Emanuele Mamotti invita parenti e amici per l’Unzione degli infermi

Emanuele sentiva molto forte il bisogno di condividere con altri anche questa esperienza che stava vivendo. E man mano che si era fatta chiara la sua condizione, era nata l’idea di vivere in maniera comunitaria questo sacramento. Voleva che la sua malattia e poi la sua morte diventassero un dono di vita, un momento di crescita per gli altri. Era un modo per non subirla, ma per viverla nonostante tutto all’insegna della libertà. Inoltre viveva questo momento come un modo per chiedere perdono a tutti”: è il racconto fatto ad Avvenire da Bruna, moglie di Emanuele Mamotti di Bresso, Milano, sul modo in cui il marito volle “vivere” l’unzione degli infermi nella primavera del 1993. Preparò la lista delle persone da invitare, si fece aiutare nella scelta dei canti, si consigliò sul vestito da indossare.
Emanuele era un insegnante aclista, attivo nel volontariato, da tempo colpito da un tumore che l’avrebbe portato alla morte l’11 dicembre di quell’anno. Il rito dell’Unzione venne celebrato il 17 aprile, un sabato pomeriggio, in una cappella della chiesa parrocchiale, alla presenza di parenti, amici, colleghi di lavoro. Così ancora nel ricordo di Bruna: “Nonostante la commozione, fu una cerimonia gioiosa. Per lui fu il sollievo di sentire che non era solo a portare il dolore di quella malattia. Rimettendo a posto le sue agende, mi sono poi accorta che, tornato a casa, aveva scritto i nomi di tutti i partecipanti alla celebrazione”. Nell’omelia per la messa di addio, il parroco Piero Castelli ricordò quel gesto dell’unzione comunitaria: “Grazie per il modo in cui hai vissuto la tua sofferenza”.

Ho preso il fatto da un articolo del collega Giorgio Bernardelli pubblicato da Avvenire il 17 febbraio 1998 a p. 18 in uno speciale sul sacramento dell’Unzione, con il titolo: In chiesa come in famiglia. Un cancro in fase terminale, la liturgia in parrocchia con parenti e amici. Da me interpellato, Giorgio ha aggiunto questi particolari al racconto di dieci anni prima: “Emanuele è stato il mio catechista. Aclista col cuore che batteva per i teologi della liberazione (anche se io ancora non potevo capirlo…) ci preparava alla Cresima parlandoci dell’arcivescovo Romero ucciso pochi mesi prima in Salvador. Ci spiegava attraverso di lui chi fosse un testimone di Gesù nel mondo. Ero presente a quella celebrazione del sacramento dell’unzione e davvero è stata un’esperienza unica”.

[Giugno 2010]

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