Quanto a una tipologia dei volti dell’annuncio, segnalo a mo’ d’esempio quella dei giusti e dei martiri, quella dei riconciliati e dei riconciliatori, quella dei samaritani e dei lebbrosi guariti.

Dico i giusti e i martiri per invitare a guardare più ampiamente rispetto ai confini visibili della comunità ecclesiale. Paolo Borsellino, credente e praticante, è un martire della giustizia; Giovanni Falcone, non credente, è un giusto delle nazioni: ambedue sono volti dell’annuncio, avendo dato la vita nello stesso rischio e per la stessa causa di servizio all’uomo.

Innumerevole oggi come sempre è la schiera dei giusti e dei martiri. Poco più di un mese addietro, il nove maggio, Giornata della memoria, i quotidiani pubblicavano i nomi delle “379 vittime del terrorismo” che abbiamo avuto negli anni di piombo: da Agostini Natalia in Gallon a Zizzi Francesco. Dalla prima pagina del Corriere della Seradi quel giorno partiva la “Lettera dei figli di Tobagi”, Luca e Benedetta, che aveva queste parole: “Una democrazia libera e matura […] deve essere capace di riaccogliere e reintegrare, a tempo debito e in modo opportuno e misurato, senza eccessi, coloro che hanno percorso una strada sbagliata e ne hanno preso coscienza”. A pagina otto c’era il preannuncio dell’abbraccio che quel giorno si sarebbero date al Quirinale Licia Rognini Pinelli e Gemma Capra Calabresi. A pagina 23 c’era la foto di Dolores Fasolini, la baby sitter che era morta per salvare da un trattore Angelica, la bimba che stava riportando ai genitori: “L’amore della sua tata è stato più forte del destino” diceva il padre di Angelica.

Ma con quest’ultimo episodio siamo passati alla tipologia dei samaritani e dei lebbrosi guariti. Mai in nessuna epoca io penso vi sia stata tanta testimonianza in questa direzione. Accanto al volontario che assiste i malati e soccorre i barboni in nome del Vangelo c’è spesso il “giusto” che lo fa in nome dell’uomo. E sono sempre volti dell’annuncio, perché tutti siamo figli di Dio, sia che lo sappiamo sia che non lo sappiamo.

Tra i riconciliati e i riconciliatori metto anche il nostro presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che non è un credente ma si è adoperato per riconciliare le due vedove e due Italie in loro, e ha pianto al microfono quando ha potuto annunciare quell’evento.

Ho citato fatti echeggiati dai media perché la mia argomentazione riguarda l’areopago mediatico: se i nostri media sono sensibili alla via testimoniale – e a mio parere lo sono – noi disponiamo di una seria possibilità di fare notizia del Vangelo in essi. Magari indiretta, fattuale e testimoniale, ma pur sempre notizia e notizia di Vangelo.

I nostri martiri in terra di missione – da Annalena Tonelli (2003) a don Andrea Santoro (2006), a Leonella Sgorbati (2006) – e le testimonianze di perdono – da Giovanni Bachelet a Bianca Taliercio, a Stella Tobagi, a Carlo Castagna, a Margherita Coletta – sono tra i fatti cristiani meglio veicolati dai nostri media nei tempi recenti. Non mi dilungo oltre, ché non finirei più. Non c’è ragione di essere pessimisti sullo Spirito e i suoi doni alla nostra epoca. Sta a noi aprire gli occhi e vederne i segni e i volti.

Ho detto sopra che una qualche disponibilità all’ascolto del messaggio evangelico l’umanità l’avrà sempre e sono in debito di un minimo di sviluppo per questa affermazione. Io credo che la capacità di restare davanti al mistero, già così debole tra noi, diminuirà negli anni a venire; e credo anche che la testimonianza cristiana ne resterà sempre più erosa e tribolata, almeno qui da noi; ma credo anche che le parole centrali del Vangelo non verranno mai dimenticate dalle comunità umane che le hanno udite e in qualche modo vissute. L’amore dei nemici, la risurrezione della carne, “Dio è amore” sono parole che l’umanità non dimenticherà mai e sempre avrà di esse nostalgia una volta che le abbia udite.

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