Se il Vaticano sia o no sull’orlo del fallimento

Dossier per il settimanale polacco “Tygodnik Powszechny” dell’8 dicembre 2019

 

Non è vero che il Vaticano sia sull’orlo del fallimento ma è vero che la riforma dell’economia avviata da Benedetto XVI e continuata da Francesco non ha – fino a oggi – raggiunto gli obiettivi essenziali. Tra questi c’erano la riduzione della spesa e la trasparenza della gestione: la spesa continua ad aumentare e la trasparenza appare irraggiungibile. Ma non manca qualche segno di speranza che viene dalle ultime nomine ai ruoli di vertice del settore economico.

Il giornalista italiano Gianluigi Nuzzi con il volume “Giudizio universale. La battaglia finale di Papa Francesco per salvare la Chiesa dal fallimento” (pubblicato dall’editore Chiarelettere nel mese di ottobre) ha dato fiato alle trombe dell’Apocalisse per piazzare sul mercato il suo quinto pamphlet sulle finanze vaticane, dopo Vaticano Spa (2009), Sua Santità (2012), Via Crucis (2015), Peccato originale (2017).

Sono volumi che pubblicano documenti riservati ottenuti per via confidenziale, dando per lo più sbocco pubblicistico a lotte interne al mondo vaticano. I documenti sono autentici e utili a conoscere aspetti particolari della governance vaticana, ma l’interpretazione degli stessi è quasi sempre fuorviante, condizionata da una conoscenza parziale dei fattori in gioco e mirata a drammatizzarne le prospettive.

Quest’ultimo volume si basa su “oltre tremila documenti raccolti dal 2013 a oggi, tutti riservati e finora mai divulgati”: così afferma l’autore. Sono verbali di riunioni di organismi economici, corrispondenze tra l’uno e l’altro, rapporti di agenzie esterne di valutazione, resoconti di interventi papali in sedi riservate. Ne emergono un quadro d’insieme preoccupante e singole vicende conflittuali, ma la conclusione che sia imminente un fallimento globale è una forzatura.

Mettiamo la lente su due passaggi dell’allarme lanciato da Nuzzi. Il primo riguarda la gestione “clientelare” e il deficit senza precedenti dell’Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica), cioè dell’organismo portante dell’economia vaticana; il secondo è l’indicazione di un tempo di cinque anni per sanare la situazione, pena il default.

Ambedue i passaggi sono nelle pagine di apertura del volume, dove si leggono titoli lampeggianti: “Una gestione catastrofica”, “Solo cinque anni al crac”. A metà volume arriva un capitolo intitolato “Il baratro”.

Citando da un dossier consegnato al Papa a fine maggio del 2019, Nuzzi scrive che “l’Apsa nel 2018 per la prima volta ha chiuso in negativo il proprio esercizio: mai il risultato operativo era sceso del 27 per cento, mai quello finanziario aveva registrato un meno 67 per cento, né quello di gestione un meno 56 per cento”.

Il volume di Nuzzi compare nelle librerie romane il 21 ottobre e il 22 arriva tramite il quotidiano italiano “Avvenire” la precisazione dell’arcivescovo Nunzio Galantino, presidente dell’Apsa: «In realtà la gestione ordinaria dell’Apsa nel 2018 ha chiuso con un utile di oltre 22 milioni di euro. Il dato negativo contabile è esclusivamente dovuto a un intervento straordinario volto a salvare l’operatività di un ospedale cattolico e i posti di lavori dei suoi dipendenti». Il riferimento è all’ospedale dermatologico Idi di Roma, di proprietà di una congregazione religiosa (Figli dell’Immacolata Concezione), per il salvataggio del quale l’Apsa ha speso 50 milioni di euro.

Nuzzi punta poi il dito contro la gestione “inefficiente e clientelare” del patrimonio immobiliare della Santa Sede (che ammonta a 4.421 unità, di cui 2.400 appartamenti e 600 tra negozi e uffici, per lo più a Roma e a Castel Gandolfo): il 15% delle locazioni sarebbe a canone zero e il 50% a prezzi di favore. Questa è la risposta di Galantino: «Quelli che non producono reddito sono gli appartamenti di servizio o gli uffici della Curia. Prendiamo i palazzi di piazza Pio XII [che si trova tra via della Conciliazione e piazza San Pietro]: se ci fai un albergo extra lusso è un discorso, se ci metti gli uffici della Curia romana, come è adesso, non valgono niente. Inoltre circa il 60 per cento degli appartamenti è affittato ai dipendenti che hanno necessità, ai quali viene riconosciuto un canone di affitto ridotto. Questa è una forma di housing sociale. Se lo fanno le grandi aziende private, sono realtà benemerite che si prendono cura del personale. Se lo fa il Vaticano, siamo degli incompetenti».

Alla domanda sul che fare Galantino risponde: “Qui non c’è alcun crac o default. C’è solo l’esigenza di una spending review. Ed è quanto stiamo facendo. Siamo una realtà che si rende conto che bisogna contenere le spese”.

Quanto alla previsione dei cinque anni disponibili per evitare il “baratro”, Nuzzi la trae per via di interpretazione – che è una via scivolosa – da una frase del maltese Joseph Zahra, vicecoordinatore del Consiglio per l’economia: “Bisogna elaborare un piano di sviluppo economico per un periodo di cinque-sette anni”. Sta a dire che per contrastare efficacemente l’attuale tendenza all’aumento della spesa e alla riduzione delle entrate non ci si può affidare a misure contingenti, ma occorre un piano organico da mandare a regime nel giro di 5-7 anni. Questa è invece la lettura apocalittica di Nuzzi: “Le finanze della Chiesa possono reggere solo fino al 2023”.

La risposta di responsabili delle finanze vaticane è affidate di nuovo ad “Avvenire”: il quotidiano dei vescovi italiani chiarifica il 23 ottobre che “il deficit fatto registrare dall’ultimo bilancio consolidato della Santa Sede – quello del 2018 – è di 43 milioni di euro. Una cifra che chiede di essere ridotta ma non preoccupa, né per le sue dimensioni, né per le cause che l’hanno determinata, che sono principalmente gli stipendi dei 4.810 dipendenti (2.880 della Santa Sede, 1930 dello Stato). I bilanci in rosso, in Vaticano, non sono una novità. Nel 1980 i miliardi di vecchie lire di passivo furono 31. Una cifra che – se ricalcolata con i tassi di inflazione di questi 39 anni – non è lontana dall’attuale, anzi è probabilmente superiore”.

Scrive ancora “Avvenire” che “esaminando i bilanci tra il 2001 e il 2015 si può constatare che i conti della Santa Sede chiudono dieci volte in passivo e solo sei volte in attivo. E negli anni della crisi, dal 2008 in poi va ancora peggio: sei volte in passivo e due in attivo”. In altre parole: Curia e Stato vaticano stanno vivendo una delle tante emergenze economiche sperimentate nei decenni.

Ascoltata l’accusa di Nuzzi e la difesa degli amministratori vaticani resta il fatto che la situazione delle finanza papale non è buona. Non è drammatica, da “Giudizio universale” come vorrebbe il titolo del volume di Nuzzi, ma non è neanche tranquilla. E’ vero che le casse vuote sono un elemento ricorrente nella storia del Papato, ma è vero anche che a seguito del Vaticano II le spese sono cresciute velocemente, con l’aumento degli organismi curiali e delle iniziative papali, con la crescita numerica del Collegio dei cardinali, con i mezzi di comunicazione sempre più costosi (i dipendenti del settore sono 563, più di quelli della Segreteria di Stato, che sono 477), con la continua convocazione di concistori e sinodi, simposi, congressi.

L’idea che la Curia debba dimagrire e il personale vada ridotto era già coltivata – inutilmente – sotto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Sotto Francesco quell’obiettivo è stato perseguito soprattutto con accorpamenti di più organismi in uno. Per esempio dal 2017 i consigli Giustizia e Pace, Cor Unum, Migranti e Itineranti, Operatori Sanitari sono tutti confluiti nell’attuale Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. Per questa via si è forse semplificata la governance curiale, ma è ormai comprovato che non si è ridotto il personale. Gli osservatori prevedono che neanche la definitiva riforma della Curia – che sarà promulgata il prossimo anno – aiuterà a ridurre il numero dei dipendenti. Almeno non lo ridurrà con effetto immediato: ci vorranno comunque tempi lunghi.

Papa Francesco ha dato direttive rigorose per la riduzione del personale, ma l’applicazione di quelle direttive è risultata faticosa e d’esito incerto: niente licenziamenti, piuttosto prepensionamenti, riduzione degli organici e ridistribuzione degli esuberi tra i vari uffici. Gli addetti al piano di riduzione del personale – varato alla fine del 2018 – ritengono che qualche effetto si potrà vedere solo in capo a cinque o dieci anni. L’urgenza di correre ai ripari viene dal fatto che nel frattempo diminuisce il rendimento degli investimenti, a motivo della congiuntura economica non favorevole in zona euro; si contrae il contributo proveniente dalle diocesi e dalle congregazioni religiose: oggi tutto il mondo cattolico è in affanno economico; e cala – seppure con andamento alterno – anche quello dell’Obolo di San Pietro.

La raccolta dell’Obolo è danneggiata dalla continua emergenza di scandali, di vicende opache, di inchieste penali in materia economica che raramente arrivano a condanne significative ma che sollevano il chiasso dei media e allarmano i fedeli. Tra le vicende oscure va ricordata l’improvvisa cacciata, nel 2012 – sotto Papa Benedetto – del presidente dello IOR Ettore Gotti Tedeschi. Oscurissima è stata la dimissione forzata del revisore dei conti, Massimo Milone, nel giugno del 2017.

Tra i dirigenti finiti davanti al tribunale vaticano ci sono Angelo Caloia, già presidente dell’IOR (l’accusa è di peculato, il processo avviato nel 2014 è ancora in corso); l’ex presidente della Fondazione Bambino Gesù, Giuseppe Profiti, condannato nel 2017 a un anno di reclusione per abuso d’ufficio (vicenda dell’appartamento del cardinale Bertone); l’ex direttore generale dello Ior, Paolo Cipriani e il suo vice Massimo Tulli, condannati nel 2018 per una “mala gestione” che avrebbe provocato un danno di 47 milioni di euro.

Il monsignore Nunzio Scarano, già contabile dell’Apsa, ha auto il febbraio scorso dal tribunale di Roma una condanna a tre anni di reclusione per calunnia e corruzione in una vicenda di trasporto illegale di denaro tra Svizzera e Italia.

Il 1° ottobre scorso abbiamo avuto notizia dell’avvio di un’inchiesta giudiziaria a carico di cinque persone, tra le quali il direttore dell’Aif Tommaso di Ruzza e il capoufficio della Segreteria di Stato Mauro Carlino. C’è chi sostiene – all’interno dello stesso Vaticano – che quest’ultima inchiesta, che ha per oggetto l’acquisto di un immobile a Londra, sia stata favorita dagli avversari del cardinale Angelo Becciu, che da sostituto alla Segreteria di Stato – lo è stato dal 2011 al 2018 – ha governato in gran parte il settore delle finanze e che ora è passato ad altro incarico. Tra gli oppositori di Becciu viene indicato anche Milone e si pensa che sia lui che ha fornito una parte delle carte riservate che sono entrate nel libro di Nuzzi.

I segni di speranza – dicevo all’inizio – vengono dalle persone chiamate a risanare i conti della Santa Sede. Le ultime due nomine sono anche le più importanti: l’arcivescovo Nunzio Galantino, chiamato all’Apsa nel 2018, del quale abbiamo già ascoltato i buoni propositi; e il padre gesuita Guerrero Alves, nominato prefetto della Segreteria per l’Economia il 14 novembre scorso. Sono due scelte fuori dalle righe, compiute direttamente dal Papa, che ripone in loro una fiducia di persona a persona, basata su una lunga collaborazione nel caso di Galantino, incoraggiata dalla comune formazione gesuitica nel caso di Guerrero Alves.

Un indiretto segno di speranza lo possiamo vedere nella scelta – avvenuta il 3 ottobre – del nuovo presidente del Tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone, un magistrato italiano che è stato procuratore della Repubblica a Reggio Calabria e a Roma: ha fama d’onesto e severo. Non ha avuto paura delle mafie, non l’avrà dei monsignori. E’ un ruolo che non ha direttamente a che fare con l’economia, ma indirettamente sì, perchè in Vaticano ci sono continuamente vicende economiche che finiscono in tribunale e nel tribunale si insabbiano o arrivano a conclusioni inefficaci.

Nunzio Galantino è stato Parroco e vescovo in piccoli centri dell’Italia meridionale fino al 2013, quando Francesco lo fece segretario della Conferenza episcopale italiana. Studioso del filosofo italiano dell’Ottocento Antonio Rosmini (una personalità riformatrice del cattolicesimo italiano citata spesso da Papa Bergoglio), Galantino è anche un uomo semplice, dai modi schietti e dal linguaggio popolare, che guida da solo la propria automobile. Attraverso di lui Francesco ha governato per cinque anni l’episcopato italiano dettando una linea di rinnovamento che non sempre ha avuto l’apprezzamento della maggioranza dei vescovi. Il Papa ritiene dunque che sia preparato a remare controcorrente anche nel mondo vaticano.

Se la fiducia posta in Galantino è comprovata, quella verso il padre gesuita Juan Antonio Guerrero Alves è una scommessa, ma confortata dallo spontaneo consenso di questo gesuita spagnolo al desiderio del Papa di sottrarre i ruoli curiali al sistema delle cordate e delle carriere cardinalizie. Il padre Guerrero Alves prende il ruolo che fu del cardinale George Pell, attualmente in carcere in Australia per abusi sessuali: ma si dichiara innocente e ha ottenuto di ricomparire davanti alla corte per il giudizio d’appello. Al momento della chiamata in Vaticano Guerrero Alves era consigliere generale della Compagnia di Gesù. Ha studiato economia ed è stato provinciale e maestro dei novizi della Compagnia di Gesù in Spagna, missionario in Mozambico. Mettere a capo delle finanze vaticane uno che è stato missionario in Africa pare un buon colpo. Ma il miglior sale di questa nomina è quello anticarriera.

All’atto della nomina VaticanNews ha informato che “il padre Sosa, Superiore Generale della Compagnia di Gesù, ha chiesto a Sua Santità che questa nomina non venisse associata all’episcopato, in modo che padre Guerrero possa tornare, finito il suo servizio, alla normale vita di gesuita”. Si può immaginare che sia nelle corde del Papa gesuita che quanti sono chiamati in Curia ne escano con lo stesso vestito con il quale vi erano entrati cinque o dieci anni prima.

Oltre che sale c’è anche pepe in questo gesuita che non vuole l’episcopato e dunque neanche il cardinalato: infatti lo statuto della Segreteria per l’Economia prevede che il responsabile di questo dicastero sia un cardinale. La Segreteria ha un ruolo di controllo su organismi che a loro volta sono guidati da cardinali ed è una regola non scritta del mondo vaticano che un cardinale non debba mai sottostare a qualcuno che cardinale non è. “Spero di contribuire alla trasparenza economica della Santa Sede e all’impegno di fare un uso efficiente dei beni e delle risorse che sono al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa”: in questa dichiarazione del nuovo prefetto dell’Economia si riflette l’indicazione che gli avrà dato Francesco di persona.

Si direbbe che Papa Bergoglio deluso dalla mala riuscita di molti uomini nuovi da lui scegli per la riforma dell’economia, con Galantino e Guerrero Alves sia ricorso alle teste di cuoio.

Questo articolo era già spedito da Roma a Cracovia quando è arrivata – il 27 novembre – la nomina a presidente dell’Aif dell’esperto italiano di vigilanza bancaria Carmelo Barbagallo, che ha lavorato a lungo per la Banca d’Italia acquisendo un’ottima reputazione di uomo competente e rigoroso. Dunque la buona scelta dei collaboratori compie un altro passo.

Luigi Accattoli

www.luigiaccattoli.it