Luigi Accattoli. Il Padre nostro e il desiderio di essere figli

    Vademecum di un giornalista per abitare a lungo nella preghiera di Gesù

   Edizioni Dehoniane – Bologna 2005 – pp. 72 – euro 6.50

   Prefazione

   Raramente e forse mai mi trovo a casa mia come quando prego il Padre nostro. Mi riprometto ogni volta di dimorare in esso lungamente, più di quanto d’ordinario non me lo permettano il mestiere di giornalista e l’anima vagabonda che me l’ha fatto scegliere. Ma torno sempre volentieri a questa preghiera e invito chi incontro e chi più amo a visitarla con me, come faccio con gli amici e i parenti che capitano a Roma e che accompagno a vedere via Giulia, o la Domus Aurea.

   Questo libretto è la mia guida al Padre nostro, maturata negli anni. Non ha pretese ed è anzi vergognosa di sé, ben sapendo che la preghiera di Gesù è stata commentata nei secoli dai più grandi tra i Padri, i teologi e i santi. Ma come può risultare invitante, per chi viene a Roma la prima volta, visitarla in compagnia di chi ci abita, così il lettore di questo libretto può trovare qui – per un primo accostamento al grande testo – la parola semplice di un cristiano comune, che gliene dà un ragguaglio minimo nella lingua di oggi.

   Racconto la mia esperienza della preghiera di Gesù con il linguaggio e i mezzi poveri del giornalista: riferendo pareri, unendo le emozioni ai dati conoscitivi, tenendo d’occhio il mondo d’oggi e la vita quotidiana in esso. E’ in questa vita d’oggi che il Padre nostro mi fa la migliore compagnia e io qui provo a far girare – come posso – la notizia.

  Il Padre nostro mi fa felice, anzi mi esalta perchè raccoglie in sette domande la somma dei miei desideri. Perché mi autorizza a parlare a Dio chiamandolo “padre”, e con ciò mi chiama a diventare figlio e fratello d’ognuno. Perché mi garantisce che tutto questo non è un’illusione, dal momento che quelle parole ci furono dettate da Gesù, che mise in esse la sostanza della sua preghiera e la fece nostra.

   Siccome le parole di Gesù sono efficaci e operano quello che significano – come dicono i teologi – posso avere fiducia che ogni mio attraversamento della grande preghiera operi in me un qualche mutamento. Che io ne esca, ogni volta, minimamente migliorato.

   La preghiera di Gesù propone come prima e più importante invocazione quella che il Padre manifesti se stesso agli uomini e alle donne della nostra epoca e che costoro accettino la sua manifestazione: sia santificato il tuo nome. Una richiesta che basterebbe da sola a farmi pazzo di gioia, e un poco mi fa impazzire ogni giorno, comunicandomi la certezza che il problema dei problemi, cioè quello della fede nella nostra epoca, è nel cuore del Padre, dove torniamo a metterlo a dimora incessantemente, quanti siamo a invocarlo.

   Subito dopo il Padre nostro mi spinge a chiedere – e cioè ad affrettare, che è interesse d’ognuno – la venuta del Regno, vale a dire il compimento dei tempi e il ritorno di Cristo: venga il tuo Regno. Da tempo credo di vivere per quell’affrettamento.

   Propone poi che io faccia mio il progetto del Padre che vuole salvi tutti i suoi figli: sia fatta la tua volontà. E io, se mi capisco, non voglio altro!

   Chiede per me e per tutti il nutrimento e gli altri beni che ci sono necessari ogni giorno, sulla terra: dacci oggi il nostro pane quotidiano. Un padre che deve sfamare i figli non fatica a fare sue queste parole.

   Invoca il perdono di cui ho bisogno e mi impegna a perdonare chi mi avesse offeso: rimetti a noi i nostri debiti. Con gli anni si impara a cercare la misericordia.

   Implora che sia tenuta lontana da me e da tutti la tentazione di non credere e il Satana che la propone: non ci indurre in tentazione e liberaci dal Male. Io oggi l’Avversario lo sento.

   Nel Padre nostro trovo dunque tutto ciò che davvero importa. Quanto più mi è necessario e quanto più desidero. Invocato in ordine di importanza. Consegnato a parole scelte per noi da Gesù e capaci di ispirare il nostro linguaggio, di modellare i nostri sentimenti e di guidare la nostra vita.

   Osiamo dire: Padre nostro

   “Il Signore ci ha donato il suo Spirito. Con la fiducia e la libertà dei figli, osiamo dire: Padre nostro”: è la più bella tra le quattro “monizioni” con cui la liturgia romana introduce alla recita comunitaria del Padre nostro. Osiamo: perché è invocazione audace. E deve essere audace, altrimenti non tocca il Padre, né noi, né il mondo.

   Audace con il Padre: che non abbiamo timore di chiamare “papà”, nonostan­te che egli stia in cielo e noi sulla terra. Audace con noi: che, dichiarandoci figli e – dunque – fratelli, ci assumiamo una respon­sabilità sconfinata come la paternità divina e la fratellanza umana. Audace con il mondo: perché diciamo “Pa­dre nostro” a nome di tutti, compresi quelli che non pregano e quelli che non voglio­no pregare. Noi diciamo “Padre nostro” anche a no­me degli atei dichiarati. È un’audacia enorme. E non possiamo non compierla.

   Supponiamo di essere sette figli. Appunto io ho avuto quattro fratelli e due sorelle: la più grande e la più piccola. È sempre be­ne, accennando alle cose del Padre nostro, partire dal­la verità. Dunque siamo sette figli. Uno non ricono­sce il papà e la mamma: non li chiama per nome, non li vuole vedere, scappa da casa. Gli altri sei avranno il dovere — io pen­so, perché nella mia casa questo non è capitato — di amare i vecchi e di chiamarli per nome e di vederli con occhio di figli anche per conto di quello che non lo vuole fare. E non tanto avranno il dovere, quanto piuttosto vorranno e, meglio anco­ra, faranno prima di rendersene conto, d’istinto, di necessità. Così dalla parabola piccola della vita no­stra dobbiamo apprendere il mistero grande dell’in­credulità di questo secolo. E di ciò che essa significa davanti al Signore. Cioè per la nostra preghiera. Que­sta è l’audacia con i fratelli.

   Ma ci dovrà essere anche un’audacia verso di noi: chiamare Dio con il nome di Padre vuol dire considerare noi stessi come figli. Noi e tutti i nostri fratelli. Un’audacia dunque che tende a estendersi, fino ad abbracciare, per esempio, i morti.

   Per i carissimi morti saremmo capaci di qualsiasi cosa. Forse avremmo potuto ac­cettare di morire al posto di qualcuno, o qualcuna. E dunque accette­remo di prendere il loro posto nell’invocazione. Più pren­diamo il posto di altri nell’invocazione al Padre, più la nostra preghiera diventa audace e si moltiplica la nostra responsabilità. Eppure come non farlo? Chi dovrebbe pregare a nome delle sorelle e dei fratelli morti? Noi, i fratelli superstiti, le sorelle che sono an­cora qui. Dichiarandoci figli anche a loro nome moltiplichiamo la nostra responsabilità. L’amore al Padre dovrà lievitare fino alla piena rappresentan­za nostra e di tutte le creature che abbiamo preso su di noi.

   Infine l’audacia verso il Padre: non la so spiega­re, ma sento che ci deve essere. “Osiamo dire”: è già audace di suo la preghiera di Gesù. Chiamare “papà” il creatore del cielo e della terra. Chiedergli il Regno e il pane. Il Padre nostro come il luogo della libertà di parola nei confronti di Dio.

   Ma ecco che a tale audacia originaria noi – cristiani di oggi – siamo chiamati ad aggiungerne un’altra, come a voler costringere il Signore che in­vochiamo a divenire e mostrarsi realmente padre di tutti: vivi e morti, oranti e atei. “L’uomo deve gri­dare a Dio e chiamarlo padre fino a che diventi suo padre”, dice una massima chassidica. I tempi esigenti che vivia­mo ci chiedono un ampliamento della nostra invoca­zione: dobbiamo gridare a Dio e chiamarlo padre fi­no a che diventi padre di tutte le creature che da lui sono venute e che di lui si sono dimenticate. Fino a che diventi loro padre e a loro come tale si manifesti.

   Padre di noi tutti, credenti, mal credenti e non credenti. Dei registi Bellocchio e Almodovar, che mettono tanta passione nell’accusare l’educazione cattolica fino a convincersi d’essere atei. E dei nostri figli ventenni, che arrivano senza alcuno sforzo a quella stessa conclusione. Per quanti ritengono di essere atei, noi siamo chiamati a credere, al posto loro, che Dio gli è padre e li ama come ama noi. E dobbiamo invocarlo a nome loro. Cioè non soltanto dicendogli: provvedi a loro. Ma più ampiamente: prov­vedi a noi tutti, ché tutti siamo smarriti.

   Il Padre nostro è un testo straordinario in ogni parola, ma la sua più grande meraviglia è fuori di esso e sta nel fatto che ci è stato insegnato da Gesù e che noi lo possiamo pregare con lui.

   Di suo questa preghiera potrebbe benissimo essere pronunciata da un ebreo – quasi tutte le invocazioni che la compongono sono rintracciabili nella Bibbia ebraica – o da un musulmano, o da un deista, purchè professi la fede in un Dio unico. Ma allo stesso tempo, questa è una preghiera totalmente cristiana: specifico del cristiano, suo privilegio incomparabile, è di dirlo – il Padre nostro – con Gesù, unendo alla sua la nostra voce, conformando il nostro sentimento al suo.

   Le sette domande il cristiano le interpreta come sintesi e specchio delle parole che sugli stessi argomenti sono dette da Gesù nei Vangeli. L’intera preghiera l’attraversa – e non finisce di appassionarsi a questo attraversamento – rivivendo l’avventura di Gesù sulla terra: che dialoga con il Padre, che ce lo presenta come “Padre mio e padre vostro”, che ci dice come il nome più appropriato con cui rivolgerci al suo Dio è quello di Padre, che ci sollecita ad affrettare il Regno del Padre suo, che ci rivela come la volontà fondamentale di questo Padre sia che nessuno dei suoi figli vada perduto, che rimette alla sua provvidenza il pane di cui abbiamo bisogno ogni giorno e la misericordia e l’aiuto contro le tentazioni e la liberazione dal male e dal principe del male. Mentre ripete le parole che gli sono state insegnate da Gesù, il cristiano lo rivede che caccia i demoni, che guarisce i malati, che invita a vigilare contro le tentazioni, che ha pietà della folla affamata e dice ai discepoli: “Date loro voi stessi da mangiare” (Matteo 14, 16). Lo rivede che prega il Padre nell’Orto e che l’invoca dalla croce.

   “Il Padre nostro è la sintesi di tutto il Vangelo”, scrive già Tertulliano nel secondo secolo. E il cardinale Giacomo Lercaro, quando progetta una riforma della “Chiesa di Bologna”, tra il 1965 e il 1968, immagina un’assemblea di battezzati, come organo plenario della comunità, alla quale si viene ammessi recitando, come credenziale di appartenenza, il Credo o il Padre nostro.

   E’ con questo spirito, di chi nel Padre nostro trova il tutto dei Vangeli, che qui proviamo a percorrerlo entusiasti e riconoscenti.

   Padre nostro che sei nei cieli

   “Nostro”: cioè di noi vivi, tutti quanti siamo nel mondo e di loro — la maggioranza — che sono mor­ti e di quelli che verranno.

   Sorpresa nel trovare che la preghiera di Gesù non ha un’invocazione per i morti. Il popolo cristiano prega soprattutto per i morti e mette al centro di tale preghiera il Padre nostro, ma essa non nomina i morti.

   In proposito ho condotto – negli anni – una specie di disputa senza parole con Giuseppe Dossetti. Una disputa che partì da Sorrento, nel settembre del 1986. Ero laggiù per la settimana di aggiornamento dell’Università cattoli­ca. C’era tra i relatori – ed era una rarità – il monaco di Monteveglio, che poco si faceva vedere in pubblico. Noi giornalisti gli chiedemmo un incontro, che non accettò. Ma intanto preparavamo le domande. I colleghi volevano interrogarlo sul Con­cilio, il Sinodo, il papa e la politica. Io gli volevo chiedere — a lui che si era fatto monaco per pregare sempre — come mai Gesù non ci avesse insegnato a pregare per i morti. Ero motivato a quella domanda perché una volta l’avevo udito affermare che nel Padre nostro era raccolta ogni possibile invocazione.

   La risposta a quella domanda inespressa mi venne dallo stesso Dossetti quattro anni più tardi, quando mi mandò a dire da Gerico – dopo la morte della persona che mi era più cara – “non pregare per lei, ma prega con lei”. Ho capito allora che il Padre nostro è preghiera adattissima da pregare non per i morti, ma insieme a loro.

   Non avendo il Padre nostro un’invocazione per i morti, io insisto sulle due parole iniziali. E dico “Padre” anche a nome dei morti. Lo dico a nome dell’u­manità, che è fatta di quelli che vivono ora, che sono vissuti e che vivranno. Tutta l’umanità — anche quel­la possibile, anche i figli mai nati, morti con le donne che li portavano dentro — è figlia del Padre. E ho detto male, distinguendo tra quelli che vivono e quelli che sono vissuti, o vivranno. Dovrei invece parlare di tutte le creature viventi. Che viventi sono anche i morti, se la nostra fede non è bugiarda.

   E come sento vicini i morti, quelli che mi sono vissuti accanto e tutti gli sconosciuti, quando dico “Padre nostro”! Li sen­to vicini a me come certamente sono vicini a te, Pa­dre di tutti.

   “Si riuniscono nel cimitero per la preghiera”, mi capitò anni addietro di leggere in un dossier di Sergio Mercanzin sui cristiani in URSS, nel paragrafo dedicato ai “cattolici tedeschi” già appartenenti alla “Repubblica socialista sovieti­ca autonoma dei tedeschi del Volga”.

   Verità del Padre nostro recitato tra le tombe. L’ho sentita a Bagnolo di Recanati, un pri­mo novembre: c’era la messa in mezzo al cimitero. Che era pieno di gente. C’era il sole. Ed era una pre­ghiera di tutto quel popolo, vivi e morti, numerosi come mai. Ogni gruppo familiare accanto alle proprie tombe. Il parroco aveva smesso la tradizione di quella messa al cimitero. Ma la gente l’ha rivoluta. Chi ha detto che il popolo cristiano, dove ancora è popolo, non abbia più il senso della fede?

   Ricordo l’ultimo incontro con Herman Haering, nell’abbazia di Gars Am Inn, in Baviera, passata ai Redentoristi. Mi fece visitare la grande chiesa e il cimitero dei monaci, accosto al muro esterno e mi indicò la tomba che si era scelta: “Così continuerò a partecipare alla liturgia dei miei confratelli”. Ho riascoltato quelle parole tutte le volte che mi è capitato di visitare chiese con tombe nella cripta, o sotto il pavimento, o su un fianco, o intorno all’abside.

   Sono così le chiese di montagna: il popolo entra in esse passando tra le tombe e prega insieme ai suoi morti. Le comunità dell’antica Roma, che pregavano nelle catacombe. I papi sepolti nelle grotte vaticane: Giovanni Paolo I che continua a partecipare alle liturgie di Giovanni Paolo II.

   La Lavra delle Grotte a Kiev, dove i credenti ortodossi pregano con i padri dell’Ortodossia. I monaci – mi spiegava l’accompagnatore, che andava toccando a una a una le tombe, con la mano e con la fronte – vissero nelle Grotte solo nei primissimi tempi ed esse più tardi, edificati i monasteri, divennero luoghi di sepoltura, dove i discepoli amavano passare lunghe ore in orazione, in compagnia dei maestri dai quali avevano appreso l’arte della preghiera.

   Dossetti sepolto nel cimitero di Casaglia, dove continua a pregare con la sua comunità e con i “poveri morti di Montesole”, ai quali volle accompagnarsi già da vivo.

   Francesco che riposa sotto le sue basiliche ad Assisi. Escrivà de Balaguer nella casa madre dell’Opus, con il prelato suo successore che va a pregare con lui prima di prendere decisioni. E quel malato di AIDS che il cardinale Hume riuscì a far seppellire, come il poveretto aveva chiesto, sotto il pavimento della cattedrale di Westminster.

   Non ci deve inquietare il fatto che siamo in pochi a pregare. Anche se fosse vero che oggi l’umanità in­voca il Padre meno di ieri. Non lo sappiamo: la vera invocazione avviene nel segreto del cuore. E il cuore dell’essere umano oggi è segreto come ieri.

   Sembre­rebbe che oggi tutto sia pubblicità, ma non è vero. L’invadenza del mercato non ha fatto scom­parire la fede, ma l’ha fatta rifugiare nell’intimo dei cuori. Questa è forse la chiave per comprendere la condi­zione spirituale dell’uomo moderno. Ma anche se io mi sbagliassi, anche se davvero fossero pochi e meno che mai oggi gli uomini capaci di inginocchiarsi per invocare il Si­gnore, questa solitudine non ci dovrebbe turbare. Fos­simo anche soltanto dieci, o due, potremmo sempre dire a nome di tutti «Padre nostro». Sento che è le­cito invocare il Padre per conto di chi non lo fa mai. Sento che la prima risposta alla diminuzione dei cre­denti dovrebbe essere questo allargamento della pre­ghiera e delle sue responsabilità.

   Quando uno dice la verità, parla a nome di tutti. Lo sente un padre per i figli, contento che uno di loro indovini l’animo suo. Non l’ammetterà il Padre che è nei cieli, che in­viò il figlio a insegnarci l’intestazione giusta di ogni preghiera: “Padre nostro”?

   La paternità di Dio, la nostra familiarità con lui autorizzata da Gesù, che ci ha detto di chia­marlo, come lui faceva, “abbà”, cioè “caro padre”, “babbo caro”, “papà”. Ecco il cuore della fede cristiana. Ecco il messaggio centrale del Nuovo Testamento. E tutto è così semplice: è il Padre nostro che può riempire le nostre giornate. Le code, i viaggi, le anticamere, i mo­menti di solitudine. Per quanto tutto possa andare di traverso, il cristiano non perde mai tempo. Non dispera mai. Può sempre pregare.

   Da quando l’esperienza della paternità e quella della morte hanno dato inten­sità alla mia invocazione “Padre nostro”, ho saputo con sicurezza che in quelle due prime parole della preghiera di Ge­sù c’era tutta la sua e la nostra preghiera. Una volta compreso questo elemento, si potrebbe andare in gi­ro per il mondo dicendo Padre nostro e la no­stra missione di cristiani sarebbe completa. Ma ho poi cercato di in­formarmi e ho trovato che non sono necessarie ambedue le parole iniziali “Padre nostro” a espri­mere tutta la nostra invocazione, ma ne basta una: abbà, padre. E ho appreso che in Matteo la preghiera di Gesù inizia con le parole “Padre nostro”, mentre in Luca inizia con la sola parola “Padre”, che potreb­be essere tradotta “Padre mio”. E che probabilmente la formula più antica è quella di Luca, che ci dà, sia nel vocativo iniziale che in tutta la preghiera, una for­mula più breve, contenuta tutta in quella di Matteo.

   “Padre nostro che sei nei cieli” sarebbe l’amplia­mento liturgico e corale della formula iniziale e indi­viduale pronunciata da Gesù: “padre”, l’”abbà” aramaico, che era la voce familiare con cui i bambini si rivolgevano ai papà. Ecco che cosa scrive l’esegeta pro­testante Joachim Jeremias: “E’ essenziale intendere esattamente l’invocazione al ‘Padre’ posta all’ini­zio, poiché essa racchiude in sé tutta la preghiera. Sol­tanto chi ha compreso l’appellativo iniziale può real­mente pregare il Padre nostro (…) Per i discepoli do­vette essere una cosa sconvolgente che Gesù desse loro nel Padre nostro l’autorizzazione di dire ‘ab­bà’ come faceva lui. Questa è l’invocazione decisi­va del Padre nostro. Con tale autorizzazione Gesù rende i discepoli partecipi dei suoi privilegi di figlio e garantisce loro l’appartenenza al nuovo popolo di Dio (…). Incominciamo dunque a capire, già da que­sta prima parola, perché secondo la Chiesa primitiva la recita del Padre nostro non fosse permessa a tutti (…). Le antiche liturgie cristiane mostravano d’esser conscie della grandezza di questo dono, quando premisero alla preghiera del Signore le parole: ‘Noi osia­mo dire: Padre nostro’” (Il messaggio centrale del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1968).

   Questo sarebbe, secondo Jeremias, “il testo pre­sumibilmente più antico” del Padre nostro, “nella re­dazione breve di Luca, ma con le piccole varianti del testo di Matteo” (ivi, p. 125):

Padre mio,

sia santificato il tuo nome.

Il tuo regno venga.

Il nostro pane per domani

dacci oggi.

E rimetti i nostri debiti,

come anche noi,

pronunciando queste parole,

rimettiamo ai nostri debitori

e non permettere che noi

soccombiamo nella tentazione.

   Lo riporto perché per me è stato utile — nella mia riscoperta della preghiera di tutti i giorni — l’ascolto di un testo un po’ diverso: non tanto per le informazio­ni sulla sua maggiore antichità e vicinanza all’inse­gnamento di Gesù e non solo per la variante “Padre mio” (che considero un’informazione preziosa), ma soprattutto per l’aiuto a riudire le parole, liberate dall’abitudine della formula mandata a memoria. Una volta che le ho riascoltate, sono tornato alla formula della memoria, che era ridivenuta viva. Racconto tut­to questo perché, nella grande impresa dell’orazione, anche la minima esperienza di un uomo ignorante co­me me può essere d’aiuto. Se non altro a chi soffre di altrettanta ignoranza.

   Vantaggio della paternità umana secondo la car­ne: essa ci aiuta a sentire per intero il senso dell’in­vocazione “Padre nostro”. L’essere figli, che è espe­rienza universale, ci aiuta a pronunciare con piena avvertenza quelle parole, che altrimenti sarebbero per noi una formula magica. L’essere padri e madri ci permette di intuire il suono che esse hanno nel cuore del Signore. Que­sta che ho appena scritto è forse una frase senza si­gnificato. Eppure qualcosa intendevo dire. Proviamo a metterla così: l’esperienza della figliolanza e della paternità ci aiuta a pronunciare le parole “Padre no­stro” con tutti i sentimenti.

   Padre cinque volte, sperimento ogni giorno – da quasi trent’anni – la felicità di essere chiamato “papà” e anche “padre” e “pater” in latino, quando i ragazzi vogliono scherzare. Una figlia laureata in lingue e con la passione per i dialetti italiani mi dice “papà” in inglese, in russo, in siciliano. E tutti mi dedicano le varianti infantili e gergali che fioriscono in ogni famiglia: papi, papo, papone, pa’, daddy, babbo. A me piacciono, queste varianti e ogni tanto mi chiedo se riuscirò mai a comprendere fino in fondo la fortuna che ho avuto ad avere figli che mi vogliono bene, ad averli a lungo con me, a sentirli che mi chiamano, mi chiedono aiuto e consiglio, mi invitano a spiegare questo e quello.

   Il fatto che mi piace essere chiamato con nomi diversi, mi provoca a usare le varianti del vocativo iniziale della preghiera di Gesù nella mia invocazione: dopo tutta l’esaltazione che mi dà – come dicevo – l’invocazione “Padre nostro”, mi esalto ancora di più dicendo “Padre mio”, o semplicemente “Padre”. Ed eccomi a sperimentarli a turno, tutti questi vocativi iniziali, godendoli come i nomi che si danno nell’amore.

   Capita che i cristiani mostrino un’aria mortifica­ta, a motivo dei tempi avversi. Ma non dovrebbero, se solo ricordassero che Gesù ha insegnato loro a par­lare al Padre. Che è tale nella buona e nella cattiva sorte. Anzi parlare al Padre fa buona ogni sorte: “Sia­mo afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ric­chi molti; gente che non ha nulla e invece possedia­mo tutto!” (2 Corinti 6,10). E non c’è posto – parrebbe – per l’angoscia, nella vocazione cristiana, che comporta sempre la confidenza con il Padre: “Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù” (Filippesi 6, 6-7).

   La preghiera di Gesù costituisce anche una riserva ecumenica: cioè una risorsa di unità tra i cristiani che non viene mai meno, neanche quando la divisione delle Chiese si fa istituzionale e divide le assemblee liturgiche.

   Il Padre nostro recitato nelle assemblee ecumeniche, quello pregato insieme da Giovanni Paolo II e dall’arcivescovo ortodosso Cristodulos ad Atene, il 4 maggio del 2001 e quello che il papa ha intonato con il vescovo luterano di Presov, in Slovacchia, il 2 luglio del 1995: sono segni di fraternità ritornante, a sormontare l’inimicizia accumulata nei secoli.

   Chissà che un giorno il Credo non basti a fare l’unità della dottrina e il Padre nostro quella dell’orazione tra tutti i cristiani. Credo che sia giusto sperarlo.

   “L’espressione ‘che sei nei cieli’ non indica un luogo, ma la maestà di Dio e la sua presenza nel cuore dei giusti. Il cielo, la casa del Padre, costituisce la patria vera, verso la quale siamo in cammino e alla quale già apparteniamo”: così leggo al paragrafo 2802 del Catechismo della Chiesa cattolica, che ha – nella sezione seconda della parte quarta – un bel commento al Padre nostro.

   I cieli non sappiamo come pensarli. “Vorrei capire, con i miei occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo”: così scrive Aldo Moro nell’ultima lettera dal carcere, salutando — prima dell’“esecuzione” (8 maggio 1978) — la “dolcissima Noretta”. Credo sia la più bella preghiera dei nostri anni oscuri, questa invocazione alla luce dal car­cere delle Brigate Rosse. Credo che quelle parole siano grandi. Da anni sono per me il primo aiuto nella meditazione sulla luce come sguardo del Padre.

   Una bambina di tre anni cercava la mamma, che era partita per sempre. Il papà le diceva “la mamma è in cielo”. La bambina correva alla finestra, si faceva prendere in braccio e la cercava, con il papà, guardando sopra i tetti.

   La cercavano a lungo e insieme dicevano: “Padre nostro che sei nei cieli, fai tu compagnia alla nostra mamma”.

   Non sappiamo – è vero – come guardare al Padre che è nei cieli. Ma sappiamo come parlargli, grazie alle parole che Gesù ci ha insegnato.

   Non possiamo vedere il Padre che è nei cieli. Il cristiano accetta questo limite, ma non si ferma a esso: tenendo per mano il fratello Gesù, volge con decisione lo sguardo al mistero.

   Sia santificato il tuo nome

   “Sia santificato il tuo nome” è stata per me la più difficile a intendere tra le invocazioni del Padre nostro, ma so da tempo che è la più importante e che non è un caso se Gesù l’ha posta per prima. Su di essa mi sono dunque impegnato, negli anni. Ho provato a ridurre la difficoltà sperimentando – alla buona – qualche variante della traduzione: “sia benedetto il tuo nome”, o “sia lodato”. Qualcosa ho guadagnato per questa via: il tuo nome – cioè tu, Padre – sia da tutti onorato e non bestemmiato.

   Poi ho cercato di aiutarmi con i commenti alla Bibbia, in modo da cogliere più a fondo quel verbo “santificare”, che è così arduo al nostro orecchio. Anche studiando ho fatto qualche acquisto. Ho inteso che veniva invocato non tanto un riconoscimento pubblico e generico di Dio, ma come uno svelamento del suo volto, da lui stesso operato, nella storia e nella vita dell’umanità.

   Infine ho cercato una via tutta mia, che non aboliva gli acquisti delle prime due, ma li completava. Su questa via cammino ancora e quell’invocazione l’intendo come una supplica a Dio perché torni a manifestarsi come Padre all’umanità di oggi, che rischia di smarrire il senso di quella paternità. Sia cioè manifestato e da tutti riconosciuto il tuo nome, che è quello di Padre. Il tuo essere Padre.

   Per primo – ovviamente – deve essere posto il significato che poteva avere sulla bocca di Gesù l’espressione “sia santificato il tuo nome”. Gesù, quando la formulò, doveva avere nell’orecchio un passo del profeta Ezechiele, che mette queste parole in bocca al Signore Dio: “Santificherò il mio nome grande, disonorato fra le genti, profanato da voi in mezzo a loro. Allora le genti sapranno che io sono il Signore, quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi (…) Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei precetti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri, voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio” (36, 22-28).

   Questo passo del profeta Ezechiele è utile anche per intendere la terza domanda del Padre nostro, quella che dice “sia fatta la tua volontà”: perché la volontà del Padre si affermi sulla terra, com’essa vige nel cielo, occorre che l’iniziativa parta dal Padre stesso, che muti il cuore degli uomini e li porti a vivere secondo – appunto – la sua volontà.

   Ma restiamo alla domanda riguardante la santificazione del nome. Nel linguaggio biblico il nome tende a identificarsi con il nominato e dunque il nome di Dio è Dio stesso e di Dio rivela l’identità.

   Gesù ci ha appena detto che il nome del suo Dio è quello di Padre e ora ci invita a chiedergli di “santificare” quel nome, cioè di manifestarlo come santo. Ci invita a chiedere al Padre di manifestarsi in pienezza nella sua divinità, vale a dire nella sua santità e nella sua gloria (che nel linguaggio biblico sono sinonimi), in modo che l’umanità lo possa accogliere.

   Un prete amico – don Mario Albertini, che frequento dagli anni della Fuci – ha formulato così la sua interpretazione della prima domanda del Padre nostro: “Nel chiedere che il nome del Padre sia santificato, rivolgiamo il pensiero alla rivelazione definitiva che Dio darà di se stesso, di Padre che dona la vita e la gioia. Avverrà alla fine dei tempi, ma già egli si rivela Padre nella storia dell’umanità e nella vita di ciascuno. Dicendo ‘sia santificato il tuo nome’ gli diciamo: tocca a te manifestarti come Padre! Certo, come e quando vorrai tu, ma manifestati!” (nell’opuscolo pro manuscripto Pensieri di meditazione sul Padre nostro, senza data, p. 6).

    Don Mario è un amante del Padre nostro e queste sue parole mi paiono le più indovinate che io abbia letto sulla prima domanda della preghiera di Gesù.

   Avendo trovato in Tommaso d’Aquino l’idea che questa – “sia santificato il tuo nome” – era la domanda più importante del Padre nostro (egli ritiene che le sette domande ci siano state proposte da Gesù in ordine di priorità: Summa theologiae II-II, 83, 9), mi sono interrogato a lungo su di essa e credo d’averla intesa, almeno un poco. Quanto basta per considerare avviata la mia indagine.

   Forse l’intera vita del cristiano può essere guardata come un’interminata ricerca del Padre nostro: una ricerca che ovviamente non si limita al significato delle parole, ma che tende a realizzare una progressiva rispondenza dei nostri desideri e della nostra vita alle sette domande che compongono la preghiera di Gesù.

   Venga il tuo Regno

   “Venga il tuo Regno” è per me la più cara tra le invocazioni del Padre nostro, quella che apre sul futuro. Lo Spirito che rinnova la faccia della terra, il Signore che torna, il Regno che viene.

   Non dobbiamo lasciarci fuorviare dalle interpretazioni riduttive e devozionali di questa domanda, come se essa invece del ritorno di Cristo invocasse semplicemente un accrescimento del nostro attaccamento al Signore: chiede anche quello, ovviamente, ma come portato della prima richiesta, che riguarda l’affrettamento della venuta del Regno.

   Chi restasse dubbioso di fronte a questa affermazione, creda al Catechismo della Chiesa cattolica, che al paragrafo 2859 afferma: “Con la seconda domanda la Chiesa guarda principalmente al ritorno di Cristo e alla venuta finale del Regno di Dio. Ma prega anche per la crescita del Regno di Dio nell’oggi delle nostre vite”.

   Quante volte ho sentito dire che si tratta del Regno che è dentro di noi! Così come ho sentito interpretare al ribasso “sia santificato il tuo nome” come se si trattasse di un’invocazione contro la bestemmia, e “sia fatta la tua volontà” come se riguardasse il rispetto dei comandamenti, e “non ci indurre in tentazione” come se fosse una messa in guardia dall’erotismo! Che sono significati presenti e possibili, ma secondari: non sono il significato, quello da cercare per primo e senza il quale non si intendono gli altri.

   Di interpretazioni al ribasso, addomesticate e moralistiche è piena la predicazione e la tradizione devozionale. E’ pieno lo stesso linguaggio religioso. Uscirne è difficile ma necessario, se vogliamo fare nostri i sentimenti di Gesù e non quelli della pia tradizione.

   Il Padre nostro che risuona nella pienezza evangelica delle sette domande è uno scatenamento del desiderio infinito di Dio e di tutto. Il Padre nostro devozionale funziona d’abitudine come un sonnifero.

   “Venga il tuo Regno” sta a dire che il cristiano dovrebbe avere il cuore nel futuro. Sentire l’alba del domani. Il suo sentimento do­minante dovrebbe essere il sentimento del tempo. Dovrebbe vivere la vicinanza al creato — che è tutto in attesa — co­me uno sposo vive accanto alla sua donna incinta. Per­ché tutta la creazione geme nelle doglie. Dovrebbe sentire il Regno che viene come la mamma in attesa sente crescere dentro di sé la nuova creatura. Dovreb­be sapere che ogni istante è gravido di futuro. «No hay un istante que no esté cargado como un arma» dice Borges (non c’è un istante che non sia carico co­me un’arma: in Doomsday, cioè “Giorno del Giudizio”).

   Persino la morte dovremmo sentirla come semi­na. Tutti i nostri morti torneranno a noi, dopo essere caduti co­me semi nel terreno. Germineranno con il Regno.

   Quanta tristezza in casa tutte le volte che sono morti i piccoli animali dei bambini: la rondine di Valentino, il criceto di Agnese, i pesci di Beniamino e di Matilde, le tartarughine di Miriam. Le figlie piangevano e io leggevo Qohèlet 3,18-22: «Ri­guardo ai figli dell’uomo mi sono detto: Dio vuol pro­varli e mostrare che essi di per sé sono come bestie. Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti. Non esiste superiorità del­l’uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità. Tutti sono diretti verso la medesima dimora: tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere. Chi sa se il soffio vitale dell’uomo salga in alto e se quello delle bestie scenda in basso nella terra?

   Signore, tu hai detto che i morti tor­neranno e io credo alla tua parola. “Venga il tuo Regno” lo dico anche a nome loro. E mi ingegno a vivere “attendendo e affrettando la venuta del giorno di Dio” (2 Pietro 3, 12). Aspettando “la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”.

   Non può essere banale la vita di chi ogni giorno mormora «venga il tuo Regno», credendo che il Re­gno viene. Anche l’uomo più sedentario e grigio, con quelle parole si sente membro di una congiura cosmi­ca. Esse sono lo strappo attraverso cui prende vento la vita.

   L’attesa del Regno lie­vita queste giornate basse. Il misterioso fatto di essere qui. Di essere vivo. Il mistero colorato delle donne. La loro fecondità. La luce che le mostra. I figli che crescono ogni mattina. E il mistero buffo di tutti, che cercano soldi e carriera, pieni di entusiasmo. Come se non sapessimo che “passa la scena di questo mondo” (1 Corinti 1, 31).

   Ininterrottamente Rabbi Moshe — uno dei Chassidim narrati da Martin Buber — attendeva la venuta del Messia. Quando sen­tiva un rumore per la via si affacciava a vedere se era arrivato. Teneva pronti i vestiti del Sabato e il ba­stone di pellegrino. Andando a dormire lasciava det­to che lo svegliassero appena arrivava il messaggero. “Fino a tarda età non gli venne mai il pensiero di poter morire prima che arrivasse il Messia”. Una volta che gli offersero di comprare una casa accanto alla sinagoga rispose: perché mai? presto verrà il Mes­sia e andrò a Gerusalemme. Questo episodio della casa mi ha ricordato l’eguale convinzione che aveva il fon­datore dei Testimoni di Geova, Charles T. Russel (1852-1916): sentiva così imminente la seconda ve­nuta di Cristo, che fece costruire in California una grande casa dove ospitare i dodici patriarchi, quan­do fossero arrivati. Penso che anche il cristiano do­vrebbe aspettare. Visibilmente e tangibilmente. Co­struire case e comprare terre è affare degli altri. Chi sa che il Signore viene, non intralcia l’attesa. Scruta l’orizzonte, pronto a muoversi.

   Mi vado convincendo che il Regno verrà quando dieci giusti si accorderanno – senza conoscersi – per invocarne la venuta.

   Dico “dieci” per dire un numero che non sappiamo.

   Dico che si “accorderanno” in riferimento alla parola di Gesù: “Se due di voi sulla terra saranno d’accordo su qualche cosa da chiedere, qualunque essa sia, sarà loro concessa dal Padre mio che è nei cieli. Infatti, dove sono riuniti due o tre nel mio nome, ivi sono io, in mezzo a loro” (Matteo 18, 19-20).

   Dico che “si accorderanno senza conoscersi” per segnalare che questa è una congiura dello Spirito.

   Se il ragionamento fila, non resta che mettere l’anima nelle parole “venga il tuo Regno” ed esso verrà.

   Le donne sentono più degli uomini il tempo che viene. Sono magiche e ricche di presentimenti. Se fos­simo meno materiali e cercassimo davvero i segni del Signore che viene, ameremmo di più queste sorelle della vita, così dotate di sguardo.

   Oltre allo sguardo e ai presentimenti, le donne hanno un’altra magia che le fa adatte ad appostare i segni del Signore che viene: la loro fecondità. Quella memoria germinativa del loro essere, che da un atto d’amore le porta a generare nuovi amori e che è l’im­magine più alta della creazione divina: “S’aperse in nuovi amor l’eterno Amore” (Dante, Paradiso 29,18). L’uomo è la creatura del sesso che si smemora, la don­na è la creatura dell’amore memore. La memoria del­l’amore la fa madre. La fa lievitare e partorire insie­me a tutto il firmamento. Per dire che l’intero uni­verso attende il figlio dell’uomo, Paolo ricorre all’im­magine della donna incinta: “Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nel­le doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la reden­zione del nostro corpo” (Romani 8,22-23).

   Sento che qualcosa sta per avvenire. Sono pieno di attesa e di meraviglia. Come un ragazzo che si scopre innamorato. L’attesa di cinque figli mi ha educato a sentire che tut­ta la creazione è nelle doglie del parto.

   Invocare il Regno è accettare il destino sconosciuto. Aprirsi all’imprevedibile. Avvertire che qualcosa sta per succedere. Come dice la Maria di Jean-Luc Godard – nel film Je Vous salue Marie, del 1984 – alla prima avvisaglia del Dio ignoto: “Chis­sà se succederà qualcosa nella mia vita?” 

   II Signore non è Signore del passato, né garante del presente. Non si lascia invocare per tenere ferme le cose, o per tornare indietro. Egli è sovversione dell’esistente e promessa di novità. “E vidi un cielo nuovo e una terra nuova” si legge al capitolo 21 dell’Apocalìsse, dove la “nuova Gerusalemme” scende dal cielo preparata come sposa che è stata ornata per lo sposo: “La morte non sarà più, né lutto, né grido, né dolore saranno più, che le cose di prima sono pas­sate”. “Venga il tuo regno” è invocazione di tutta questa novità.

   Si dovrebbero sentire parole come queste: dev’essere un cristiano, vedi come sa aspettare? Non dal­l’impazienza, ma dalla vigilanza e dalla fecondità del­l’attesa si dovrebbe riconoscere il discepolo di Cristo.

   “Come la folgore viene da Oriente e brilla fino a Occidente, così sarà la venuta del figlio dell’uomo” (Matteo 24,27). Quando il ritorno di Cristo ci porrà tutti contemporaneamente davanti a lui, troveremo utile aver invocato il Padre come “Padre nostro”, dei vivi e dei morti, chiedendogli la venuta del Regno, che sarà per tutti benefica.

   Sia fatta la tua volontà

   come in cielo e così in terra

   La volontà del Padre è che tutti i suoi figli siano salvi. Chiedendo che si realizzi sulla terra, come essa trova verifica nel cielo, noi imploriamo che l’umanità accolga quella volontà, e cioè si lasci salvare.

   Nel brano del profeta Ezechiele che abbiamo citato sopra, perché ci aiutasse a intendere le parole “sia santificato il tuo nome”, abbiamo ascoltato il Signore Dio che dice: “Santificherò il mio nome, vi farò vivere secondo i miei precetti, vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi” (36, 23-27). Gesù – nell’insegnarci la sua preghiera – non nomina precetti e leggi, ma rivolge la nostra invocazione direttamente alla volontà del Padre. Ciò è conforme all’intera predicazione evangelica, che non mira all’osservanza dei precetti, ma li guarda come aiuti per andare a Dio.

   Seguendo dunque la priorità indicata da Gesù, prima di cercare quale sia la volontà di Dio riguardo al nostro comportamento (leggi e precetti), dovremo interrogarci sulla volontà del Padre in ordine al nostro destino. Su di essa il Nuovo Testamento è chiarissimo: il Padre vuole che tutti i suoi figli siano salvi.

   Quando ci insegna a invocare “sia fatta la tua volontà”, Gesù usa le stesse parole con cui si esprime quando ci ammaestra sulle intenzioni del Padre: “Questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Giovanni 6, 39-40).

   Identità di linguaggio c’è anche tra la terza domanda del Padre nostro e la grande affermazione paolina della volontà salvifica universale: “Dio, nostro salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Timoteo 2, 3-4).

   Noi chiediamo dunque al Padre che realizzi pienamente la sua volontà di salvezza sulla terra, come già è realizzata in cielo.

   Autorizzandoci a invocare la salvezza di tutti, il Padre nostro ci autorizza anche a sperare – come direbbe Von Balthasar: Sperare per tutti, Jaca Book, Milano 1989 – che tutti gli uomini vengano salvati

   Nell’invocazione “sia fatta la tua volontà” c’è un chiaro elemento di reciprocità: il Padre ci vuole salvi e noi figli gli chiediamo di salvarci. Come quando un papà di quaggiù si curva e tende le mani verso il piccolo, che alza le sue per essere preso in braccio. Qui i movimenti del Padre e nostri appaiono destinati all’incontro e possono essere descritti con il linguaggio del corteggiamento: “Come desideri me, io desidero te”, canta Paola Turci in una canzone.

   L’elemento della reciprocità – qui lampante – è rintracciabile in ogni domanda del Padre nostro: tutte invocano dal Padre ciò che egli vuole per i figli. In ognuna di esse, invocando il Padre ci esercitiamo a esserne figli. Il Regno, il pane, il perdono: egli non vede l’ora di donarci quanto gli chiediamo. La preghiera è il luogo dove il desiderio e il dono sono chiamati a incontrarsi: “Il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno” (Matteo 6, 8).

   “Come in cielo così in terra”: se il Padre nostro è il luogo dello scatenamento dei desideri del cristiano, esso è anche la scuola dove egli apprende ad assimilare i suoi desideri a quelli del Padre. Ne viene un’ubriacatura, anzi un delirio, ma un delirio al quale siamo stati chiamati: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Matteo 5, 49). Che io desideri come tu desideri, “non come voglio io, ma come vuoi tu” (Matteo 26, 39): come in cielo così in terra.

   La via pratica – si direbbe il metodo – per assimilare i nostri desideri a quelli del Padre è il nostro avvicinamento a Gesù, che abbiamo conosciuto, mentre il Padre mai nessuno l’ha veduto. Quell’avvicinamento è favorito non solo dalla conoscenza, ma anche dall’atteggiamento amicale tenuto da Gesù verso di noi: “Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Giovanni 15, 15).

   In conclusione potremo dire che la terza domanda del Padre nostro ci invita a chiedere al Padre di dare piena attuazione alla sua volontà di salvezza. Vincendo ogni ostacolo che a essa si opponga e assimilando la nostra volontà a quella del Figlio suo.

  Sappiamo bene come sia ardua la sequela di Gesù su questa via. E ancor più – se possibile – ci spaventa il fatto che di fronte alla prospettiva dell’obbedienza fino alla morte lo stesso Gesù abbia avuto difficoltà ad assimilare la sua volontà a quella del Padre.

   Mistero – questo – tra i massimi del cristianesimo, all’origine del fascino più profondo della figura di Gesù, ma anche di una delle difficoltà a comprenderla da parte della cultura moderna.

   Il fascino di Gesù che muore per amore dell’umanità alla quale è stato inviato: cioè martire della predicazione disarmata del Regno del Padre suo, inteso come un Regno di fraternità – che si realizza nell’accettazione della condizione di figli e dunque di fratelli – e non di dominio.

   La difficoltà a intendere che il Padre stesso abbia voluto la sua morte, quasi ponendosi a complice dei suoi accusatori: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice” (Luca 22, 42). Il calice non viene allontanato. Gesù lo beve fino in fondo. Fino a gridare al Padre, con il Salmo 21: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Marco 15, 34 e Matteo 27, 46).

   Pur sapendo che Luca mette in bocca a Gesù morente parole di più intimo affidamento (“Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”: 23, 45), quel grido non ci lascia dormire. Perché il Padre non accoglie l’invocazione del figlio?

   Che vogliono dire – oggi per noi – i termini “riscatto, sacrificio, espiazione, soddisfazione, merito” con cui il linguaggio della Scrittura e della Chiesa ha presentato nei secoli il mistero della croce? Francesco Lambiasi – un vescovo che cerca le parole per parlare all’uomo d’oggi – riconosce che “paradossalmente queste immagini rischiano oggi di trasmettere un messaggio esattamente contrario a quello per cui sono state adoperate fin dalle origini del cristianesimo”. Erano intese, quelle immagini, a trasmettere il messaggio della totale gratuità dell’amore e invece oggi suonano come denuncia di un atteggiamento crudele del Padre, che viene a presentarsi a noi come una divinità pagana da placare con il sangue. Occorre tornare – scrive Lambiasi – ad affermare, con parole comprensibili all’uomo d’oggi, che la croce ha il solo compito di manifestare l’amore e che di null’altro è questione tra il Padre e il Figlio nel dramma dell’Orto: “Il Padre gli chiede di abbandonarsi nelle mani dei peccatori, perché solo così l’amore può manifestare la sua onnipotenza. Alla fine Gesù entra decisamente nel disegno divino, i discepoli invece non riescono a entrare nel progetto di Gesù” (Francesco Lambiasi, Crocifisso: perché?, Ave, Roma 2005). 

   Seguendo l’insegnamento del vescovo amico, io dico a me stesso – quando mi fermo con Gesù nell’Orto – che la prospettiva della morte costituisce la più grande tentazione e provocazione ad abbandonare la via dell’amore. Gesù ha avvertito quella tentazione, così umana: l’impulso a chiamare le “dodici legioni di angeli” (Matteo 26, 53) per respingere l’assalto del Sinedrio e instaurare il Regno con la forza; oppure ad autorizzare i suoi a combattere (“Signore, dobbiamo colpire con la spada?”: Luca 22, 49), trasformandosi in un messia politico. Ma non era quella la via per la quale il Padre l’aveva avviato.

   A evitare quel tradimento di sempre, a vincere quella tentazione primordiale (la stessa dei progenitori, la stessa di ogni generazione e persona umana: quella di dominare l’altro, o di rispondere al male con il male), il Padre gli chiede di non resistere agli accusatori e di consegnarsi disarmato ai persecutori. Perché solo così il cerchio della violenza sull’altro sarebbe stato spezzato e l’amore avrebbe trionfato sulla forza, la misericordia sul dominio, il bene sul male.

   Egli si arrende alla volontà del Padre ed ecco che invece delle dodici legioni viene a lui un angelo consolatore (Luca 27, 43) ed ecco che invita Pietro a non combattere: “Rimetti la tua spada nel fodero; non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?” (Giovanni 18, 11).

   Il lettore perdoni il mio zoppicamento sulla grande via della teologia della croce e vada lui più spedito dove io inciampo. Chiudo applicando a noi: ogni volta che la paura di morire o di fallire ci sollecita ad abbandonare la via evangelica dell’amore e della misericordia, ecco che veniamo a trovarci nella posizione di Gesù nell’Orto. Se sceglieremo di rimettere la spada nel fodero, verrà a noi l’angelo consolatore.

 

   Dacci oggi il nostro pane quotidiano

   Pronunciando la quarta domanda del Padre nostro parliamo davvero a nome di tutti gli uomini. Faremo altrettanto con le tre ultime invocazioni (i debiti, la tentazione, il Male) e l’abbiamo già fatto con le parole iniziali “Padre nostro”. Ma in quelle quattro occasioni siamo fortemente indotti – da una consuetudine pigra e, chissà, difensiva – a immaginare di parlare a nome della comunità dei credenti. Qui invece, nella domanda del pane necessario a ogni giorno della vita, è lampante la comunanza con l’intera umanità.

   In verità quella proiezione universale la dovremmo avvertire in ogni parola del Padre nostro, perché il Padre è padre di tutti, perché egli vuole tutti salvi, perché ogni uomo ha bisogno d’essere perdonato, difeso dalla grande tentazione e liberato dall’Avversario. Ma alcuni uomini e donne che vivono con noi sulla terra non sanno – o non vogliono sapere – di quella paternità e di quei bisogni. Mentre tutti conoscono il pane e la sua necessità.

   Tutti sanno l’importanza del pane, ma può capitare che il benestante, o anche soltanto chi ha un buon lavoro fisso – e potrei essere io – senta poco questa invocazione, una delle più serie di tutta la preghiera cristiana. Eppure essa, nel profondo, è vera per tutti e non soltanto per il mendicante, o l’invalido, o il pensionato: una carestia, o una guerra, o anche solo una crisi dei gior­nali potrebbe mettere alla fame me, la mia sposa e i miei figli.

   In verità tutti – sulla terra – siamo esposti al rischio della fame. Un dissesto economico può colpire ogni società dell’abbondanza e qualsiasi lavoratore di successo può essere appiedato da un infortunio professionale, o da una grave malattia. Ma ciò che è vero nel profondo non sempre è vero  nell’immediato, o nella percezione soggettiva. Perché l’invocazione “dacci oggi il nostro pane” valga pienamente nelle ore del giorno, sarebbe necessario vivere affidati per intero alla Prov­videnza. Così Francesco voleva che fosse la vita dei Frati minori.

   Quell’invocazione ritrova per ognuno la sua bruciante verità se è fatta in nome di tutta l’umanità. Che forse mai come oggi ha avuto bisogno di pane, mai essendo stati altrettanto numerosi i figli degli uomini. Ma perché sia vera la mia preghiera fatta in nome dell’affamato, so che prima devo fare tutto il mio possibile per sfamare quel fratello. E’ un inganno mettere insieme la preghiera, se prima non abbiamo messo in comune il pane. Se non abbiamo compiuto – o almeno progettato – un qualche gesto, sia pur minimo, in quella direzione.

   Il significato vero, già oggi, dell’invocazione del pane può es­sere solo questo: insegnaci ogni giorno a meritarci il pane che ci dai, a non sottrarlo agli altri, a non accumularlo, a darlo con l’abbondanza con cui lo ricevia­mo, a realizzare un mondo che abbia pane per tutti.

   A proposito del “pane quotidiano”, racconto una parabola vista a Kinshasa, capitale del Congo, una delle volte in cui ci sono stato al seguito del Papa: la seconda, nell’agosto del 1985.

   Kinshasa pol­verosa e slabbrata, tristissima all’alba. Facevo in pull­man i venticinque chilometri verso l’aeroporto. Stra­done polveroso e infinite traverse, tra baracche e por­cili. Sono solo le sei e sono già tutti in giro. La fame si sveglia presto. Gli uomini vanno lenti con le mani in tasca. Le donne svelte con ceste vuote sulla testa. Il baracchino della Pepsi-Cola è diventato una casa: dallo sportello basso escono un maialino e un bambino e corrono in direzioni diverse. I bambini sono già tutti in giro. Ecco una donna con un cesto di pane in testa e un bimbo in schiena. Viene verso di noi. Poi un’altra con un’altra cesta, più larga e i pani lun­ghi disposti a raggiera che sporgono rivolti in alto, co­me le stecche di un ombrello rovesciato. E un’altra e un’altra. Dunque il pane c’è. E gli affamati non as­saltano le portatrici. Neanche guardano il pane. Dopo tre chilometri, o che, la sfilata si inverte: ora queste ceste e queste donne non vengono più incontro a noi, ma camminano nel nostro stesso senso di marcia. Qualcuna ha un bimbo piccolo sulla schiena, uno piccolissimo in braccio e uno grandicello per mano. Capisco all’improvviso: sono le venditrici di pane che ho visto per le strade di Kinshasa. Quelle ceste sono in Africa le nostre panetterie. Le donne si alzano prima del­l’alba. Tirano su i bimbi piccini e se ne vanno al for­no. Camminano tra la polvere leggera del primo gior­no per ore e chilometri. Tornano con la cesta, cia­scuna al suo angolo. Quella più lontana è la più sfortunata. Qualcuna porta il pane a un punto dove lo piglia un’altra. Poi lo vendono tutto il giorno. Uno zaire al pezzo. E debbono riportare tutti gli zaires al forno. Se no, non gli ridanno il pane. E ci guada­gnano sei pezzi di pane: uno per ogni bocca della ca­sa. E se le bocche sono di più cresce la fame. E ogni pezzo viene spezzato più volte. E il bimbo in schie­na già mangia il suo camminando. Poi mangerà quel­lo della mamma. Anche questo significa “spezzare il pane”. Lo procurano le donne, sorelle della vita.

   Un padre e una madre conoscono l’importanza del pane per i figli. Il dovere di procurarlo loro. L’importanza di questo compito, che resta nel suo merito anche se altri obiettivi dell’avventura genitoriale dovessero risultare manchevoli. Invocare il pane per i figli e fare di tutto perchè non manchi a loro sarà il titolo con cui si presenteranno un giorno al Signore.

   Nella stanchezza di tante giornate, mentre mi domando se valga la pena di correre tanto, mi conforta l’idea che lo faccio per dare il pane ai figli. Questo pensiero mi basta per recuperare le forze.

   Gesù sa l’importanza del pane. La domanda del pane quotidiano l’ha messa al centro del Padre nostro, come quarta tra le sette invocazioni.

   Mentre diciamo “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, vediamo Gesù che moltiplica i pani, che prende il pane e dice “questo è il mio corpo”, che spezza il pane davanti ai discepoli di Emmaus, che chiede ai discepoli – apparendo loro dopo la risurrezione – se hanno “qualcosa da mangiare”, che dice ai parenti della figlia di Giairo “datele da mangiare”, che proclama “non di solo pane vive l’uomo”.

   Per dimorare a lungo nell’invocazione del pane quotidiano io scelgo l’una o l’altra di queste parole del Signore e le tengo nel cuore. Ma in particolare e più frequentemente è alla parabola del “mendicante di nome Lazzaro” (Luca 16, 19-31) e a quella del giudizio finale (Matteo 25, 31-46) che chiedo di insegnarmi le parole e i sentimenti necessari per una piena comprensione della preghiera del pane.

   Mi fermo accanto a quel mendicante di cui Luca ci ha riferito il nome, unico tra i personaggi usciti dalla fantasia narrativa di Gesù ad aver avuto questo privilegio e lo guardo “coperto di piaghe” com’è e “bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco”: vedo in lui gli innumerevoli mendicanti di Roma. Provo a dire con loro “dacci oggi il nostro pane”.

   Ancora più forte è la lezione che viene dalla parabola del giudizio: “Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare”. Nell’invocazione del pane è implicito l’impegno a condividerlo con chi non ne ha.

   Rimetti a noi i nostri debiti

   come noi li rimettiamo ai nostri debitori

   Crediamo di conoscere i debiti per i quali attendiamo il condono. Ma ci fermiamo mai a considerare qualcosa che noi, di nostra iniziativa, potremmo “rimettere”?

   La mortificazione continua del mestiere che fai, per esempio. E’ un capitolo lungo nella vita d’ognuno.

   “Papà sono contenta che domani torno a scuola! E tu sei contento di tornare al lavoro?” Quante volte ho sentito la voce chiara delle mie figlie intimarmi quell’esame di coscienza! Le tre femmine hanno sempre avuto più entusiasmo per la scuola rispetto ai due maschi. E si scopriva che io al lavoro ci tornavo “un poco contento e un poco no” e così anche la mamma. E la piccolina di turno che ci guardava meravigliata: “Io invece sono proprio contenta!”

   Il lavoro – per quanto uno lo ami – non è sempre una festa. Ti dice no un capo che ne sa meno di te. Non ti lasciano spiega­re. Giovani arrivisti ti trattano con durezza. Taglia­no la cosa più importante. Intitolano di traverso. Ma coraggio: vada a sconto dei peccati. E comunque si può sempre pregare.

   Un caso serio mi capitò un giorno che ero di passaggio a Parigi. C’era un’intervista a Ratzinger che non usciva da due mesi. Ma era successo un fatto nuo­vo, rispetto a quando avevo parlato con il cardinale: telefono in redazione e dico di togliere quella frase che non era più attuale. Il giorno dopo ritelefono, perché non si sa mai se ti hanno ascoltato. Mi dicono: l’intervista l’abbiamo messa oggi, ma la frase non è stata tolta: a chi l’avevi detto?

   C’ero stato in ansia due mesi per quell’in­tervista ed ecco il risultato. Così ha da essere questo mestiere, “come un cammello cieco che colpisce all’improvviso gli uomini” (Borges). Poi però mi sono calmato. Alla Gare du Nord ho visto drogati e arabi piegati nell’angoscia, o appostati per rubare. Ho pen­sato a chi è disperato davvero. Mi sono detto che al momento almeno tre fattori valevano più di qualsiasi malo articolo: quell’umanità vagante per la quale nulla potevo altro che piangere, che tornavo a casa, che potevo pregare. E la preghiera fu “rimetti a noi i nostri debiti”. I debiti miei di giornalista.

   Cam­mello cieco questo mestiere lo è con me e tanto più con le persone di cui io parlo e con gli stessi lettori. Un giornalista sa che non deve interrogarsi per co­noscere i peccati del suo lavoro. E quanti può danneggiare ogni giorno. Nel suo caso vale più che mai la regola che dice: anche se nulla ci rimprovera, il Si­gnore conosce le colpe nascoste.

   Si racconta che Giuseppe Dossetti, fattosi monaco e avendo preso grandi distanze dal mondo, così abbia risposto a Enzo Biagi che chiedeva di intervistarlo, presentandosi come “giornalista e peccatore”: “La sua seconda qualifica non è affatto grave!”

   C’è una parola di Gesù, nel Vangelo di Matteo, che bolla la nostra pecca radicale: “Io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio” (12, 36). Altro che garante del lettore!

   Ma non c’è solo il maltrattamento – per lo più involontario, e però mai innocente – di chi finisce sotto le nostre notizie, come se fossero veicoli lanciati a grande velocità e che mai si fermano per soccorrere quanti travolgono: omissione di soccorso. C’è anche il maltrattamento delle parole, dei sentimenti, persino la beffa sulle cose sacre.

   Chiasso ritornante dei giornali sul diavolo e mio gran dispiacere che que­sto argomento serio sia divenuto una burla. Forse gli uomini di Chiesa potrebbero essere più cauti nel nominare colui che Gesù ha qualificato come “menzognero e padre della menzogna” (Giovanni 8, 44). Già Paolo VI fu sbeffeggiato nel 1972 per alcune parole che disse su di lui. Persino il buon Gorresio pensò di fare un colpo con il volume Il Pa­pa e il diavolo (Rizzoli, Milano 1973). E più volte la stessa sorte è toccata a Giovanni Paolo II. Lui diceva con grande serietà “non ho nessun complesso a dire questo” e giù il mondo – cioè il mondo dei media – a ridergli dietro e davanti.

   Capitò durante la visita a Torino del 3 settembre 1988. A tavola con i vescovi del Piemonte, il Papa dà sfogo all’ansia d’apostolo che lo trascina: “Torino, in nome di San Giovanni Bosco, convertiti! Bisogna dirlo. E non ho nessun complesso per dire questo e anche altrove. La città di Torino era per me un enigma, ma dalla storia della salvezza sappiamo che dove ci sono i santi entra anche un altro che non si presenta con il suo nome, ma sotto altri nomi. Si chiama il principe di questo mondo, il Demonio”. Con i vescovi il discorso poteva andare, ma ingigantito dai media quell’accenno al Satana che gareggia con i santi sul cielo di Torino divenne un carnevale fuori stagione.

   Il diavolo sui media attira più del sesso. Incoscienza dei colleghi che si buttano ridanciani sull’argomento. Mia paura di questo gioco. La stessa di quando vidi dei ragazzi battere con le canne sui nidi delle vespe. Di più: come a vedere un ubriaco che gioca con i comandi di un Boeing in volo.

   Lo scatenamento delle potenze spiri­tuali negative gira intorno, cercando chi divorare. E noi giornalisti organizziamo burle. Questa leggerezza ci verrà perdonata?

   Quando si dice il problema del linguaggio: problema infinito. Diciamo “rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori” e pensiamo che tutti capiscano, e invece no! Facciamo in casa la lettura del Vangelo di Luca e uno dei figli domanda: papà, ma che sono questi debiti? Dico “i peccati”. “I peccati?” fa quello: “E pensare che io credevo fossero i prestiti che uno non riusciva a restituire!”

   Un debito grande dovrà esserci perdonato: l’uso del tempo che ci viene donato. Anche quando ero sa­no come un pesce, non avevo mai il tempo di guar­dare il giorno, di sentire il sole, di pensare al Signo­re. Questa giostra delle stagioni che non si ferma e tira dietro la mia disattenzione. E il tempo non l’ho ora e non l’avrò neanche domani. Avrò ancora più fretta, come i commessi che chiudono i negozi la se­ra. Non guarderò in faccia a nessuno, come non ve­dessi l’ora di andarmene. Mentre di nulla dovremmo avere cura, se non di appostare il Signore che viene.

   Ogni volta che penso agli errori altrui mi vengo­no in mente i miei e mi metto a dire « rimetti a noi i nostri debiti» e a promettere di perdonare quelli degli altri e la volontà di denuncia scompare tutta. Questa regola vale anche quando c’è di mezzo la co­munità ecclesiale. Meditarne gli errori provoca ansia e l’invocazione del Padre nostro riporta consolazione. A patto però che ci includiamo – con la sincerità del pubblicano che va al tempio, ma resta a distanza e non osa alzare gli occhi – nel gran numero dei debitori. Come ci ha insegnato Giovanni Paolo II con la “giornata del perdono”, celebrata il 12 marzo dell’anno 2000, non vi è altra possibilità veramente ec­clesiale di considerare le colpe collettive dei credenti che l’atto penitenziale. In esso non spetta a nessuno dei battezzati il ruolo dell’accusatore. Accusatore è il peccato.

   I colleghi mi accusano di “buonismo” perché difendo sempre chi è sotto accusa e tendo a dare interpretazioni benevole delle ragioni degli uni e degli altri. Giustifico sia chi vuole l’intercomunione subito, sia chi si batte per tenere in uso il messale di Pio V. Ma io persevero nella mia scelta di cercare il buono in ogni posizione cristiana e ogni volta che mi viene un pensiero tranciante, mi ricordo dei miei peccati e trovo poco probabile che possa essere il mio un di­scernimento adeguato, quale si richiederebbe per una tale sentenza. Penso infine che la grande si­curezza nelle cose spirituali derivi dalla superficiali­tà. E questo vale per chi critica sempre e per chi sem­pre loda.

   “Rimetti a noi, come noi li rimettiamo”: c’è in questa domanda una “reciproca dipendenza tra perdono divino e umano”, scrive Piero Stefani nel suo denso commento alla preghiera di Gesù (Il Padrenostro, Marietti, Genova 1991, p. 82). Matteo insiste su questa reciprocità nel versetto che segue il Padre nostro: “Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (6, 14 e 15).

   Già nell’ebraismo – segnala Stefani – “neppure il Signore può perdonare le colpe commesse dall’uomo contro l’uomo se questi ultimi non si riconciliano reciprocamente”. Gesù fa propria quella concezione e la ripropone con l’invito a lasciare la propria offerta sull’altare, per andarsi prima a riconciliare con il fratello (Matteo 5, 23-24). Quel precetto “indica, nel profondo, l’abdicazione da parte di Dio alla sua prerogativa di onnipotenza e il suo vincolarsi alla povera misura del perdono interumano”.

   In un’altra pagina del suo commento Piero Stefani – che è persona coscienziosa e coraggiosa insieme – riesprime in “modo ardito” la “fragilità” della “connessione” tra perdono di Dio e perdono reciproco, azzardando l’idea che in essa “si rivela il bisogno del Padre di essere perdonato da quei figli che ha generati e ha inviato nel mondo per vie troppo difficili, senza essere riuscito a salvaguardarli appieno dal peccato, dalla tentazione e dalle sventure” (ivi, p. 84). Sono parole che non intendo appieno, come capita a volte con quelle dei poeti. E mi azzardo a mia volta a immaginare che Piero Stefani le abbia cavate dal suo cuore di padre, guardando ai bellissimi figli che ha generato e ai quali ha dato nomi presi dalla Scrittura: Maddalena, Giacomo, Giuseppe, Daniele, Anna.

   Altra parola di Gesù che mi sono abituato a richiamare per prolungare la risonanza dell’invocazione del perdono, è questa: “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro. Non giudicate e non sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato” (Luca 6, 36-37).

   Nelle parole “siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro” vedo uno specchio dell’invocazione “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo”. Il Padre vuole che il suo rapporto con noi diventi norma dei rapporti tra noi figli. Si apre un campo infinito di successive approssimazioni alla sua infinita misericordia. Ma echeggia anche – di fronte alle nostre coscienze – un monito severissimo: che il rifiuto di perdonare non ci potrà essere perdonato. Lo afferma il Catechismo della Chiesa cattolica al paragrafo 2840: “Nel rifiuto di perdonare ai nostri fratelli e alle nostre sorelle, il nostro cuore si chiude e la sua durezza lo rende impermeabile all’amore misericordioso del Padre”.

   E’ per me terribile udire qualcuno che giura di non perdonare e che non perdonerà mai e tanto più mi vergogno dei colleghi giornalisti che pongono al padre di un bambino ucciso la domanda impossibile “lei perdona?” Non finisco di chiedere scusa a tutti, a nome della categoria, dicendo che i giornalisti sono i portatori sani dell’ignoranza collettiva. E lo dico nel senso che magari lui, il giornalista, nel suo piccolo qualcosa sa, ma quando ha in mano un microfono la cancella e non fa nessuna fatica a presentarsi come il più ignorante al mondo

   Ho trovato in J.R.R.Tolkien – in una lettera dell’autore del Signore degli anelli a C.S. Lewis, l’amico scrittore, da cui attendeva il perdono di un torto – una splendida riflessione sulla grandezza del perdono e sul terribile del non perdono: “Dio ti benedica per la tua bontà. E (…) sii così generoso da regalarmi i dolori che ti ho causato, cosicché io possa condividere tutto ciò che di positivo ne verrà fuori. Non so se riesco a spiegarmi. Ma io credo che sia nel nostro potere, come cristiani, di fare effettivamente questi doni. L’esempio più semplice: se un uomo mi ha rubato qualcosa, io davanti a Dio affermo che gliel’ho regalato (…) Sarebbe splendido, chiamati a giudizio, per rispondere a innumerevoli accuse di aver fatto del male al proprio fratello, scoprire inaspettatamente che molte male azioni non sono state compiute! E che invece si ha avuto una parte nel bene scaturito dal male. E non meno splendido sarebbe per chi ha dato. Un’eterna interazione di sollievo e gratitudine (…) Che cosa accade quando il colpevole è genuinamente pentito, ma chi ha sofferto a causa sua è così profondamente risentito da non concedere il perdono? E’ un pensiero tanto terribile, da dissuadere chiunque dal correre il rischio di causare inutilmente il male” (J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere, Bompiani 2001, lettera 113).

   La sosta su questa invocazione può comportare una ricerca – magari rapida, ma anche prolungata – del volto di qualche nostro debitore. Di quelli di sempre, o di uno nuovo, di giornata.

   Il nostro sistema psicologico di difesa tende a cancellare quei volti, o a richiamarli unicamente per porli a bersaglio dei nostri scatti di aggressività. Esercitarsi a pensarli con pacatezza, evocando – poniamo – qualche loro traversia, o momento di bisogno, per implorare un soccorso a loro nome, potrebbe essere una buona scuola di avviamento al perdono.

   Ciò facendo non dovremmo temere di distrarci dalla preghiera, perché “la preghiera cristiana arriva fino al perdono dei nemici”, anzi “il perdono è un culmine della preghiera cristiana” e “il dono della preghiera non può essere ricevuto che in un cuore in sintonia con la compassione divina” (Catechismo della Chiesa cattolica 2844).

   Non ci indurre in tentazione

   Non ci indurre in tentazione lo dobbiamo intendere come “non ci abbandonare nella prova”. E non in una prova qualsiasi, ma in quella decisiva della fede.

   Tra le sette domande è forse la più complessa a interpretare e tradurre, tanto da indurre i biblisti a proporre – a più riprese – delle varianti, che però non sono state mai accettate dai nostri vescovi nella versione ufficiale. La traduzione interconfessionale in lingua corrente dice: “Fa’ che non cadiamo nella tentazione”. I biblisti che hanno curato per la Cei l’aggiornamento della traduzione ufficiale italiana della Bibbia (che mentre scrivo non è ancora pubblicata) avevano proposto: “Non abbandonarci alla tentazione”. Ma ancora una volta – come già nel 1972, al momento della prima edizione della Bibbia della Cei – si è deciso di mantenere inviato il testo dell’intero Padre nostro.

   Ecco come avrebbe potuto suonare una nuova traduzione della preghiera di Gesù, dal Vangelo di Matteo, secondo una bozza dei biblisti della Cei messa a punto nel 1996:

   Padre nostro che sei nei cieli,

   sia glorificato il tuo santo nome,

   venga il tuo regno,

   sia fatta la tua volontà

   come in cielo così in terra.

   Dacci oggi il nostro pane quotidiano,

   rimetti a noi i nostri debiti

   come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori

   e non abbandonarci alla tentazione,

   ma liberaci dal Male.

   Quando mi fermo sull’invocazione contro la tentazione, cerco di mettermi nell’atteggiamento di Gesù che prega nell’Orto degli ulivi e che dice ai discepoli: “Vegliate e pregate per non entrare in tentazione: lo spirito è pronto, ma la carne è debole” (Marco 14, 38).

   Queste parole nell’interpretazione abituale sono state banalizzate, come se Gesù avesse inteso, in quell’ora suprema, mettere in guardia i discepoli dalle tentazioni della carne. Egli invece voleva fortificarli contro la tentazione delle tentazioni, che è quella della fede, che si fa massima di fronte alla prova della morte.

   Decisivo – per capire quelle parole importanti, preziose come poche – è il contesto in cui sono pronunciate. Un contesto davvero illuminante per chi cerca luce sul Padre nostro. Poco prima – sempre in Marco – Gesù ha detto ai discepoli: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate” (14, 34).

   Dunque è la prova della morte, che Gesù sta affrontando e rispetto alla quale chiede ai discepoli di vegliare e pregare con lui. E quando dirà che veglia e preghiera sono essenziali “per non entrare in tentazione”, intenderà: nella tentazione di abbandonare la fede di fronte alla prova della morte. Perché è soprattutto di fronte a quella prova che “lo spirito è pronto” – cioè la nostra anima presume di saper affrontare la prova – ma “la carne è debole”, ovvero il nostro essere mortale cade nell’angoscia.

   Ma quel contesto è ancora più ricco di segnali, per il cultore del Padre nostro, in particolare nella frase con cui Gesù invoca la liberazione dalla prova della morte: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (ivi 14, 36).

   Non una tentazione qualsiasi, dunque, ma la prova decisiva dell’obbedienza e della fede, nell’ora suprema. Chi non la conosce? Quando muore un genitore, un figlio, la sposa o lo sposo. Quando scopriamo, in noi o in un nostro prossimo, una malattia mortale. Quando invochiamo “Abbà, Padre” e abbiamo l’impressione di non essere ascoltati. Allora è la prova. E’ allora che siamo tentati di abbandonare la fede. E’ per quel momento l’invocazione “non ci indurre in tentazione”, cioè “non ci abbandonare nella prova”.

   C’è un’altra parola di Gesù – riportata da Giovanni – che può aiutarci a intendere ancora più profondamente quell’invocazione contro la prova delle prove: “Ora l’anima mia è turbata: e che devo dire? Padre salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre glorifica il tuo nome” (Giovanni 12, 27-28). E’ lo stesso “turbamento” che al capitolo precedente di Giovanni Gesù aveva provato per la morte di Lazzaro e davanti al pianto di Maria e degli amici per quella morte: “Quando la vide piangere e piangere anche i giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse: dove l’avete posto?” (Giovanni 11, 33-34).

   Gesù conosce il turbamento che in noi produce la morte e il suo spettacolo. Sa che di fronte a esso l’anima nostra e la nostra carne entrano in agonia. Ci ha dunque provveduti di più invocazioni per fare fronte a questa prova.

   Ma in verità il suo aiuto è stato ancora maggiore: ha voluto che noi conoscessimo, attraverso i Vangeli, l’intera avventura della tentazione messianica alla quale egli stesso si trovò a confrontarsi. Il Satana lo tenta a imboccare la via della potenza (“di’ a questa pietra che diventi pane”, Luca 4, 3), del dominio (“ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni”, ivi 4, 6) e della manifestazione spettacolare (“se tu sei il figlio di Dio buttati giù”, ivi 4, 9). Egli respinge ogni assalto e il Satana si allontana da lui “per ritornare al tempo fissato”, che sarà quello della passione, quando “Satana entra in Giuda” (Luca 22, 3) e attraverso il tradimento del discepolo porta Gesù all’ora drammatica dell’Orto degli ulivi e a quella della condanna a morte. In quell’ora egli sconfigge definitivamente il tentatore, accettando la morte come ultimo atto del suo annuncio di un Regno che mira alla conversione dei cuori e che non si impone attraverso le vie della potenza, del dominio e della manifestazione spettacolare.

   Gesù dunque ha conosciuto la tentazione e con la sesta domanda della preghiera che ci ha insegnato ci provoca a ribellarci all’incantamento del tentatore e a invocare la grazia di unirci al suo combattimento vittorioso con il Satana. 

   Se l’intendiamo così – la tentazione di cui parla il Padre nostro – ci sarà anche chiaro che non potremo vederla come proveniente dal Padre: non è certo lui che ci tenta! “Nessuno, quando è tentato, dica: ‘Sono tentato da Dio’; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male” (Giacomo 1, 13)

   Dio non tenta, ma forse permette a Satana di tentarci, come capitò a Giobbe. L’invocazione del Padre nostro si muoverà allora contro quella permissione: “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1 Corinti 10, 13). Dicendogli “non ci indurre in tentazione” gli chiediamo, come figli al padre: combatti tu, per me e con me.

   Ma liberaci dal male

   I commentatori del Padre nostro amano osservare che la prima parola di questa preghiera è “Padre” e l’ultima “Maligno”: questo rimando secco sta a dire che la preghiera insegnata da Gesù è un testo asciutto, essenziale, senza preamboli e code; ma segnala anche la drammaticità della nostra condizione, di noi che invochiamo il Padre mentre siamo assediati dal Maligno.

   Abbiamo visto che tra le proposte di nuova traduzione del Padre nostro, vi è quella di sostituire “male” con “Maligno”, o quella di scrivere “Male” con la maiuscola, in modo che possa essere interpretato sia come “male”, sia come “Maligno”.

   Non sono scherzi da preti, ma questioni serie, come sempre quando c’è di mezzo il Satana. Secondo l’insegnamento biblico, non c’è soltanto il male fisico e quello morale (il peccato), ma c’è anche il “signore del male”, che è detto “principe delle tenebre”, e “avversario”, che ha introdotto nel mondo la morte e ci tormenta con ogni sorta di mali e che “tenta” ogni via – prima fra tutte la morte – per indurci alla ribellione verso Dio.

   Quando il Signore disse al Satana che metteva in “suo potere” quanto apparteneva a Giobbe, il Satana subito portò morte nella casa di Giobbe e presto arrivò il messaggero a dirgli: “I tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo in casa del loro fratello maggiore, quand’ecco un vento impetuoso si è scatenato da oltre il deserto, ha investito i quattro lati della casa, che è rovinata sui giovani e sono morti” (Giobbe 1 19). Nonostante quella terribile prova, Giobbe “non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto” (ivi 1, 22).

   Alle volte i miei figli e le mie figlie si riuniscono nella casa del maggiore tra loro per una cena e io – leggendo il libro di Giobbe – non posso non chiedermi la mia reazione se la casa rovinasse sui “giovani”. E’ la tentazione a ribellarci a Dio, ad attribuirgli ingiustizie, o a ritenere che non esista, se ci capitano tali infamie nella vita.

   L’insegnamento biblico è chiarissimo: “Dio non ha creato la morte, egli infatti ha creato tutto per l’esistenza, ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo” (Sapienza 1, 13 e 14; 2, 21). E Paolo: “A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte” (Romani 5, 12).

   Dunque il peccato e la morte sono legati, non sono voluti da Dio, ma sono frutto del Satana. Costituiscono insieme il Male. Dicendo “liberaci dal Male”, diciamo insieme “liberaci dal peccato, dalla morte e dal nemico che ci provoca al peccato e che ci ha procurato la morte”.

   Quando invochiamo la liberazione dal Male – e specie se sostiamo a lungo, come sarebbe necessario, in tale invocazione – noi siamo sfiorati dall’angoscia, perché l’Avversario può colpirci a tradimento, può privarci delle persone più care, può intorbidare i nostri sentimenti. Rischiamo di essere presi dal panico e sperimentiamo la tentazione di avvertire come troppo lontano il Padre a cui ci stiamo rivolgendo. E’ stato così lungo il viaggio tra l’appellativo iniziale della nostra preghiera e quest’ultima parola che la chiude!

   Ci chiediamo – in definitiva – se il Padre avvertirà il nostro desiderio di protezione. Ma se quel cammino l’abbiamo percorso a cuore aperto, dovremmo avvertire il battito di simpatia del cuore del Padre. Di questa sua capacità di partecipare alla nostra ansia, ci assicura Origene: “Il Padre stesso, Dio dell’universo, lui che è pieno di longanimità, di misericordia e di compassione, non soffre forse in qualche modo? O forse tu ignori che, quando si occupa delle cose umane, egli soffre una passione umana? Infatti ‘il Signore tuo Dio ha preso su di sé i tuoi modi di vivere, come colui che prende su di sé il suo figlio’ (Deuteronomio 1,31, in una interpretazione della versione greca dei Settanta). Dio prende dunque su di sé i nostri modi di vivere come il Figlio di Dio prende le nostre passioni. Il Padre stesso non è impassibile! Se lo si invoca, egli ha misericordia e compassione, egli soffre una passione d’amore, si immerge in sentimenti che non può avere secondo la grandezza della sua natura e prova a causa di noi passioni umane” (Omelia su Ezechiele 6,6).

   Quando dispongo ancora di tempo, al termine della mia dimora nella preghiera del Signore, la concludo con l’invocazione (detta embolismo: cioè preghiera intercalata) da cui essa è seguita nella Liturgia romana e che metto qui, a riepilogo dell’intero cammino: “Liberaci, o Signore, da tutti i mali, concedi la pace ai nostri giorni e con l’aiuto della tua misericordia vivremo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento, nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo”. La “beata speranza” suona come voce del mattino di Pasqua nell’anima mia.

    Per un uso sperimentale

   della preghiera di Gesù

   Mi sveglio alle quattro del mattino, sento che l’incessante clamore di Roma al momento tace e provo a tacere anch’io. Ordino alla mia anima di stare ferma.

   Richiamo il volto della sposa, che mi dorme accanto. Poi i figli, nell’ordine in cui li ho avuti. Mi fermo più a lungo su quella che oggi compie 17 anni.

   Vado a prendere la mia mamma, che è morta da poco e ogni altro che non c’è più. E gli angeli e i santi. Fino a Giuseppe e Maria.

   Poi chiamo Gesù. Mi avvedo che sto piangendo dentro per la mia mamma ed ecco che Gesù viene a me dicendo “non piangere”. Cioè nell’attitudine con cui si rivolse una sera alla vedova di Naim, che portava a seppellire l’unico figlio.

   Tengo con me Gesù il più a lungo che riesco. Lo tengo anzi con “noi”, cioè con tutto quel gruppo che ho riunito, dalla sposa alla mamma, fino a Maria. Gli presento i malati del gruppo.

   Gli chiedo di rinnovare a me e a tutti il dono dello Spirito “che vi suggerirà quello che dovrete dire” (Matteo 10, 19). Quasi in risposta a quell’invocazione, tutti ci prendiamo per mano, come si fa in chiesa e anche Gesù fa parte della catena, che arriva a tutta l’umanità e insieme diciamo “Padre nostro”.

   Arrivati alle parole “venga il tuo regno” – che sono quelle che più amo – mi fermo e mi riaddormento.

   Mi sono convinto, con gli anni, che non è bene pregare da soli. E ho capito, un poco per volta, che tutti possiamo organizzare un gruppo di preghiera! Con i santi e i morti, con gli angeli, con gli amici che altre volte hanno pregato con noi, con i familiari, con uno che sia accanto a noi nel momento in cui la preghiera ci urge. Ma anche con chi non prega mai e non ci conosce e forse ci manderebbe a quel paese se venisse a sapere che osiamo associarlo alla nostra preghiera.

   Che io inserisca nel gruppo la sposa e i figli dovrebbe risultare naturale. Invece di pregare per loro, pregherò con loro e a nome loro, in una specie di prolungamento della preghiera che siamo abituati a fare insieme.

   Invece di dire un Padre nostro e un’Ave Maria per ognuno dei figli (sono cinque e ne viene una specie di rosario), trovo più rispondente alla realtà che io li preghi – quel Padre e quell’Ave – a nome loro. Già le parole “Padre nostro” – cioè di noi tutti – ci collocano nella giusta posizione. Ma anche quelle della seconda parte dell’Ave Maria diventano meglio rispondenti: “Prega per noi peccatori”.

   La mia sposa e i miei figli pregano abitualmente con me e dunque quel “prolungamento” dell’invocazione che io realizzo da solo non ha bisogno di giustificazione. Forse i figli, in maggioranza, non pregano quando sono soli. Ma pregano quando sono con noi genitori, se li invitiamo a farlo. Il “noi” con cui li coinvolgo nella mia preghiera notturna ha un riscontro nella realtà.

   Ma io credo che sarei autorizzato all’uso di quel “noi” anche se i miei figli tenessero la bocca chiusa durante la preghiera familiare. “Noi preghiamo, a tavola, ma le nostre figlie, che hanno 25 e 29 anni, restano mute”, mi dice una mamma sconsolata. Le dico che lei può prendere su di sé la preghiera delle figlie.

   Che succede quando la preghiera divide la coppia? Anche lì il “noi” è pienamente autorizzato: “Un marito non credente viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente” (1 Corinti 7, 14).

   La possibilità di unire alla nostra preghiera i non preganti è affermata dai santi e dai teologi della nostra epoca, la più tentata – forse – dalla non preghiera. La preghiera a nome di chi non prega, variante contemporanea della tradizionale “preghiera per i peccatori”, ha tra i suoi maestri Teresa di Lisieux (che va a sedere alla “tavola dei poveri peccatori” e da lì chiede “a nome dei suoi fratelli: abbi pietà di noi”) ed Edith Stein (“La nostra vocazione è di stare davanti a Dio per tutti”), Karl Barth (invitava i cristiani della Germania Orientale a “credere” anche “per” e “in luogo” dei loro fratelli comunisti) e Hans Urs von Balthasar (“chiamati a essere la liturgia di tutti coloro che sono muti per Dio”).

   Ma forse più chiara di tutti è Madre Teresa di Calcutta, che ha scritto queste grandi parole nelle “costituzioni” della Missionarie della carità (1965): “Gesù è la nostra preghiera. Ha scelto di essere lui in noi il canto vivente di amore, lode, adorazione, ringraziamento, intercessione e riparazione al Padre nel nome della creazione intera, specialmente i più poveri tra i poveri e coloro che non pregano, che non sanno pregare, che non hanno il coraggio di pregare e che non vogliono pregare”.

  Quelle parole di Madre Teresa le metto tra le più importanti dell’epoca. E penso che un cristiano comune le possa ridire in maniera più semplice: chi prega, parla a nome di tutti. Ogni preghiera è la preghiera del genere umano. Chi cade a terra gridando “Dio mio” grida in nome dell’intera umanità. Anzi dell’intera creazione, comprese le generazioni passate e future, i santi e gli angeli.

   Al Padre nostro

   ci arrivo per ultimo

   Associare i morti alla preghiera, mi appare come il gesto più spontaneo. Possono essere di grande aiuto – nella formazione del gruppo – quegli amici che se ne sono andati e con i quali abbiamo avuto una particolare esperienza di preghiera. A me succede con diversi, in particolare con il padre Riccardo Palazzi e con don Domenico Farias. Tante volte l’uno (un carmelitano della mia parrocchia romana, San Martino ai Monti) e l’altro (prete di Reggio Calabria e assistente della FUCI) mi avevano invitato a pregare, o avevano pregato con me e con i miei, essendo ospiti a casa mia. Ambedue hanno celebrato il battesimo di qualcuno dei miei figli. Non mi occorrono parole per chiamarli a far parte del gruppo. Più di una volta, anzi, mi avvedo che sono loro a inserirsi e a prendere l’iniziativa.

   Naturale mi viene il passaggio dai morti ai santi: prendo per mano quanti mi sono stati di maggiore aiuto a credere, tra coloro che non sono più sulla terra e dall’uno all’altro arrivò fino agli apostoli e a Maria. Da don Paolino Serra Zanetti (prete di Bologna che se ne è andato nella primavera del 2004) a Paolino da Nola, per farla breve. Da Annalena Tonelli a Maria di Magdala. Dai santi che ho conosciuto a quelli che conobbero Gesù. Agli apostoli e tra essi agli evangelisti, che ci sono divenuti familiari con la lettura dei Vangeli. E a Giuseppe e a Maria.

   E’ per questa via che arrivo a Maria e il saluto dell’angelo lo uso come preparazione al Padre nostro, rovesciando l’ordine che viene proposto nel rosario. Quando dico “il Signore è con te”, aggiungo “e con il tuo sposo Giuseppe”.

   L’Ave Maria chiama nel cerchio gli angeli: “L’angelo di Dio portò l’annuncio a Maria”. Non c’è più soltanto l’angelo custode nella mia preghiera, ma ci sono tanti angeli quante sono le persone ricordate e tanti altri, innumerevoli, ai quali ricorro come a messaggeri e aiutanti nelle imprese della giornata. Mando gli angeli a chi ha bisogno di me e molte faccende aperte che ho con i figli le affido a loro. Ma innanzitutto li considero pienamente partecipi della mia preghiera.

   Ho imparato questa consuetudine con gli angeli da Edith Stein, che scrive in una lettera a un’ex-alunna malata, che non può visitare, trovandosi nel Carmelo: “Devo limitarmi a pensarti con affetto e a mandarti i buoni angeli affinché ti portino tanta di questa pace di cui io godo in monastero” (lettera del luglio 1933).

   Più amico d’ogni altro mi è l’angelo che conforta Gesù nell’orto del Getsemani. Quell’angelo mi rende carissimo tra tutti l’evangelista Luca, che è l’unico a raccontarci che “gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo” (22, 43). Il conforto che non sapemmo dare noi! Considero l’assenza dell’angelo consolatore nel film Passion di Mel Gibson come un torto fatto agli angeli.

   Qualche amico si meraviglia di questa mia insistenza con gli angeli, come se avessi la pretesa di trattarli da amici. Ma respingo l’obiezione, avendo letto che Ambrogio riteneva l’amicizia “comune agli angeli e agli uomini”.

   Con Giuseppe e Maria, l’arcangelo Gabriele e l’angelo consolatore, arriviamo a Gesù. Arrivati a Gesù, abbiamo raggiunto la meta. All’orante non resta – per dirla con Teresa d’Avila – che “innamorarsi molto della sua umanità e tenerlo sempre con sé e parlare con lui”. Scatta cioè un vero innamoramento: noi di lui e lui di noi. Tanto che Teresa, con femminile intuito, conclude: “Se vi abituerete a tenervelo accanto, non potrete – come suol dirsi – togliervelo d’attorno: lo avrete con voi ovunque” (Cammino di perfezione, cap. 26).

   Lo stesso convincimento trovo in Teresa di Lisieux: “Io chiedo a Gesù di attirarmi nelle fiamme del suo amore, di unirmi così strettamente a lui, che egli viva e agisca in me” (Manoscritto C, giugno 1897).

   Ed ecco che quell’idea torna in Edith Stein, che riassume così la “piccola semplice verità” della vocazione cristiana: “Come imparare a vivere con la mano nella mano del Signore” (lettera del 28 aprile 1931).

   Ma un giornalista del Corriere della Sera può mettersi per la via che fu percorsa dalle grandi sante del Carmelo? Credo che debba e che non ve ne sia un’altra.

   Il nostro innamoramento per l’umanità di Cristo lo coltiveremo scegliendo una sua parola, per meglio raffigurarcelo: “Tuo fratello risusciterà”, quando piangiamo come Maria di Betania per una morte. “Dammi da bere”, se vogliamo metterci nei panni della samaritana che l’incontra al pozzo di Giacobbe. Quella parola – basta una per volta – ci aiuterà a tenerlo con noi.

   Gli chiederemo infine il soccorso dello Spirito, perché è lui che grida in noi “Abbà, Padre!” e senza di lui “nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare” (Romani 8, 15 e 26). Così arriviamo al Padre nostro.

   Credo che due siano le novità nella mia preghiera, dopo esperimenti di tanti anni, rispetto al modo in cui già mio padre e mia madre mi avevano insegnato a pregare. La prima – l’ho già detta – è che al Padre nostro ci arrivo per ultimo. Tutte le altre preghiere, compreso l’Angelo di Dio e l’Eterno riposo, vengono prima e hanno una funzione preparatoria. Un po’ come nella messa, dove al Padre nostro si arriva alla fine del Canone, dopo che sono stati evocati gli angeli e i santi, ricordati i morti e l’umanità dispersa su tutta la terra.

   L’altra novità è l’invocazione dello Spirito Santo, che pure precede il Padre nostro. Perché è lui che “riempie della sua grazia i cuori” e “suscita in noi le parole”, come dice stupendamente il Veni Creator Spiritus.

   Riscoprire il desiderio

   come categoria cristiana

   Fin qui ho provato a raccontare come arrivo, pregando, al Padre nostro. Dico ora qualcosa di come mi ingegno a fermarmi in esso. Come cerco cioè di ottenere che il viaggio della mente verso Dio, guidato dalle sette invocazioni insegnate da Gesù, duri il più a lungo possibile.

   E’ un viaggio che deve durare, perché in esso cresca il nostro desiderio di farci figli fino alla misura del dono che ci è stato promesso. La “preghiera del Signore” è per me il luogo ideale dove scatenare quel desiderio.

   Mi fermo a lungo sulle parole “Padre nostro” e qualche volta non vado oltre, perché consumo in esse – nel ripeterle e nel prolungarle – l’intera invocazione. Esse la reggono benissimo.

   Quelle due parole mi danno l’ebbrezza di rivolgermi a Dio chiamandolo “papà” e di poterlo fare a nome dell’intera umanità. Sono forse le parole che oggi mi dicono di più, tra quante ne ho mai udite e ricordate.

   Sia santificato il tuo nome: qui mi slancio a desiderare che il Padre manifesti se stesso e l’umanità accolga la sua manifestazione. Con queste parole gli parlo della difficoltà a credere che hanno i miei figli e che non posso non sentire mia, nel profondo.

   Venga il tuo Regno: è il desiderio dei desideri! Esprime la stessa attesa del “maranà thà” apocalittico: “Vieni, Signore Gesù” (Apocalisse 22, 20). Con la sosta su questa domanda ravvivo l’aspettativa che la venuta del Regno ci libererà dalla morte e riscatterà ogni vita umiliata, ogni esistenza negata.

   Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: che la terra divenga cielo, in qualche modo e per sempre. E su di essa già operi la volontà del Padre che vuole salvi tutti i figli. Questa domanda segnala più d’ogni altra il carattere di rispondenza – si direbbe – amorosa che hanno le invocazioni che ci ha dettato Gesù: noi chiediamo ciò che il Padre intende donarci. Dimorare nella richiesta significa prepararci, con il desiderio, a modificare quanto in noi si oppone alla ricezione di quel dono.

   Dacci oggi il nostro pane quotidiano: riuscire a dirlo a nome di tutti, sentendo – almeno un poco – la fame di tutti. Un padre e una madre dovrebbero sapere qualcosa anche della fame dei figli che non hanno generato. La durata di questa invocazione può richiamarci alla necessità di contribuire, per quanto ci è dato, a vincere la fame di ogni creatura umana.

   Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori: è l’attesa della misericordia divina – di cui siamo in ricerca anche quando non lo sappiamo – e il desiderio di impararne l’arte. Qui mi fermo per crescere, almeno un poco, in somiglianza di atteggiamento con il pubblicano che sale al tempio, ma si ferma a distanza e neanche alza lo sguardo (Luca 18, 10s). Somigliare a quel poveretto – che “tornò a casa giustificato” – è l’aspirazione di ogni cristiano.

   Non ci indurre in tentazione: sapersi fragili e affidarsi alla protezione del Padre, come bambini nella prova, specie quella della fede. La tentazione delle tentazioni è infatti quella di non credere. Chi ne conosce la pena, arde di desiderio ripetendo tra sé queste parole.

   Liberaci dal Male: dalle malattie e da ogni dolore, dalla morte e dalla sua paura, dal Satana che gira intorno. Sono grato agli esegeti che mi hanno segnalato come sia giusto mettere la maiuscola alla parola “Male”, per aver presente che chiediamo la liberazione dal male e dal suo regista. In quest’ultima invocazione mi stringo a tutti i sofferenti, gli appenati, gli scontenti. Di nuovo faccio mio il desiderio di tutti.

   Qualcuno – tra i lettori – potrebbe meravigliarsi dell’uso che vado facendo del termine “desiderio”: forse la parola simbolo della gioia di vivere, in questa nostra epoca. Una risorsa che istintivamente viene avvertita come lontana e allontanante rispetto alla vita cristiana e che io invece qui metto al suo centro, azzardandomi ad affermare che il desiderio ispira la preghiera e che la preghiera dà voce al desiderio!

   Ma attenzione: non sono io che vaneggio. In quest’uso forte della parola desiderio – che ultimamente ci siamo lasciati scippare dai post-cristiani – sono con la grande tradizione, che a questo proposito ha i suoi campioni in Tommaso d’Aquino e in Teresa di Lisieux. Ma anche in Agostino, Teresa d’Avila, Francesco di Sales e Francesca Saverio Cabrini ho trovato qualcosa della loro passione.

   Alla scuola

   di Tommaso e Teresa

   Quando parlo di una possibilità di coincidenza tra desiderio e preghiera, volendo segnalare un elemento di felicità della vocazione cristiana, non faccio altro che tentare di rendere in italiano il pensiero di Tommaso d’Aquino (Summa theologiae II-II, 83, 6-9) sul Padre nostro.

   Primo insegnamento del grande teologo: siamo invitati a chiedere, pregando, ciò che l’insegnamento di Cristo ci chiama a desiderare (illud debemus orando petere quod debemus desiderare).

   Secondo: la preghiera si fa in qualche modo interprete, presso Dio, del nostro desiderio (oratio est quodammodo desiderii nostri interpres apud Deum).

   Terzo: il Padre nostro – preghiera “perfettissima” – ci dice a un tempo ciò che dovremmo desiderare, la priorità con cui cercarlo e le parole per chiederlo. Esso tende a modellare i nostri sentimenti e ci guida a far coincidere il desiderio e l’invocazione.

   Questa terza affermazione di Tommaso è così viva che merita di essere ascoltata parola per parola: “Nella preghiera del Signore non solo vengono domandate tutte le cose che possiamo rettamente desiderare, ma anche nell’ordine in cui devono essere desiderate: cosicché questa preghiera non solo insegna a chiedere, ma plasma anche tutti i nostri affetti” (In oratione dominica non solum petuntur omnia quae recte desiderare possumus, sed etiam eo ordine quo desideranda sunt: ut sic haec oratio non solum instruat postulare, sed etiam sit informativa totius nostri affectus).

   Trovo istruttiva l’intuizione di Tommaso sull’importanza dell’ordine in cui sono formulate le “sette domande” del Padre nostro, che egli legge come gerarchia dei desideri da coltivare.

   Dunque le prime tre domande riguardanti Dio (il nome, il regno, la volontà) sono più importanti delle altre quattro che mirano alla nostra sorte. Purché quelle domande “divine” le intendiamo nella pienezza del loro significato e non le interpretiamo al ribasso, come invocazioni contro la bestemmia, o per l’osservanza di leggi e precetti.

   L’audacia di invocare – per suggerimento di Gesù – qualcosa che riguarda Dio stesso è davvero straordinaria. Dovremmo comprendere che non può capitarci nulla di più importante nella giornata.

   Che il Padre si manifesti e sia accolto, che regni, che attiri la nostra alla sua volontà: davvero – in questa prima parte del Padre nostro – dovremmo avvertire un senso di vertigine. Altrettanta emozione dovrebbe venirci dalla percezione che quelle domande corrispondono al desiderio del Padre e nostro, se riusciamo a lasciarci spostare dalla nostra alla sua aspirazione.

   Ognuno è trascinato dal suo desiderio e la legge del desiderio è che cresce desiderando. Sarà dunque opportuno abitare a lungo nella preghiera di Gesù – come già dicevo – per esercitarci a desiderare secondo i suoi sentimenti. Per imparare ad ampliare e alzare il desiderio. A osare nel desiderare. Perché egli tutto osava quando parlava con il Padre.

   Una lunga dimora nel Padre nostro potrebbe rivelarsi come la via privilegiata per apprendere ad avere in noi i “desideri dello Spirito”, con i quali muovere a pietà il Padre, implorandolo con “gemiti inesprimibili” (Romani 8, 26-27).

   Comunicandoci per contagio i sentimenti di Gesù, il Padre nostro ci invita a pensare l’impensato e a cercare l’introvabile: il Regno che viene, il pane per tutti, la liberazione dal male e dal maligno. Chi lo recita ogni giorno come fosse la prima e l’ultima volta viene avviato a un’esperienza simile a quella dei mistici, che si inabissano in Dio. “La cosa che mai non si trova, quella io desidero” (Poesie mistiche, BUR 1980, p. 85) canta il poeta sufi Gialal ad-Din Rumi e altrettanto può dire ogni recitatore del Padre nostro.

   Dicevo che a mia conoscenza, dopo Tommaso, è Teresa di Lisieux il migliore cantore dei desideri che portano a Dio. Qua e là nei manoscritti autobiografici narra dei suoi desideri che “lui solo può riempire” e ci avverte che sono “grandissimi”, “più grandi dell’universo”, “immensi” e che “toccano l’infinito”. Arriva persino a parlare – in riferimento ai ruoli ecclesiali – del suo “desiderio di essere tutto” e persino di quello di “essere prete” (Manoscritto B, 8 settembre 1896). Vi rinuncia per umiltà, a imitazione di Francesco d’Assisi e non perché donna: segnalo questo spunto a chi studia la questione del sacerdozio femminile, che non sarà chiusa finchè tra noi ci saranno sante che lo “desiderano”.

   Teresa forse non ha letto Tommaso, ma conosce benissimo la sinergia tra desiderio e preghiera: “Più tu vuoi donare, più fai desiderare. Io sento nel mio cuore desideri immensi” (Atto di offerta all’Amore misericordioso, 9 giungo 1895).

   Seguendo Tommaso e Teresa e altri che non conosco, immagino che si potrebbe arrivare a parlare del desiderio come preghiera, oltre che come materia o vettore della preghiera. Né varrebbe l’obiezione della vanità del desiderio rispetto al fatto, perché – dice Tommaso – Dio lo ritiene come fatto compiuto: Voluntas apud Deum reputatur pro facto (ivi III, 68, ad tertium).

   Fargli compagnia sul monte

   L’ultimo prolungamento della vacanza da tutto che passo nel Padre nostro è senza parole. Perché anche nella preghiera si arriva infine al silenzio, come nell’amore.

   Viene il momento in cui gli amanti non hanno più bisogno di parole, per dirsi il desiderio che li attira. Ciò avviene certamente nell’abbraccio, ma anche in ore di sguardo comune sulla vita. Lo sguardo e l’abbraccio silenziosi possono esserci donati anche nella preghiera al Padre, formulata già con le parole e infine con i soli sentimenti di Gesù, cioè restando in sua compagnia.

   Straordinariamente varie e numerose possono essere le modalità di questo prolungamento contemplativo del Padre nostro, partenti tutte da immagini evangeliche.

   Tenerlo in braccio bambino. Fargli compagnia sul monte dove passa la notte. Svegliarlo, o vegliarlo, quando dorme sulla barca sbattuta dalle onde. Starlo a vedere trasfigurato. Guardare con lui i bambini ed esultare con lui nella lode al Padre. Mirare con lui la città dal Monte degli ulivi e piangere insieme a lui su di essa e davanti alla tomba di Lazzaro, come davanti a ogni tomba. Vegliare con lui nel Getsemani. Stupirsi di rivederlo – con gli occhi di Maria di Magdala – nell’Orto della risurrezione.

   Tenerlo in braccio bambino: è un consiglio che mi sono trovato a dare alle mamme e alle donne tribolate. Una donna sa farlo anche se non ha avuto figli. E anche un papà oggi tiene in braccio i figli.

   Ma perché farlo solo nella tribolazione? Lo prenderemo in braccio anche nella gioia, proprio come facciamo con i nostri piccoli, quando li stringiamo esultanti e non diciamo nulla!

   Fargli compagnia sul monte: “In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò tutta la notte in orazione” (Luca 6, 12). Anche per il padre di famiglia viene il momento che egli preghi, o sia sfidato a pregare tutta la notte: perché veglia un familiare in ospedale, perché c’è un momento di tensione in famiglia che non lascia dormire, perché i figli non tornano ancora.

   Possiamo scegliere di fare compagnia in silenzio al Signore anche quando vorremmo pregare e non sappiamo come, confusi forse dalle mancate risposte. O che ci sembrano mancate. O ammutoliti da una morte. Egli bene intende la nostra invocazione, anche frammentaria o inespressa.

   Svegliarlo, o vegliarlo, quando dorme sulla barca sbattuta dalle onde. Teresa di Lisieux preferiva non svegliarlo e “riposare accanto a lui” (Composizioni poetiche 4, 14). A me viene più spontaneo toccargli il braccio con delicatezza, come quando cerco di svegliare un figlio che sta dormendo troppo.

   L’attesa del suo risveglio come moltiplicazione del desiderio di averlo pienamente con noi. Come attesa di un qualunque segno e come attesa dell’ira dell’agnello, che ci è stata promessa in Apocalisse 6, 16. Come attesa, infine, del giorno del Signore: “Venga il tuo Regno”.

   Starlo a vedere trasfigurato. Dall’umanità di Gesù alla gloria del Signore. Uno sguardo che ci attiri a lui. Che ci faccia pregustare il momento in cui ci condurrà al Padre. E così via, per ogni altro momento che dicevo sopra e per ogni immagine forte di Gesù che ritroviamo nei Vangeli. E tutto ciò senza parole. Lasciando parlare lo slancio dell’anima.

   Teresa di Lisieux, grande maestra dell’invocazione silenziosa, ne parla così: “Per me la preghiera è uno slancio del cuore, è un semplice sguardo gettato verso il Cielo, è un grido di riconoscenza e di amore in mezzo alla prova come in mezzo ala gioia, alla fine è qualcosa di grande, di soprannaturale, che mi dilata l’anima e mi unisce a Gesù” (Manoscritto C, giugno 1897).

   Il silenzio dà profondità al desiderio che si fa preghiera, perché esso è una quarta dimensione di tutte le cose. E potremmo dire che la preghiera silenziosa è una quarta dimensione di ogni momento della vita cristiana. Essa – e solo essa – permette davvero di riempire la vita, come ci esorta a fare Giovanni Paolo.

   “La verginità è un profondo silenzio di tutte le cose”, ha scritto nel suo diario la beata Pierina Morosini. Chi non è vergine e non è consacrato ed è assordato dai figli e strattonato dagli affari e tirato a combattere, ha la necessità di recuperare, o conquistare, un minimo di silenzio perché in lui abiti e in lui viva la preghiera – appunto – silenziosa. Che è pianticella delicata, danneggiata da ogni chiasso. Quel recupero è difficile, ma possibile e richiede meno impegno – forse – di uno scatto di carriera.

   Seguirlo nella ricerca dei giusti

   Ma se il cristiano comune si esercita in questo prolungamento contemplativo del Padre nostro e tende a “tenere sempre con sé” il Signore Gesù, come suggerisce Teresa d’Avila, non si allontana dal mondo e dal suo compito nel mondo?

   Non si allontana dal mondo – è la mia risposta, basata su una minima esperienza di preghiera, nel mezzo di una professione mondana – ma apprende a guardarlo con gli occhi di Gesù. Perché Gesù non guarda soltanto al cielo, ma affida al Padre – come in un atto di restituzione – la veduta intera della vita e del mondo: “Il Padre ama il figlio e gli ha dato in mano ogni cosa” (Giovanni 3, 35) e ancora: “Questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato” (ivi 6, 39).

   Ritrovare nello sguardo di Gesù l’intera scena della vita e del mondo: ecco un compito per la lettura del Vangelo da parte dei cristiani comuni. Gesù e la secolarità, in altre parole. Gesù e il mondo profano.

   Potremmo anche dire: Gesù e i giusti del mondo. “Venite, benedetti del Padre mio”, afferma nella parabola del giudizio, selezionando i “giusti” secondo la regola del soccorso ai “fratelli più piccoli” (Matteo 25, 31-40). Ma prima ancora dice, con parole che sono riferibili a gran parte dell’umanità di ogni giorno: “chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto” (ivi 10, 41).

   Da giornalista trovo affascinante questa ricerca e non mi stanco di condurla, ogni volta che ho la fortuna di appartarmi con Gesù. Scopro sempre nuove immagini evangeliche in cui egli osserva e – si direbbe – prende su di sé e riferisce al Padre le più varie situazioni umane nella loro secolarità.

   Il padre del figlio prodigo è solo un papà ferito dalla fuga del figlio, e Gesù lo pone a immagine della misericordia del Padre. Immagine provvidenziale per consolare i padri falliti e le madri sconcertate della nostra epoca.

   Gesù vede una luce anche nel figlio brontolone ma in definitiva obbediente, che prima dice “no” al padre e poi va nella vigna a lavorare: un aiuto a come guardare con amore ai figli apparentemente ribelli che riempiono le nostre conversazioni familiari.

   La vedova che getta “due spiccioli” nel tesoro del tempio la indica come il giusto per eccellenza nel rapporto con Dio: “Chiamati a sé i discepoli, disse loro: in verità vi dico, questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri” (Marco 12, 43).

   Quanti vedovi e persino mendicanti non lo fanno anche oggi? Ho visto più volte i mendicanti romani di via del Gambero entrare nella chiesa di San Silvestro e mettere due spiccioli davanti alla statua della Pietà. Chi di noi li considera? Gesù si sarebbe incantato davanti ai pensionati che hanno mandato due euro alle vittime del maremoto. E che avrebbe detto dei ragazzi del liceo che si autotassano ogni mese per fare tutti insieme un’adozione a distanza? Lo fanno al liceo Tasso, dove va Matilde, una delle mie figlie.

   E’ per me fortemente intricante questo Gesù che “sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la gente gettava monete nel tesoro”. Ricordiamocene ogni volta che ci sediamo a guardare i comportamenti umani.

   Ecco forse un criterio con cui rileggere i Vangeli, in questa ricerca di Gesù che fa sua la condizione umana: fermarsi a osservare il suo comportamento, o a studiarne le parole, ogni volta che addita un gesto o una frase all’attenzione dei discepoli, o degli interlocutori.

   Per esempio il pubblicano che va al tempio ma si ferma “a distanza” e non osa “alzare gli occhi al cielo”, mentre confessa il suo peccato: e forse nessuno ha meritato di più agli occhi di Gesù, che conclude informandoci che “tornò a casa sua giustificato” (Luca 18, 14).

   A proposito di pubblici peccatori: ecco Gesù che chiama Levi “seduto al banco delle imposte” (Luca 5, 27): quanti Levi potrebbero esservi oggi tra i promotori finanziari, o gli agenti assicurativi! Anzi, persino tra gli spacciatori di droga e i prestatori a usura, perché forse l’esattore di allora (venduto ai romani e strozzino del popolo) somiglia più a loro che ai nostri bancari.

   Il ladrone della croce accanto e le due peccatrici accolte in occasione di due diversi inviti a tavola: oggi potremmo vedere in essi i pentiti di mafia, o le donne della tratta che escono dal giro. “Vedi questa donna?” domanda Gesù al fariseo a proposito della prima tra le due peccatrici, che viene lodata “perché ha molto amato” (Luca 7, 44): chi ha il coraggio – oggi – di portare ad esempio una prostituta che si riscatta, o i clienti delle prostitute che si fanno loro salvatori?

   Il ladrone – che ruba il paradiso, mettendo a frutto l’esperienza maturata rubando beni e vite – è il primo dei condannati a morte che invocano il crocifisso all’ultimo momento.

   “In Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande” (Matteo 8, 10) dice al centurione romano che gli chiede la guarigione del servo. Il centurione era un pagano e pagana era la Cananea: “Donna, davvero grande è la tua fede” (ivi 15, 28).

   Gesù i giusti li cerca anche tra i pagani, o comunque tra gli stranieri: trasforma in sua annunciatrice la samaritana e fa del geraseno liberato dai demoni un apostolo in mezzo a quel popolo (Luca 8, 39).

   Il samaritano che soccorre l’uomo ferito dai banditi è un eretico e uno straniero, eppure Gesù ne fa l’immagine della “compassione” divina e il prototipo del vero discepolo. Oggi equivarrebbe a portare a modello un “marocchino”, o un albanese. Le cronache ci offrono dei segni in questa direzione. Beato chi li custodisce nel cuore e più beato ancora chi li indica ai figli, o al taxista, spaventati dall’invadenza degli immigrati.

   Conosco un medico immigrato che cura gratis gli immigrati clandestini che non sono assisiti dal sistema sanitario nazionale. E so di tanti medici italiani che fanno altrettanto e vanno da volontari a dare una mano – a Roma – al Centro degli Astalli e per tutta Italia nelle innumerevoli “locande del buon samaritano”, che io penso valgano a proteggerci più efficacemente dei rifugi antiatomici.

   Istruttiva è per noi la commozione di Gesù per la fede degli infelici che ricorrono al suo aiuto: il paralitico che gli accompagnatori calano dal tetto e che egli guarisce, “vista la loro fede” (Luca 5, 20); e l’emoroissa: “Coraggio figliola, la tua fede ti ha guarita” (Matteo 9, 22); e i due ciechi: “Sia fatto a voi secondo la vostra fede” (ivi 9, 29).

   Vanno oggi da Milingo – o a Lourdes, o a Loreto, o a Medjugorje – i bisognosi d’ogni genere e noi giù a ghignare. Gesù avrebbe lodato la loro fede. E non avrebbe disdegnato i musulmani che vanno da Milingo per farsi “benedire” contro Satana.  

   Fare propria la sua veduta generosa

   Gesù si muove a soccorso anche di chi sa bene di non avere una fede sufficiente a ottenere aiuto: “Se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci” gli dice il padre dell’epilettico e ancora: “Credo, aiutami nella mia incredulità” (Marco 9, 22-24). Quanto somigliamo a quel pover’uomo, noi uomini di oggi che proviamo a invocare il Signore!

   Torno a dire che mi appassiona l’atteggiamento di Gesù che si guarda intorno, che cerca il giusto, che lo segue con l’occhio, che l’addita ai discepoli e alla folla che è intorno. Gesù che cerca i “figli della luce” e gioisce quando li trova.

   Fa questo per ammaestrare i discepoli a fare altrettanto. E indica criteri larghi di riconoscimento. Chi dà da mangiare, chi veste l’ignudo, ma anche chi dà “solo un bicchiere d’acqua fresca” (Matteo 10, 42). Credo si potrebbe dimostrare che nessun raccoglitore di testimonianze esemplari – nella Chiesa o fuori – adotta oggi una veduta altrettanto generosa. Da che dipende il nostro rigore? Forse dal moralismo, che Gesù ignora. Forse dalla mancanza del cuore puro e dell’occhio limpido.

   Eppure mai come in quest’epoca abbiamo tanti volontari che prestano servizio alle mense della Caritas, o visitano malati e carcerati, o portano coperte ai barboni nelle notti d’inverno, che è il modo d’oggi di vestire chi è nudo. Il volontario gli mette la coperta addosso quando quello è già addormentato o batte i denti e non parla. Al mattino si sveglia e se ne va, rinfrancato dal sole, lasciando sul marciapiede la coperta, non ripiegata, che la ronda della Caritas ripassa a raccogliere.

   Come questo della coperta, sono stati inventati nei secoli e in questi anni tanti gesti nuovi, come ad aggiornare via via la parabola del giudizio fino a metterla in presa diretta con il terzo millennio: il servizio docce per i senzatetto, le scuole di italiano per stranieri, il mediatore culturale che li accompagna a fare le pratiche, chi fa compagnia agli anziani, chi va a scavare pozzi in Africa, nuovo modo di dare da bere agli assetati. Immagino Gesù interessatissimo – se tornasse – a queste novità.

   Il Gesù della vita e delle parabole è un uomo curioso d’ogni umanità, attento a cogliere ogni azione giusta e ogni sentimento buono che esce dal cuore dell’uomo. Capace di onorare ogni minima giustizia e bontà, verità e bellezza, compassione e misericordia disseminate nel suo popolo e fuori di esso.

   Con frequenza i Vangeli ce lo presentano che osserva e addita: “Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: ecco mia madre e i miei fratelli!” (Marco 3, 34).

   Gesù cerca i giusti e invita a riconoscerli. Nel mio addestramento a tenerlo con me, cerco per quanto posso di inserirmi nella corrente del suo sguardo e dietro ogni figura che egli mette a fuoco – il pastore che cerca la pecora, la donna che spazza la casa e festeggia con le amiche, il servo che traffica i talenti, gli operai che lavorano nella vigna, i pescatori che gettano le reti, la donna che ha speso tutta la sua fortuna con i medici che non l’hanno guarita – io mi ingegno a scoprire qualcosa di rispondente nell’umanità di oggi: il medico che visita nelle case i malati anche quando non è tenuto a ciò, il tassista che riporta al cliente il telefonino abbandonato sul sedile, i ragazzi che fanno lavoretti per pagarsi le piccole spese, gli inviati della televisione nei luoghi di guerra, i volontari che vanno a spegnere gli incendi, chi cerca per ogni dove medici nuovi per un figlio.

   Con questo esercizio di ammirazione cristiana mi preparo ad andare nel mondo e a guardarlo con gli occhi di Gesù, che volle vederlo con gli occhi del Padre.

   A volte compio quell’esercizio prima di uscire dal letto la mattina, altre volte entrando per dieci minuti in una delle bellissime chiese di Roma, o chiudendo per un minuto gli occhi mentre sono sul bus 71 che mi porta al lavoro, o sull’Eurostar. Prima di riaprirli dico “Padre nostro” a nome delle donne e degli uomini che ho cercato e un poco mi sento pronto ad affrontare il mondo.