Giuseppe Morosini: “Ci vuole più coraggio per vivere che per morire”

Giuseppe Morosini è un prete di Roma condannato a morte dall’occupante tedesco per l’aiuto che dà agli antifascisti: per la sua salvezza si muove il Papa Pio XII – egli è un suo prete! – che chiede la grazia a Hitler, che la rifiuta. E don Giuseppe viene fucilato in Roma, al Forte Bravetta, il 3 aprile 1944, lunedì santo, assistito – per conto del Papa – dal vescovo vicegerente di Roma, Luigi Traglia, che sette anni prima l’aveva ordinato prete. Aveva 31 anni.

Di carattere espansivo e appassionato di musica, già cappellano militare, alla caduta del fascismo reagisce da missionario qual era – della Congregazione di San Vincenzo De’ Paoli – ai disagi della popolazione, ingigantiti dai primi bombardamenti alleati, raccogliendo in una scuola 150 ragazzi delle zone sinistrate. La sua formazione lontana dal fascismo l’aveva segnalata già al momento della prima messa, scegliendo come ricordo per i giovani di Ferentino (suo paese natale) un’immagine di Pier Giorgio Frassati, il futuro beato torinese, antifascista della prima ora.

L’aiuto ai ragazzi in difficoltà e ai giovani sbandati, tra i quali erano tanti che sceglievano la clandestinità per non andare in guerra, o perché si ribellavano all’occupazione tedesca, lo mette in contatto con l’ambiente resistenziale romano. Un tale Dante Bruna lo tradisce per un compenso di 70 mila lire: viene arrestato il 4 gennaio e subisce tre mesi di interrogatori, ma non fa nomi.

Non poteva celebrare la messa, ma dalla cella ogni sera intonava il rosario, invitando i carcerati a pregare “per la nostra cara patria, per coloro che soffrono, per quelli che ci fanno soffrire”.

Al cappellano del carcere che gli annunciava l’esecuzione dice: “Monsignore, ci vuole più coraggio per vivere che per morire”. Allo stesso cappellano, aveva detto un giorno, con riferimento a un pensiero di Teresa di Lisieux: “Vorrei avere mille cuori! Il cuore del martire, il cuore del confessore vorrei! Invece quel poco che ho fatto finora è poco e imperfetto”.

Ottiene di poter celebrare un’ultima messa: gliela serve il vescovo Traglia che l’aveva ordinato. Eppoi si abbracciano e quel vescovo l’accompagna sul cellulare dal carcere al forte della fucilazione e intona il rosario con i “misteri gaudiosi”, perché era lunedì. Ma don Giuseppe chiede quelli “dolorosi”. E quando il vescovo recita il quarto, nel quale “si contempla la condanna a morte di Nostro Signor Gesù Cristo e il suo viaggio al Calvario”, don Giuseppe lo guarda e sorride.

Viene fucilato in veste talare. Davanti al plotone di esecuzione chiede al vescovo di ringraziare il Papa per il tentativo che aveva fatto di salvarlo. Afferma che offre la sua vita secondo le intenzioni del Papa. Bacia per l’ultima volta il suo crocifisso di missionario e lo consegna al vescovo perché lo dia al fratello: “e gli dica che il mio pensiero, in questo momento è rivolto a lui, so quanto soffrirà”.

Il vescovo Traglia un giorno sarà cardinale e sempre difenderà la memoria di don Morosini: “Io ho pensato che sotto un certo punto di vista il Signore lo premiava, perché faceva una morte santa: una morte accompagnata da tanto sacrificio sarebbe stata certamente considerata dal Signore in attivo e non in passivo” (Venier).

Pio XII volle essere informato minutamente da Traglia, il giorno stesso dell’esecuzione “e grande fu il suo dolore nel non essere riuscito a salvare neppure un suo sacerdote” (Venier).

Martirologio del clero italiano, p. 158.

Salvatore Morosini, Mio fratello don Giuseppe, Roma 1954.

Don Giuseppe Morosini martire per la fede, la libertà e la patria, Roma 1969.

Dizionario storico del movimento cattolico, III\2, p. 579.

Elio Venier, La Chiesa di Roma durante il periodo della Resistenza, in Rivista diocesana di Roma, settembre-ottobre 1999, p. 999-1000. 

[dal volume di Luigi Accattoli, Nuovi Martiri, San Paolo 2000, pp. 168-170]

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