Antonella Lignani e le monache che cantano con giubilo

Qui si narra di una giovane congregazione monastica – Suore Francescane dell’Immacolata – che fa rifiorire qua e là monasteri abbandonati. La narrazione è di una frequentatrice del mio blog, Antonella Lignani, che l’ha svolta su mia richiesta, avendo avuto la rara possibilità di conoscere quel luogo della perfetta letizia che si trova a Città di Castello.

Era il 4 ottobre del 2008 e alla Messa un’amica mi avvicinò dicendo: “Le suore delle Murate cercano una professoressa di latino, perché non vai? Alle Murate, come sai, è venuto un nuovo Ordine. Sono tante, molto giovani”. “Sono straniere?” “Quasi tutte sono italiane, ed hanno studiato”.
Così telefonai dicendo di essere disponibile a essere la loro maestra, dando numero di telefono ed e-mail. Mi rispose una voce flebile: “Riferirò alla Madre. Ave Maria!” “Con chi parlo personalmente?” chiesi. “Con la suora che risponde al telefono”. Fu la risposta. Poi più niente per un mese. Vengo quindi raggiunta da una telefonata, in cui la stessa voce dice che la mia disponibilità è gradita; ed ancora una e-mail, nella quale leggo “Te expectamus feria sexta”. Devo consultare il vocabolario per capire che “feria sexta” vuol dire venerdì.
Ed eccomi al cancello vetusto, e poi su per una rampa di gradoni di mattoni e pietra, male illuminati e consumati. Giungo alla porta severa, suono la campana, una voce che proviene dall’altra parte mi dice: “E’ arrivata? Ora viene la Madre”. Dopo qualche minuto sento che una chiave antica sta girando nel congegno, opera di un fabbro del Cinquecento. Davanti a me ci sono una ventina di donne (direi di fanciulle) vestite di grigio – azzurro, con il soggolo bianco. I loro visi sono giovani e freschi, sembrano uscite da un quadro di Simone Martini. Io le guardo, loro mi guardano … e si mettono a ridere! “Dunque siete voi!” dico io. Sono loro, allegre e femminili, limpide ma non ingenue, lontane dal mondo, ma tutto sommato curiose. Questo è l’effetto del motu proprio “Summorum Pontificum”, in seguito al quale la congregazione nuovissima alla quale appartengono ha deciso di aderire con slancio, celebrando la Messa tridentina e la Liturgia delle ore in latino.
Le suore dopo avermi salutato corrono via come colombe (non per nulla chiamano “colombaio” il monastero), ed io rimango sola con la Madre che mi chiede due lezioni alla settimana e, mentre mi guida dentro i meandri dell’antico monastero, mi assicura che ben pochi sono autorizzati a passare quella soglia: il vescovo, eventuali medici, operai. Nella vecchia cucina che sembra quella di un’abbazia, le suore sono sedute a un tavolo a forma di ferro di cavallo, hanno davanti penna e taccuino e un cartellino col nome. Nessuno, fuori di qui, conosce questi nomi. Coloro che passano per la strada che fiancheggia il monastero solitamente non sanno che dietro quel muro ci sono ventidue giovani donne.
Così comincia la mia avventura, e per prima cosa leggo qualcosa dagli “Atti dei Martiri Scillitani”: “Christianus sum” Speratus dixit … Vedete come è facile il latino! Mi sono cimentata con la Vulgata di Girolamo, i commenti ai salmi di Agostino, il De virginibus di Ambrogio, le opere di Venanzio Fortunato, Bernardo di Chiaravalle, Bernardino da Siena, e, perché no, anche Antonio di Padova e i suoi Sermones. Non ho mai avuto una classe più attenta e silenziosa. Sono venuta così a sapere che la Madre è una teologa, che ha parlato davanti a Giovanni Paolo II, che va spesso all’estero e che ora vuole vivere nel nascondimento. Vengo a sapere che alcune sono musiciste, che una suona la viola, che sono molto brave coi computer e i registratori, che sanno guidare un pulmino, che non possiedono nulla, che portano sempre i sandali e la stessa veste d’estate e d’inverno, che non possono, per regola, comprare il cibo, ma solo accettare quello che la Provvidenza decide loro di mandare. Nei primi quindici giorni che hanno trascorso nel monastero delle Murate hanno combattuto con grossi topi; molte di loro vengono da Napoli, ma un po’ da tutto il mondo. Hanno dai ventiquattro ai quarantacinque anni; durante la notte si svegliano per pregare il loro Sposo… e presso di loro è perfetta letizia.
Spesso alla fine della lezione mi cantano un’antifona in gregoriano. Passano con abilità da una nota all’altra, e per cantare l’Alleluja percorrono trentasette note. Il cuore in quei momenti gode senza parole. Ho dunque letto e commentato con loro un passo di Sant’Agostino che ho trovato adatto e che spiega cosa si debba intendere per jubilum e per bene canere, nel commento del Salmo 36 (Enarr. in Ps. 36, 8):
In jubilatione cane: hoc est enim bene canere Deo, in jubilatione cantare. Quid est in jubilatione canere? Intellegere, verbis explicare non posse quod canitur corde. Etenim illi qui cantant, sive in messe, sive in vinea, sive in aliquo opere ferventi, cum coeperint in verbis canticorum exsultare laetitia, veluti impleti tanta laetitia, ut eam verbis explicare non possint, avertunt se a syllabis verborum, et eunt in sonum jubilationis. Jubilum sonus quidam est significans cor parturire quod dicere non potest. Et quem decet ista jubilatio, nisi ineffabilem Deum? Ineffabilis enim est, quem fari non potes: et si eum fari non potes, et tacere non debes, quid restat nisi ut jubiles; ut gaudeat cor sine verbis, et immensa latitudo gaudiorum metas non habeat syllabarum? Bene cantate et in jubilatione. [Canta con espressioni di giubilo: in questo infatti consiste il cantare bene ad onore di Dio, cioè nel cantare con espressioni di gioia e di giubilo. Che cosa vuol dire cantare con giubilo? Capire, ma non poter spiegare a parole quello che si canta col cuore. Ed infatti coloro che cantano, sia durante la mietitura, sia nella vendemmia, sia in qualche lavoro fervido, quando hanno cominciato ad esultare con gioia ripetendo le parole dei loro canti, come riempiti da una così grande gioia da non poterla esprimere a parole, si allontanano dalle sillabe che compongono le parole, e si lanciano in un canto di giubilo. D’altra parte il giubilo è un suono che significa che il cuore esprime ciò che non può dire. E a chi spetta questa espressione di giubilo, se non a Dio, sul quale non si riesce a dire nulla?  Infatti è ineffabile ciò sul quale non puoi parlare: e se su di lui non puoi parlare, ma non devi tacere, che cosa resta se non emettere espressioni di giubilo; in modo che il cuore goda senza parole, e l’immensa estensione della gioia non abbia i limiti delle sillabe? Cantate bene e con espressioni di giubilo.]

La narrazione era più ampia e io un poco l’ho abbreviata per ricondurla alle dimensioni medie di questo repertorio. Mi è stata inviata nel giugno del 2010.

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