Il cardinale Martini e i tre segreti della sua predicazione


Pubblicato da LIBERAL del 1° settembre 2012 a pagina 3 con il titolo IL PREDICATORE CHE NON FACEVA PREDICHE

 

“L’unico che non ci ha fatto la predica è stato il cardinale Martini” dissero due dei miei figli che nell’agosto del 1993 partecipavano alla Giornata mondiale della gioventù di Denver (Stati Uniti). Potrebbe essere questa la chiave per interpretare la singolarità di un uomo di Chiesa che ha parlato a tanti e per tanto tempo della figura di Gesù Cristo senza fare prediche: cioè senza moralismi e senza invettive.

Ascoltandolo in centinaia di occasioni e alle prese con gli interlocutori più diversi mi sono fatto l’idea che ci fosse un triplice segreto dietro la sua capacità di parlare alle moltitudini, attestata dalla straordinaria tenuta – più che trentennale – della sua presenza nelle assemblee di Chiesa, nei media e nell’editoria: si metteva in loro, procedeva schiettamente, presentava il Vangelo.

Si metteva in loro: cioè ragionava sulle difficoltà a credere che possono avere le donne e gli uomini di oggi facendole sue. Prendeva sul serio le domande che gli venivano poste e rispondeva con una schiettezza sorprendente che spesso l’ha esposto a critiche. Non era un diplomatico della parola e sapeva correre dei rischi: il rischio di esporsi, di essere frainteso, di finire sotto accusa.

Non censurava mai un dubbio suo o altrui, o un’obiezione degli avversari, per ragioni di convenienza. Si trattasse di questioni del governo della Chiesa o di rapporto con la politica o di lontananza della cultura di oggi dalla tradizione cristiana.

Il terzo segreto è il più importante: egli non proponeva una sua dottrina, né seguiva un particolare metodo catechistico, ma commentava il Vangelo. Andava al cuore del cuore del messaggio cristiano che è la figura di Gesù com’è presentata dai Vangeli e intorno a essa svolgeva ogni argomento.

Conobbi il cardinale Martini negli anni ’60 del secolo scorso, quand’era professore all’Istituto biblico e io ero un ragazzo della Fuci e l’ascoltavo a Roma e nelle settimane teologiche di Camaldoli. Già allora seguiva quel metodo che non ha mai abbandonato: sempre l’ho visto partire dalla Parola e sempre mi è parso arrivasse con chiara presa all’uomo di oggi.

Come vaticanista della “Repubblica” e poi del “Corriere della Sera” l’ho incontrato a Milano e a Roma e in varie parti del mondo, gli ho fatto domande nelle conferenze stampa e interviste in esclusiva, sono stato ospite alla sua mensa. Due volte (nel 1991 e nel 2000) mi ha chiamato a proporgli – davanti a un pubblico di giornalisti – alcune  “provocazioni” sulle “cose ultime”.

Mai l’ho sentito dire “evitiamo questo argomento”. Altre due volte mi ha chiamato – insieme a una ventina di ospiti della più diversa esperienza – per avere suggerimenti in ordine a due delle lettere pastorali che hanno fatto epoca: quella sui media intitolata “Il lembo del mantello” (1991) e quella sulla “fine dei tempi” intitolata “Sto alla porta e busso” (1992). Chiamava quegli incontri “brainstorming”, tempesta di cervelli e voleva che ognuno dicesse la sua in totale libertà.

Una terza volta mi ha chiamato a dialogare con i vescovi della Lombardia in vista di un documento collettivo sulla famiglia (1999): “Lei che ha figli ci parli della loro difficoltà a essere cristiani”.

Una quarta volta mi sono trovato a tavola tra lui e il cardinale Ruini a un pranzo ufficiale, a Parigi, in occasione della Giornata mondiale della gioventù del 1997. Ruini aveva letto quotidianamente i miei articoli sull’evento e li commentò uno per uno, Martini non ne aveva visto nessuno e mi chiese di aiutarlo a “trovare qualche parola per parlare a questi ragazzi che nei confronti della fede mi pare vivano l’attrazione e le titubanze del giovane ricco del Vangelo”.

Questo metodo disarmato di farsi tutto a tutti egli l’ha adottato in ogni occasione pubblica e privata, sia che parlasse in un carcere, o a una congregazione di cardinali, o nel Duomo di Milano, o ai lettori del “Corriere della Sera”, o a un gruppo di parkinsoniani.

Egli lascia alla Chiesa – ma anche alla società italiana – una duplice provocazione: ad attenersi sempre al principio di realtà e a non adeguarsi mai all’esistente. Nessuno tra i cardinali, lungo gli ultimi trent’anni, ha parlato con altrettanta schiettezza dell’insufficienza delle risposte tradizionali alla fuga dei giovani dalla pratica religiosa, alla crisi del clero, alla nuova sensibilità in materia di relazioni affettive, di formazione dei fidanzati, di promozione della famiglia, di regolamentazione delle nascite, di considerazione dell’omosessualità.

Sempre incoraggiava a cercare ancora, a esplorare più ampiamente. Ricordo una “lettera ai sinodali” dell’arcidiocesi di Milano del maggio 1994, che riconosceva i “molti doni” venuti dal Sinodo ambrosiano ma affermava che “un po’ più di vento dello Spirito” non avrebbe “fatto male”. In genere i vescovi trattengono il gregge, Martini invece l’esortava “a novità coraggiose” e a godere in pienezza della “libertà del Vangelo”.

Molti si sono chiesti da dove gli venisse tanta autorevolezza di parola, pur nella progressiva rinuncia – imposta dall’età e dalla malattia – a ogni responsabilità istituzionale e a ogni ruolo pubblico. Credo che la risposta vada cercata in quell’adesione alla realtà e in quell’invito a rispondervi con coraggio e libertà.

Luigi Accattoli

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