Maria Cristina Ogier “Senti babbo, sei o non sei un medico cristiano?”

 

Maria Cristina Ogier, fiorentina, muore a 19 anni nel 1973 avendo dato una straordinaria manifestazione di come possa vivere e di che cosa possa fare una cristiana di oggi. Il genio della carità che la caratterizzò ha avuto proiezione ed efficacia oltre la morte. Alcuni mesi prima di morire – a causa di un tumore al cervello diagnosticato quando aveva quattro anni – Maria Cristina, che era al primo anno di Università, aveva riferito in famiglia le discussioni sull’aborto che si tenevano tra gli studenti e così aveva parlato al padre, con riferimento ai bambini abortiti: “Senti, babbo, sei o non sei un medico cristiano? Se non te ne occupi tu, di quei bambini, chi vuoi che se ne occupi?” Mosso da quelle parole il professor Ogier fondò nel 1975 il “Centro di aiuto alla vita” di Firenze, che porta il nome di Maria Cristina e che è divenuto il modello degli altri che sono sorti in seguito e che oggi in Italia sono oltre 300. Ecco un racconto dell’avventura cristiana di Maria Cristina fatto dalla mamma Gina al giornalista Renzo Allegri un mese dopo la morte della figlia e riproposto da Allegri con un servizio per l’agenzia “Zenit” il 15 novembre del 2011.

A Maria Cristina, io e mio marito non abbiamo insegnato niente di tutto quello che ha fatto. Io e mio marito siamo sempre stati cattolici, ma una volta non eravamo molto ferventi (…). Conoscendo le condizioni di salute di Maria Cristina, cercavamo di distrarla, volevamo accontentare tutti i suoi desideri, volevamo che si divertisse. Fin da bambina, Maria Cristina era molto vivace. Amava lo sport ed era una brava nuotatrice (…). Era intelligente e studiava molto. Ha dato la maturità con un anno di anticipo e a pieni voti. Si era iscritta a medicina perché voleva diventare medico, come il padre. Accanto a tutto questo, però, aveva grandi ideali di bontà, di altruismo, di volontariato dei quali né io né suo padre le avevamo mai parlato.

Nella vita di mia figlia c’è sempre stato un qualche cosa di misterioso che non sono mai riuscita a capire. Il primo episodio che mi sorprese, accadde nel 1961. Maria Cristina aveva sei anni. Poiché era ammalata a poteva morire improvvisamente, chiesi al parroco, monsignor Giancarlo Setti, di ammetterla alla Comunione. Il parroco fu comprensivo e volle preparare personalmente la bambina. Maria Cristina era molto felice e una settimana prima della festa, mentre le preparavo l’abito bianco, mi disse: Il vestito bianco lo voglio: devo essere bella perché ricevo Gesù, ma non voglio regali. Di’ alle zie, agli zii e ai nonni che invece di regali mi diano dei soldi, così li posso portare ai bambini poveri (…). Qualche mese dopo accadde un altro episodio misterioso. Una mattina Maria Cristina mi disse: Questa notte ho sognato Gesù. Sono entrata in chiesa e il grande crocifisso sull’altare si è svegliato. Mi ha detto: “Maria Cristina, vuoi togliermi i chiodi e la corona di spine?” Io ho fatto tutto quello che voleva e poi l’ho preso per mano e l’ho accompagnato a casa nostra e l’ho messo a letto. Gli ho dato anche il pigiama perché era nudo. Lui allora mi ha detto: “Ora vai, sei guarita” (…). Quella frase ‘Ora vai, sei guarita’, mi toglieva il sonno. In quei giorni Maria Cristina era molto migliorata, sembrava guarita e io sognavo ad occhi aperti.

Qualche tempo prima eravamo andati a Stoccolma dal professor Olivecrona. Speravamo che il celebre chirurgo del cervello potesse fare un intervento, e invece ci disse che il tumore era in una posizione impossibile da raggiungere chirurgicamente. Era meglio attendere il decorso naturale della malattia. Praticò un intervento di decompressione, ma ci disse che per la nostra bambina la medicina non poteva fare nient’altro. Dopo il racconto del sogno di Maria Cristina, io speravo che quel miglioramento fosse provocato da un miracolo, non dalla medicina. Anzi speravo che non fosse un miglioramento ma la guarigione completa.

Passò un anno, Maria Cristina stava bene, avevamo quasi ritrovato la felicità, ma una mattina la bambina mi chiamò nella sua cameretta e mi disse: Mamma, ho sognato ancora Gesù. Mi ha chiesto di portare la croce insieme con Lui. Impaurita, le domandai piangendo: E tu che cosa hai risposto? Con un sorriso dolcissimo la bambina disse: Gli ho detto di sì. Se avessi visto la sua faccia, gli avresti detto di sì anche tu. Pochi giorni dopo, Maria Cristina ricominciò a zoppicare e la malattia riprese il suo terribile corso. Da allora, mia figlia non si è più lamentata del male. Ha cominciato a vivere preoccupandosi solo di aiutare gli altri ed è sempre apparsa felice, contenta. Viveva per gli altri. Tutti i suoi risparmi li dava ai poveri. Quando incontrava un povero per la strada, gli dava tutto quello che aveva, si fermava a chiacchierare, lo accarezzava. Io sono schizzinosa e la rimproveravo. Maria Cristina – dicevo – fa pure la carità ai poveri ma non è necessario che tu ti fermi a parlare e non devi toccarli. Sono sporchi, puoi prendere delle malattie. Lei mi rispondeva: Mamma, i poveri sono tanto soli. Non hanno bisogno soltanto di denaro, ma soprattutto di affetto.

Quando divenne più grande, cominciò ad andare a visitare i vecchietti dei ricoveri. Li lavava, imboccava i paralitici, comperava indumenti, restava con loro a chiacchierare. Quando era lontana, scriveva lettere, cartoline perchè non si sentissero soli.Preoccupata per la sua salute, la portavo da un santuario all’altro pregando per ottenere un miracolo. Maria Cristina mi seguiva obbediente, ma non ha mai pregato per la sua guarigione. Spesso glielo chiedevo con le lacrime agli occhi: Domanda la grazia alla Madonna, dicevo. E lei rispondeva: Mamma, ci sono tante persone che soffrono molto più di me: bisogna pregare per loro.

Ogni anno andavamo a Lourdes. Durante quei viaggi, Maria Cristina scoprì il lavoro delle crocerossine che accompagnano gli ammalati e volle diventare crocerossina. Era felice di dedicarsi ai sofferenti. Riusciva a infondere nel loro animo tanta rassegnazione, tanta bontà. Durante i viaggi sul treno, al santuario, non si stancava mai di correre, di aiutare, di pregare, di consolare. Gli ammalati più difficili e più bisognosi erano i suoi prediletti. Non aveva ribrezzo neanche per le piaghe più orribili che facevano impressione perfino ai medici. Comperava immaginette, cartoline che scriveva alle famiglie dei suoi ammalati. Io che sapevo come faticava con la sua mano e la gamba semiparalizzate, ogni tanto le dicevo: Cristina, riposati un poco. Lei rispondeva sorridendo: Hanno bisogno di me (…).

Nel 1970 venne a Firenze un cappuccino, padre Pio Conti. Era medico e prima di partire missionario per l’Amazzonia voleva specializzarsi in ginecologia e ostetricia. Studiava con mio marito e veniva spesso a casa nostra. Parlando con Padre Pio, Maria Cristina scoprì le missioni e cominciò a interessarsi anche di queste raccogliendo offerte e medicinali. Terminata la specializzazione, Padre Pio andò in Amazzonia. Dopo qualche tempo scrisse una lettera parlando del suo apostolato. Aveva una missione difficile. Il territorio era vastissimo: 500 chilometri lungo il Rio delle Amazzoni. L’unico mezzo di comunicazione era il fiume che gli Indios percorrevano con le canoe. Nella foresta c’era un piccolo ospedale ma serviva a poco. Gli ammalati gravi, i feriti potevano raggiungere l’ospedale solo attraverso il fiume, con la canoa. Il viaggio era lungo e disagiato, spesso morivano prima di arrivare dal medico. Bisognerebbe avere una imbarcazione attrezzata, concludeva Padre Pio. Era una frase buttata lì per caso, ma nella mente di Maria Cristina nacque immediatamente il desiderio di aiutare quella povera gente (…). Cominciò la sua campagna e per quasi due anni lavorò infaticabile. Scriveva lettere ad amici, a enti, ai giornali. Aveva messo delle cassettine per le offerte nello studio di suo padre, nell’ospedale, nella clinica, nei negozi. Se qualcuno le offriva un regalo, chiedeva soldi per la barca da mandare in Amazzonia. Alla sera si attaccava al telefono e non la smetteva mai …). Il suo entusiasmo contaminava tutti. La gente, invece di scocciarsi, restava affascinata da quello che sapeva dire quella ragazzina. Per raccogliere offerte furono organizzati concerti. Nelle fabbriche e nei forni i ceramisti si tassavano. Finalmente la somma fu raggiunta. A questo punto Maria Cristina trovò l’appoggio di un altro amico: Bruno Lorenzini, un portuale di Livorno: un gigante dal cuore tanto buono. Andarono a Fiumicino a comperare la barca. Fu attrezzata con ambulatorio-pronto soccorso, posti letto per trasporto di ammalati. Il 21 febbraio 1972 la barca partì. Quel giorno, al porto di Livorno Maria Cristina era felicissima (…).

C’era un’altra opera che voleva realizzare. Diceva spesso: Ai bambini ci pensano tutti, ma i vecchi sono i più dimenticati. Pensava di formare piccole case che fossero come famiglie per i vecchi soli e abbandonati. Aveva già un progetto. Non ha potuto realizzarlo ma il suo desiderio non andrà perduto. Ora tocca a me. Io non sono Maria Cristina, non ho la sua fede e la sua forza, ma sento che devo continuare la sua opera. Mio marito ha detto: La nostra vita ora ha un solo scopo: realizzare il sogno di Maria Cristina per i suoi ammalati. Metteremo tutte le nostre sostanze in quell’opera.

A ottobre [del 1972] cominciò a star molto male. In novembre iniziammo una cura a Roma. Trascorrevo gran parte della settimana in casa di parenti. Maria Cristina non riusciva più a stare in piedi da sola. Si trascinava per qualche metro appoggiata a me e soffriva, ma non si lamentava.L’otto gennaio era stato un giorno normale. Alle 6.30 di sera eravamo andati a messa e avevamo fatto la Comunione, come sempre. Maria Cristina si è seduta a tavola. Si è girata verso di me, mi ha guardato un attimo, smarrita, mi ha gettato le braccia al collo ed è rimasta fulminata da una paralisi bulbare.

La mattina seguente la portinaia mi ha portato quattro ricevute di vaglia che aveva eseguito per conto di mia figlia. Poche ore prima di morire, Maria Cristina aveva fatto le sue ultime offerte: 100 mila lire alla Missione in Amazzonia per le medicine e la benzina del battello; 10 mila lire a un Istituto di ragazzi spastici; 2000 lire alla città dei ragazzi vicino a Roma; 1000 lire al Santuario della Madonna di Fatima di un paese toscano.

Sempre in quel testo citato sopra Renzo Allegri scrive che “a Firenze, e in altre città d’Italia e del mondo, ci sono altre ammirevoli realtà che Maria Cristina sognava e che, dopo la sua morte, i suoi genitori, con i parenti, gli amici, i conoscenti, gli ammiratori hanno realizzato in suo ricordo: case-famiglia per anziani, una scuola in Brasile per bambini poveri, una scuola in Bolivia, un centro accoglienza per orfani in Bielorussia”. Un’Associazione Onlus che porta il nome di Maria Cristina ha questo sito: http://www.mariacristinaogier.it/index.php. In esso si legge questa pagina di diario di Maria Cristina datata 30 marzo 1972: “Signore, ti ringrazio della fiamma che brucia in me, questo desiderio insaziabile di fare del bene, di aiutare il fratello e nello stesso tempo di aiutare te, che ci hai tanto amato. Aiutami a sopportare, a soffrire, a accettare sempre la tua volontà”.

[Novembre 2011]

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