A Pietro Calabrese che scopre “all’improvviso la vita”

C’era soprattutto, ed è stato questo a sconvolgermi, un’Italia sconosciuta che rifiutava i luoghi comuni della politica e i suoi stitici ghirigori di chiacchiere. Che chiedeva di parlare e confrontarsi sui problemi reali. Dopo tante stagioni di giornalismo e di direzioni, con la sicurezza e la prosopopea che inevitabilmente cattura tutti coloro che per anni detengono il potere (o quello che loro stessi presumono tale), con la stupida arroganza di chi si sente più ganzo degli altri, non avevo capito nulla. O quasi. E se ancora qualche dubbio mi restava, i giorni seguenti me li avrebbero tolti tutti“: è un passaggio del libro che Pietro Calbrese, morto l’altro ieri, ha scritto sulla sua malattia e che uscirà il 29 settembre da Rizzoli con il bellissimo titolo L’albero dei mille anni. All’improvviso il cancro, all’improvviso la vita. Il Corriere della Sera ne ha anticipato oggi un brano e da esso ho preso la citazione. In essa egli riflette su come la scoperta del cancro l’abbia aiutato a “vedere” la serietà della nostra gente che aveva sempre ignorato – una serietà che gli si mostrò attraverso le lettere che riceveva dai lettori della rubrica con cui su Sette – il magazine del Corsera – raccontava la vicenda del suo male: la prima puntata è del 28 maggio 2009, l’ultima del 10 luglio scorso. Non ho mai incontrato Calabrese, che aveva qualche mese meno di me. Lo conoscevo per fama e non lo stimavo granchè stante l’immagine spregiudicata e anche mondana che me ne aveva trasmesso Orazio Petrosillo che l’aveva avuto direttore al Messaggero, ma avevo preso ad amarlo con la lettura di quelle puntate. E ora più di prima.

22 Comments

  1. Mabuhay

    Buon giorno.
    Certe esperienze -Malattia? Poverta’? Solitudine? Divorzio? Morte? ….- ti portano inesorabilmente alla verita’ della vita: alla verita’ nostra, degli altri…insomma della realta’, dalla quale -spesso e volentieri- si tenta in tutti modi di scappare. Pietro Calabrese non lo conosco…solo il nome. La mia -sia ben chiaro- e’ una considerazione generale…non sulla sua persona.

    La mia conclusione e’ che per imparare a morire bisogna imparare a vivere (o se preferite: per imparare a vivere bisogna imparare a morire); e’ quella obbedienza alla vita che la festa di oggi -qui celebriamo la festa della Santa Croce- ci presenta in pienezza. E che non abbiamo mai finito di imparare.

    Qualcuno cantava: “….e quella parte di noi che l’ infinito nasconde che ci modifica e vuole verità… se guardi dentro puoi vederlo già.”

    14 Settembre, 2010 - 7:28
  2. Luigi Accattoli

    Ungaretti: La morte / si sconta / vivendo.

    14 Settembre, 2010 - 8:15
  3. Francesco73

    Ricordo di aver letto il suo primissimo pezzo sull’amico “Gino” ammalato di cancro, e – non so perchè – subito capii che parlava di sè.

    E’ vero, aveva un’immagine un pò mondana, quel giornalismo della Capitale che mescola direzioni di grandi quotidiani, incarichi RAI, ruoli in comitati e organismi di promozione, circoli Canottieri e paginate su Dagospia.

    Ma penso che la sostanza fosse altra, lo si capiva dai suoi articoli, non solo quelli finali.

    14 Settembre, 2010 - 8:54
  4. Luigi Accattoli

    Dietro lo schermo dell’amico “Gino” così Calabrese narrava su SETTE del 28 maggio 2009 la sua nuova lettura dei giornali dopo la scoperta del tumore:

    L’indomani mattina, come faccio sempre, ho aperto i giornali e ho iniziato a sfogliarli. Sono rimasto colpito dall’inutilità dei quattro-quinti delle cose pubblicate. Non di questo o di quel giornale, ma di tutti. Gli scontri verbali, gli insulti, le faccine di sempre che si sparano addosso improperi da liceali: che grandiosa manifestazione di inutilità!

    14 Settembre, 2010 - 11:11
  5. Luigi Accattoli

    Vedere inutili i quattro-quinti delle cose pubblicate essendo un giornalista e avendo salute: un buon esercizio.

    14 Settembre, 2010 - 11:15
  6. mattlar

    Grazie Luigi, grazie Mabuhay delle belle riflessioni

    14 Settembre, 2010 - 11:31
  7. raffaele.savigni

    Due mesi fa è morto (per un tumore al cervello, dopo un anno e mezzo dalla scoperta) un amico lucchese, un medico cinquantenne: ha lasciato sulla carta alcuni pensieri molto belli, con cui diceva ai tre figli che nonostante tutto la vita è una cosa meravigliosa. Domenica sera l’abbiamo ricordato con una liturgia commovente e molto partecipata.
    Concordo poi con l’osservazione di Luigi: scorrendo i giornali mi capita sempre più spesso che poche sono le notizie e i commenti davvero importanti.

    14 Settembre, 2010 - 17:03
  8. Mi lascia perplesso l’improvviso. In genere alla maggior parte degli esseri umani la realtà della vita si manifesta in lento e costante susseguirsi di malanni, affanni e tragedie. Ai giornalisti, invece, l’epifania tragica avviene così, come per illuminazione. Si vede che prima dello svelarsi dell’enigma sotto i suoi occhi scorreva il latte e il miele… Scusate l’acidità, ma da ex malato di cancro, la letteratura sull’argomento mi è sempre parsa stucchevole.

    14 Settembre, 2010 - 17:05
  9. Luigi Accattoli

    Raffaele Savigni potresti mettere qui – o inviarmi per e-mail – le parole dell’amico lucchese, se in qualche modo sono state divulgate? L’invito vale per ogni visitatore che ne conosca di simili. Il blog è fatto per questo.

    14 Settembre, 2010 - 17:09
  10. Syriacus

    “L’indomani mattina, come faccio sempre, ho aperto i giornali e ho iniziato a sfogliarli. Sono rimasto colpito dall’inutilità dei quattro-quinti delle cose pubblicate. Non di questo o di quel giornale, ma di tutti. Gli scontri verbali, gli insulti, le faccine di sempre che si sparano addosso improperi da liceali: che grandiosa manifestazione di inutilità!”

    Penso che per questo basti anche una ‘banale’ sindrome depressiva.
    Ma non aggiungo altro.

    14 Settembre, 2010 - 17:55
  11. Luigi Accattoli

    Da Marco Sostegni ricevo questo messaggio:
    Caro Dott. Accattoli, non mi è riuscito mettere sul suo blog uno scambio di messaggi che ho avuto con il giornalista Pietro Calabrese, leggendo la sua rubrica sull’amico Gino. Mando a lei i due messaggi perchè li inserisca. Grazie.

    Messaggio di Marco Sostegni a Pietro Calabrese in data 10 ottobre 2009:
    Caro dott. Calabrese, per una leggera bronchite mi sono trovato a respirare male stanotte. E ho pensato al suo amico. E mi dispiace di leggere queste difficoltà che sta sostenendo… Ha avuto modo di chiedergli se da questi mesi difficili ha ricavato qualcosa di importante, ha sentito più vicino Dio? Me lo saluti con affetto. Anche a lei, una bella stretta di mano. Marco Sostegni

    Risposta di Pietro Calabrese:
    Caro Marco, senza l’aiuto di Dio Gino non sarebbe arrivato dove è arrivato in questo percorso doloroso. Adesso per fortuna sta meglio. Era un problema di fibrillazione cardiaca con il cuore che non pompava sangue abbastanza, un effetto collaterale della radioterapia. La strada è ancora in salita, ma lui è deciso a non mollare. Anche con l’aiuto di Dio. Mi dice sempre: ‘In questi mesi mi si sono affinati i pensieri e i sentimenti. Adesso sento e vivo solo l’essenziale, cercando di elemininare tutti i contorni inutili’. Grazie della sua mail e le auguro ogni serenità per molti e molti anni a venire – pietro calabrese

    14 Settembre, 2010 - 20:14
  12. Preciso il mio pensiero perché non vorrei mancare di attenzione verso una persona che non conoscevo e il cui calvario è degno di ogni rispetto. Sta di fatto però che di questi calvari il mondo a noi vicino e, basterebbe poco, anche quello un po’ più in là del nostro naso è pieno zeppo. Lo è in un modo disgustosamente doloroso. Incomprensibilmente doloroso. Frequento giornalmente case di riposo e ospedali. Sono reduce da ben sei mesi di assistenza a mio padre. La professione che ha visto impegnato con successo Calabrese nel corso della sua vita è di quelle che privilegia il contatto con la realtà. O forse sarebbe più corretto dire, privilegiava. Il dolore doveva essere cosa a lui conosciuta. Certo, di una conoscenza, diciamo così, intellettuale, un po’ astratta, un po’ lontana, quella che porta al massimo a destinare qualche pagina ben che vada ricorrente ai casi malaugurati che attanagliano la vita degli esseri umani. Ma niente di più. Così credo si sia dipanata la carriera di Calabrese, così come si svolge la carriera di migliaia di altri giornalisti. Ora, si dà il caso che lui stesso sia stato coinvolto in quel vortice di dolore e sofferenza che a ogni piè sospinto interrompe il nostro sguardo. Dico il nostro, perché quello del giornalismo no, raramente è affaticato dalla sofferenza; raramente inciampa sulla verità della nostra condizione. Più spesso e abitualmente naviga sul bordo del nulla e dell’inutile. Calabrese si accorge di questo inutile e di questo nulla nell’intensificarsi della sua malattia. Cosa in questa consapevolezza è meritorio, tale da venir citato e ripreso, additato e segnalato all’attenzione del pubblico? Il fatto che provenga da una persona che fino a un attimo prima frequentava il bel mondo? Il successo? La carriera smagliante e ben remunerata? Ecco, credo che questo genere di torsione, rispettabile e finanche auspicabile, non faccia altro che proseguire di segno rovesciato la sostanziale indifferenza che i media diretti da Calabrese hanno riservato, per regola di mercato beninteso, alla verità della vita nel suo misterioso e incomprensibile dolore. Il sentire Dio, le conversioni sul letto di dolore, offrono una tipologia di casi umani di cui è piena la letteratura e la memorialistica. Credo sia per lo più autentica, lo è stata sicuramente quella di Calabrese, a giudicare dalle testimonianze riportate. Ma prima? Prima di tutto ciò, prima e ancor prima di quell’attenzione che la malattia provoca dove si era, dove ci si avventurava? Lontano da essa, lontano dalla sofferenza muta e disperata dei singoli, delle persone senza parola, senza memoria, senza approdi letterari ed espressivi. Siamo così sicuri che la vicenda di Calabrese dia la parola anche a costoro? Che serva a dare voce alla sofferenza? O non sia per l’ennesima volta il ripiegarsi autocompiaciuto degli ottimati sul privilegio della parola là dove corre solo il silenzio e il dolore? Per questo non mi convinceva l’improvviso. La malattia e il dolore non sono improvvisi e occorrerebbe vederli e raccontarli anche quando non si provano sulla propria pelle; rendersene conto prima, per tempo. Siamo fatti di questo e non di ciò che per vendere meno di un chilo di carta stampata raccontiamo per illudere e narcotizzare il prossimo, anche se lo facciamo con il più alto dei professionismi.

    15 Settembre, 2010 - 6:16
  13. Mabuhay

    La condizione umana e’ quella che e’.
    Molti cercano di usarla/trasformarla in “qualcos’altro”…fino a che la realta’…(io dico, la vita) li riporta alla verita’ di se’ stessi, delle cose, degli altri…(con tutte le nostalgie, le seti, e i desideri che si vuole…).
    La vita e’ meravigliosa, e ciascuno ha i suoi tempi per capirlo e scoprirlo…le sue occasioni…le sue benedizioni…

    15 Settembre, 2010 - 8:08
  14. Mabuhay

    …e noi si cerca di passarci in mezzo da credenti!
    La Fede e’ un dono…che non “risolve” il dramma della nostra esistenza…non e’ una ciliegina, non e’ una panna montata con le fragole…giusto x rendere la vita/la realta’ piu’ dolce e soave… (se qualcuno oggi partecipa all’Eucarestia ascolti bene la prima lettura…).
    Ma la Fede, yes, da senso a tutto…e allora tutto si cerca di viverlo come si e’ ricevuto: come dono! Poi, per me, il mistero rimane tutto…e a volte osservo che e’ molto ma molto dura!
    Lo scriveva Victor Frankl = logoterapia =, quando c’e’ un perche’, qualsiasi “come” e’ possibile!
    Stop. Non rompo piu’.

    15 Settembre, 2010 - 8:57
  15. Leonardo

    A me sembrerebbe questo: che la vecchiaia, la malattia e, in ogni caso, la morte siano una grande, oggettiva obbedienza. Una consegna, un abbandono di noi stessi (per forza!, ma non nel senso brutto del termine, bensì in quello quasi sorridente con cui a volte si usa questa esclamazione “per forza!”), una consegna, un abbandono di noi stessi alla bontà infinita che prende quel che si rivolge a lei. Per questo è difficile dannarsi, per questo l’apocatastasi origeniana per quanto teoricamente inammissibile potrebbe non essere andata troppo lontano dal vero, in pratica. (Forse la dannazione ultima di Satana sarà anche quella di essere solo all’inferno???)
    Per giunta Dio è così poco sindacalmente corretto da ricompensare anche quelli del cinquantanovesimo minuto dell’undicesima ora, che non hanno fatto altro che arrendersi quando ormai non avevano più le forze per fare altro.

    15 Settembre, 2010 - 9:50
  16. @Leonardo: facile, troppo facile considerarsi uno del cinquantanovesimo minuto dell’undicesima ora! Non ho mai compreso bene quella parabola, devo essere sincero. Anche perché è facilmente arpionabile dai furbetti dell’autoassoluzione. Il salario dell’ultimo arrivato uguale a quello di chi lavorava dalla mattina è stato, per esempio, commentato da Giovanni Bazoli in un intervento poi ripubblicato da Morcelliana. Devo dire che conoscendo direttamente e avendo avuto a che fare con gli effetti devastanti di alcune politiche bancarie dell’istituto allora diretta da Bazoli, il fatto che avesse avuto l’impudenza di commentare quel passo del vangelo mi confermava nell’idea che spesso il mostrare la propria fede dipenda più dal senso di onnipotenza e potere che circonda certe figure e meno, molto meno, dalla necessità di fare i conti con ciò che si crede e professa senza che per questo abbia alcuna conseguenza significativa sulle azioni di una vita e, soprattutto, su ciò che queste azioni procurano agli altri in termini di sofferenza e ingiustizia. E ti assicuro, cartolarizzare i crediti di Bancaintesa derivati dai fallimenti immobiliari, come fece Bazoli e la sua banca, ha provocato sciagure e disastri in persone e famiglie senza alcuna responsabilità. Una vergogna. Prima di commentare il Vangelo Bazoli doveva correggere qualcuna delle pratiche della sua banca! Ma non lo ha mai fatto e mai ha avuto il coraggio di confrontarsi e mai lo avrà. Alla sua dipartita, spero tra cent’anni, sarà ricordato come uomo di fede purissima…

    15 Settembre, 2010 - 10:36
  17. Leonardo

    Facile, difficile … non so davvero; e neppure so molto di Bazoli (quasi niente per la verità): se fa il banchiere, non stento a credere che ne abbia fatte di cotte e di crude. Del resto, Gesù ne ha dette tante che, volendo, ci sarebbe anche quella sui ricchi che è più difficile che entrino nel regno dei cieli eccetera eccetera (con relativo commento dei discepoli e correzione del maestro: nulla è impossibile a Dio).
    Non so che dire, se non quello che ho già detto: la morte è una grazia (può essere una grazia) perché è un’obbedienza. Alla fine (quasi?) tutti gli ubbidiscono, riconoscendo di essere suoi. Ecco perché gli antichi, più saggi di noi, temevano soprattutto la morte improvvisa (quella che molti di noi si augurano), per paura di non avere il tempo di fare quel minimo atto di consegna a Dio di se stessi, che basta per la vita eterna.

    15 Settembre, 2010 - 12:47
  18. Mabuhay

    Grazie Leonardo dei tuoi due interventi -soprattutto quello delle 9:50 che condivido dalla prima all’ultima parola. E spero tanto che non si leggano questi scambi come dialoghi tra vecchietti disperati o pensionati o senza niente ormai cui sperare in vita…

    15 Settembre, 2010 - 14:24
  19. lycopodium

    Grazie a tutti voi!

    15 Settembre, 2010 - 16:23
  20. roberto 55

    Grazie anche da parte mia: la fede, ecco, può autare che vive queste tragiche esperienze ad approfondire il disegno che nostro Signore gli ha riservato in sorte.

    Buona notte !

    Roberto 55

    17 Settembre, 2010 - 22:05
  21. Luigi Accattoli

    Mabuhay: vecchietti pensionati: perchè guardate verso di me?

    18 Settembre, 2010 - 20:49

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