Giovanni Ferro: come un “giusto” inerme salva un ebreo e tre Mussolini

Tra i “giusti delle nazioni” entrerà presto il padre Somasco Giovanni Ferro, che fu arcivescovo di Reggio Calabria dal 1950 al 1977 e per il quale è avviata da un anno la causa di canonizzazione: egli accolse al collegio Gallio di Como, di cui era rettore, un ragazzo ebreo per tutto il tempo della persecuzione nazista. Ho conosciuto l’arcivescovo Ferro – uomo mite e inerme se mai ve ne furono – e sono amico del Gallio dove fui chiamato tre anni addietro per una conferenza. E’ dunque con esultanza che racconto questa storia, lasciando la parola all’ebreo che fu messo in salvo.
Mi chiamo Roberto Furcht, ho ottant’anni e sono qui per rendere omaggio alla memoria del padre somasco e vescovo Giovanni Ferro, che mi accolse al collegio Gallio, qui a Como, durante l’occupazione nazista e al quale debbo la salvezza della vita.

Il rettore mi accoglie
e mi procura una falsa identità
L’armistizio dell’8 settembre 1943 aveva colto di sorpresa la mia famiglia sfollata dal 1942 a Cittiglio, Varese. Il 12 settembre un convoglio di SS passa da Cittiglio. Mentre lo zio si rifugia in Svizzera e il papà si ferma nelle Marche, dove al momento si trova, mia madre decide di lasciare Cittiglio e si reca con me quattordicenne alla stazione. Mentre ci troviamo al bar entra un gruppo di SS che chiedono al barista se conosce la famiglia Furcht. Sono le stesse SS che qualche giorno più tardi attueranno la strage di Meina, Novara, che sarà la prima strage in Italia di ebrei non militari.
Mia mamma e io siamo a pochi centimetri dai militari, ma il barista ha la prontezza di dire che non conosce nessun Furcht. Prendiamo un treno per la prima destinazione possibile che, in quel momento, è Como.La mamma cerca e trova un collega d’ufficio (lavorava alla SNIA Viscosa), che ci accompagna al collegio Gallio dove il rettore, padre Giovanni Ferro, mi accoglie e mi fornisce, pochi giorni dopo, falsi documenti d’identità. Al Gallio trascorro gli anni scolastici 1943-44 e 1944-45 con il padre rettore che ogni due giorni mi chiama nel suo ufficio per rinfrancarmi e interessarsi al progresso dei miei studi.
Il padre Ferro in tutto il periodo che io passo al collegio Gallio non fa mai richiesta di un qualsiasi pagamento di retta. Sotto questa protezione si giunge fino all’aprile 1945, quando finalmente il grande pericolo è passato. Intorno al 1965, mentre sono in viaggio di lavoro a Messina, gli faccio visita all’arcivescovado di Reggio Calabria, dove mi riceve con grande affetto. Nel 1994 riallaccio i rapporti con il collegio Gallio e faccio visita al rettore di allora, padre Testa, che prepara una cena kasher. In seguito vengo a conoscenza del processo di beatificazione e mi auguro che questa mia testimonianza possa contribuire al suo buon esito.
Così ha parlato Roberto Furcht al collegio Gallio domenica 10 maggio 2009, nella “giornata” di omaggio all’arcivescovo Giovanni Ferro promossa dai padri somaschi del collegio.
Avevo conosciuto l’arcivescovo Ferro (piemontese di Costigliole d’Asti, 1901-1992) in occasione di un convegno romano di reggini emigrati nella capitale – ai quali mi trovo affiliato per ragioni familiari – e ben ricordo la discrezione e quasi la timidezza dell’uomo, così che non faccio difficoltà a intendere come non abbia mai narrato quel gesto di protezione per il quale potrebbe essere avviata l’istruttoria da parte della fondazione Yad Vashem in vista del riconoscimento del titolo di “giusto delle nazioni”.

In seguito ospitò
tre familiari del Duce
Pare che l’arcivescovo Ferro abbia mantenuto un totale silenzio – almeno in pubblico – anche su un’altra vicenda di protezione di “perseguitati” di cui fu protagonista, sempre da rettore del Gallio, all’indomani del 25 aprile: quando accolse nel collegio e tenne nascosti per sei mesi e mezzo tre giovani uomini della famiglia Mussolini: il figlio del Duce Vittorio; Orio Ruberti, cognato di un altro figlio del Duce, Bruno, che era morto per un incidente all’aeroporto di Pisa nel 1941; Vanni Teodorani, genero di Arnaldo, defunto fratello del Duce.
Vittorio Mussolini, 28 anni, bussa alla porta del Gallio il 26 aprile 1945, cioè tre giorni dopo l’ingresso in Milano dei comandanti delle formazioni partigiane dell’Alta Italia e mentre il padre Benito sta fuggendo verso il confine svizzero (sarà fucilato dai partigiani il 28 aprile a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como). Vittorio sceglie il Gallio perché lì è iscritto alle elementari il figlio Guido, registrato con il cognome della mamma, anche lei rifugiata in Como. Il 27 aprile vengono accolti nel collegio Orio e Vanni. I Mussolini resteranno al Gallio fino al 12 novembre 1945: cinque giorni dopo anche il padre Ferro lascia Como per Genova, dove gli è stata affidata la parrocchia della Maddalena.
Resterà a Genova cinque anni, fino al 1950, quando verrà nominato arcivescovo di Reggio Calabria. In quell’occasione si scrisse a Como a commento della notizia della nomina e in memoria dei sette anni di rettorato al Gallio, dei quali cinque in guerra: “Non seppe e non volle mai negare aiuto e asilo a nessuno, purchè fosse un perseguitato; mirava diritto, senza rimpianti e senza paura, pieno di fiducia nella Provvidenza“.
Dunque i fatti di protezione, sia del ragazzo ebreo che dei “giovani” Mussolini, erano noti nell’ambiente comasco e somasco. Ma si direbbe che l’arcivescovo Ferro non ne abbia mai fatto parola nei suoi nuovi ambienti di vita, a Genova e a Reggio Calabria. Tant’è che fino a oggi nessuno almeno a Reggio Calabria – a esclusione delle persone impegnate nella causa di canonizzazione – sapeva con precisione di quelle sue avventure del tempo di guerra.

“Superiore a ogni politica
e pronto ad aiutare gli uni e gli altri”
Il fatto dell’ebreo era restato sconosciuto nei decenni all’esterno del Gallio ma non quello dei Mussolini: la loro presenza al Gallio era stata documentata da Gianfranco Bianchi e Fernando Mezzetti nel volume Mussolini aprile ’45: l’epilogo (Editoriale nuova, Milano 1979). I due storici avevano anche pubblicato una lettera del padre Ferro al Governatore alleato della Piazza di Milano – datata 20 maggio 1945 – con cui lo informava dell’ospitalità concessa ai tre “non ancora fuori dal pericolo di una giustizia sommaria di parte”, facendosi garante della loro intenzione di “non allontanarsi dal luogo in cui si trovano”.
Umiltà, discrezione, distacco dalle dispute e dalla politica sono le attitudini dell’arcivescovo Ferro – attestate da quanti lo frequentarono – che spiegano quel silenzio. Una targa ricordo posta nella sala di attesa della Direzione del Collegio Gallio lo descrive come “superiore a ogni politica” e “sempre pronto a intervenire in aiuto degli uni e degli altri”. C’è chi lo vede come un “buon uomo” in balia di eventi più grandi di lui ma io trovo un forte segno cristiano in questa sua capacità di sfiorare la ribalta senza darne riscontro: “Non sappia la tua destra quello che fa la tua sinistra”.

Trentuno preti diocesani
e ventisei tra frati e suore
Quando l’arcivescovo Ferro sarà riconosciuto come “giusto delle nazioni” salirà a cinque il numero dei vescovi e “futuri vescovi” italiani che figureranno in quella lista. I giusti italiani erano 468 al gennaio 2009, su un totale di 22.765. Tra essi vi erano:
– due vescovi: Giuseppe Placido Nicolini di Assisi e il nunzio a Budapest Angelo Rotta;
– due futuri vescovi e poi cardinali, ma allora giovani preti: Vincenzo Fagiolo e Pietro Palazzini, ambedue del clero di Roma;
– 31 preti: Angelo Bassi, Arrigo Beccari, Enzo Boni Baldoni, Guido Bartolameotti, Enzo Boni-Boldoni, Alfredo Braccagni, Francesco Brondello, Michele Carlotto, Leto Casini, Alessandro Daelli, Angelo Dalla Torre, Giuseppe De Zotti, Giulio Facibeni, Alfredo Melani, Alessandro Di Pietro, Giulio Gradassi, Vivaldo Mecacci, Alfredo Melani, Ernesto Ollari, Arturo Paoli, Ferdinando Pasin, Francesco Repetto, Benedetto Richeldi, Luigi Rosadini, Dante Sala, Carlo Salvi, Beniamino Schivo, Giovanni Simeoni, Gaetano Tantalo, Raimondo Viale, Federico Vincenti;
– 11 religiosi: Armando Alessandrini, Pasquale Amerio, Francesco Antonioli, Aldo Brunacci, Antonio Dressino, Mario Leone Ehrhard, Giuseppe Girotti, Rufino Nicacci, Francesco Raspino, Cipriano Ricotti, Emanuele Stablum;
– 15 religiose: Maria Antoniazzi, Virginia Badetti, Emilia Benedetti, Anna Bolledi, Sandra Busnelli, Maria Maddalena Cei, Maria Corsetti, Maria Angelica Ferrari, Marta Folcia, Marcella Girelli, Elisabetta Maria Hesselblad, Barbara Lavizzari, Marie Marteau, Emma Talamonti, Benedetta Vespignani;
– 2 pastori protestanti: il valdese Tullio Vinay (Firenze) e l’avventista Daniele Cupertino con la moglie Teresa Morelli Cupertino ( Roma).

Dal padre Girotti
ad Arturo Carlo Jemolo
I più famosi tra i preti sono il fiorentino Giulio Facibeni e il lucchese Arturo Paoli, che oggi ha 97 anni. Tra i religiosi la figura di maggiore spicco è Giuseppe Girotti, domenicano piemontese morto a Dachau, per il quale c’è la causa di canonizzazione e la madre Elisabetta Maria Hesselblad, originaria della Svezia, fondatrice delle Brigidine: ha avuto il titolo di Giusto nel 2004, dopo che nel 2000 era stata proclamata beata da Giovanni Paolo.
Affascinanti – tra i Giusti – sono anche le figure di due cristiani laici morti come Girotti nei campi di sterminio e per i quali è avviata la causa di canonizzazione: Giovanni Palatucci, avellinese reggente della Questura a Fiume e Odoardo Focherini, emiliano amministratore del quotidiano Avvenire d’Italia. Suggestiva è anche – tra i laici – la presenza dello storico e giurista Arturo Carlo Jemolo con la moglie Adele Maria Morghen Jemolo e la figlia Adele Jemolo.

Luigi Accattoli
Da Il Regno 14/2009

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