Angelica Tiraboschi: “Voglio lasciarmi modellare da Gesù: mi fido di lui”

 

Angelica, ragazza bergamasca, muore nel 2015, a diciannove anni, di tumore al seno dopo aver vissuto per 14 mesi un’accettazione della prova che accende un forte contagio di fede cristiana nei familiari e negli amici.

Ecco un suo testo scritto nel tempo della malattia: “Voglio lasciarmi modellare da Gesù attraverso il calvario che sperimento con atroci dolori fisici. Mi fido di Lui. In questo modo il Signore può compiere meraviglie in ciascuno di noi e ci perfeziona facendoci diventare un’opera d’arte. Il suo agire in noi ci fa essere capaci di voler bene, di amare”.

In un altro scritto, che i familiari considerano il suo testamento, ha lasciato queste parole: “Non possiamo cambiare la direzione del vento, ma possiamo sistemare le vele in modo da poter raggiungere la nostra destinazione in Cristo Gesù nostro Signore”. Sull’accettazione della malattia scrive: “Non bisogna farsi deprimere dalla confusione, bisogna sorridere attraverso le lacrime e cercare di comprendere che tutto ciò che succede ha una ragione”.

Angelica Tiraboschi nasce il 22 novembre 1995 a Pontirolo Nuovo (provincia di Bergamo e diocesi di Milano), dove vive con i genitori Romina e Marcello, il fratello Simone, i nonni. Con la famiglia condivide l’esperienza del “Rinnovamento nello Spirito”. Così la mamma Romina ricorda la sua rapida assimilazione della spiritualità di quel movimento ecclesiale: “In famiglia, a scuola o con i suoi coetanei parlava spesso di Dio ed era capace di contagiarci grazie alla sua simpatia e al sorriso genuino che si sprigionava dal suo volto”.

Ecco altre parole che attestano la sua spontanea adesione alla vocazione cristiana: “Sono assolutamente convinta che è possibile essere santi già qui e ora. È sufficiente fare bene il proprio dovere quotidiano e accettare con gioia la volontà di Dio che è il meglio per ciascuno”.

Scopre la malattia nel giugno del 2014 e la vive con una fitta serie di ricoveri all’Istituto europeo di oncologia di Milano. Quando s’accorge che pettinandosi le restano tanti capelli tra le dita, prova una grande desolazione e cerca di “offrire” anche questa umiliazione. Racconta la zia Erika: “Fu per me un trauma quando mi chiese di rasarle i capelli per poter indossare la parrucca. Dentro ero distrutta al pensiero di cosa le stava accadendo ma dovevo essere forte per lei e le dissi che ai miei occhi era bellissima anche senza capelli».

Nella prova apprende il valore d’ogni giornata: “Tu che stai vivendo, mi raccomando: non buttare via il tuo tempo. Non vale la pena sprecarlo in cose tristi e inutili. Ogni vita è importante non per quanto dura, ma per l’intensità del suo passaggio. Considera la malattia un “dono prezioso” e conforta chi si rattrista per la sua sorte.

Alla notizia della morte il papà Marcello è il primo ad arrivare nella stanza dell’ospedale: “L’ho trovata sul letto con le braccia allargate e le mani rivolte all’insù con accanto la corona del rosario. Avevamo due possibilità: rassegnarci, e così far diventare vana la sua morte e soprattutto la sua vita, o reagire. Abbiamo reagito, ma la forza non è venuta da noi. È venuta dall’alto e dal basso, da Dio e dalla gente comune che ci è stata vicina”.

La mamma Romina: “Dopo la sua morte c’erano persone che raccontavano di aver ricevuto da Angelica, quando era in ospedale, una forte testimonianza di fede; pur essendo molto malata era lei a incoraggiare gli altri”.

“Un giorno – racconta Romina – il marito di una signora ricoverata con nostra figlia ci chiese che cosa aveva di particolare Angelica. La risposta ovviamente fu che aveva un tumore al seno. Quell’uomo guardandoci dritti negli occhi ci disse che non avevamo capito quello che intendeva. Voleva sapere cosa avesse di così speciale perché dai suoi occhi trasparivano una luce e una dolcezza indescrivibili”.

Chiudo le testimonianze di chi l’accompagnò con le parole dello zio Luca, che da quel doloroso accompagnamento confessa d’aver ricevuto qualcosa come un programma di vita: “Il suo cuore non ha smesso di battere in quel letto di ospedale. Il ramo spezzato non è seccato, ma ha dato vita a nuovi germogli e la linfa che scorre nuovamente è diventata vitale per quanti ora si affidano a lei e la invocano”.

Ho conosciuto la storia di Angelica dal volume di Cristian Bonaldi, “Vivere a colori. Angelica Tiraboschi. Prefazione di Marco d’Agostino, postfazione di Salvatore Martinez”, Edizioni Paoline, Milano 2017. Alcune delle parole di Angelica riportate sopra le ho prese dal servizio della rivista “Credere” pubblicato con il titolo “Angelica Tiraboschi. Quando la vita diventa un’opera d’arte” l’11 febbraio 2018, alle pp. 34-37. Ho anche visitato la pagina facebook che porta il suo nome.

[Febbraio 2018]