Sorpreso dai sacchi parapioggia di “Riso amaro”

Ho visto oggi per la prima volta “Riso amaro” di Giuseppe De Santis (1949), l’epico film delle mondine del vercellese con la Mangano, Gassman e Vallone giovanissimi. Io allora avevo cinque anni. Mi hanno sorpreso due segni dell’epoca cassati poi dal benessere e che avevo dimenticato: il sacco di juta usato come cappuccio parapioggia e il pagamento di quel lavoro stagionale con dei chili di riso. Quando le mondine escono con la pioggia, si mettono in testa un sacco ripiegato sul fondo, con un angolo rientrante nell’altro in modo da formare un rudimentale mantello parapioggia: conoscevo quel gesto ma l’avevo dimenticato. In campagna, nelle Marche, quando arrivava un temporale e dovevi correre sull’aia a tirare col rastrello il granturco sotto la tettoia, mettevi in testa e gettavi sulle spalle quel sacco già pronto appeso a un chiodo della stalla o della “capanna”. Nelle Marche non avevamo il riso, si capisce. Ma ricordo i ragazzotti che andavano “a garzone” per la mietitura e venivano “pagati” con una “sacchetta” di grano. Come potevo avervi dimenticati, sacco e sacchetta?

7 Comments

  1. Clodine

    Erano tempi in cui la vita stessa era amara e dolce al contempo. Amara per via dei disagi legati al qotidiano, e li tutto il peso si concentrava sul lavoro manuale, soprattutto nei paesi rurali, dove la mezzadria era una regola: il padrone ci metteva la terra e il coltivatore, o colono, la fatica dell’arare, coltivare, accudire il bestiame che spesso era il capitale cui fare riferimento; il tutto scandito dal ciclo ritmico delle stagioni, della semina, del raccolto in una fatica incessante. La nota dolce era questa grande cucina dove due o tre generazioni si radunavano,la solidarietà,le feste religiose nella vecchia pieve con l’bito più bello conservato gelosamente per le occasioni, i primi amori la complicità e la purezza. Le condizioni di quei “volti crepati dall’aria e dal sole” erano comuni sia al nord che del sud indistantamente, c’è il marito di mia sorella ha la tua stessa età Luigi, vissuto fino all’età di 10 anni in un paese sperduto della Calabria racconta aneddoti che sembrano riportarci indientro di un centinaio d’anni anche per la crudeltà legata ai caporali, a quelli che facevano l’interesse del padrone e non perdonavano neppure il furto di un uovo. Incredibele pensare ad un bambino scalzo che a mattino ancora notte infila quante più olive -cadute all’esterno- possano contenere le sue piccole mani in uno di quei sacchi di liuta che descrivi, venire scoperto e frustato da un omaccione a cavallo.. in realtà è passato pocò più di mezzo secolo…non è poi così tanto!

    20 Febbraio, 2010 - 8:10
  2. Clodine

    e chissà se lo fanno ancora, magari su quei poveri diavoli come è successo a Rosarno…chissà!

    20 Febbraio, 2010 - 9:08
  3. roberto 55

    Mi verrebbe da dirti, caro Luigi, che, se non avevi mai avuto l’occasione di vedere questo film, hai, così, colmato una grave lacuna cinematografica: “Riso amaro”, infatti, è, per me, uno dei massimi capolavori, tra le pellicole italiane del dopoguerra (il film è del 1949), e Giuseppe De Santis è stato, di quella grande ed ineguagliata stagione, regista, forse, non pienamente valutato come avrebbe meritato.
    Di quell’opera colpisce – se mi si permette questa breve digressione – la capacità di De Santis di fondere i modelli cinematografici “americano” (ad esempio, la figura del protagonista “cattivo”, impersonato da Vittorio Gassman) e “sovietico” (le “scene di massa” delle mondine, e sguardo “epico” di Raf Vallone, quasi un eroe del realismo socialista di Sergej Ejzenstejn) con il linguaggio del cineromanzo italiano, in un dramma popolare che, non a caso, riscosse grande successo (sia di critica che di pubblico) in patria ed all’estero.
    E, poi, diciamolo !, la scena di Silvana Mangano che, bella e sensuale come non mai, balla il boogie-woogie è, per me, un autentico “cult”.
    Mi piacerebbe, Luigi, leggere le tue impressioni.

    Buon pomeriggio a tutti !

    Roberto 55

    20 Febbraio, 2010 - 18:08
  4. Una cugina della mia mamma aveva una campagna grandissima ( si diceva così per un grande appezzamento di terreno) e lì ho trascorso alcune delle giornate più belle della mia infanzia. Non “facevano” i proprietari ma lavoravano insieme ai loro braccianti ed anche noi bambini ci sentivamo importanti ad aiutare. Il nostro compito era mettere i cocci di creta sui carciofi,quando si annunciava il freddo, oppure togliere i boccioli in più dai garofani,per far crescere un fiore migliore, o ancora contare da 1 a 50 gli altri fiori sui tavoli, per formare i mazzi da mandare al mercato.
    Ma ricordo anche la pioggia – come dice Luigi – che ci faceva afferrare i sacchi di iuta, sempre pronti, per correre verso casa dal terreno o per porre al riparo quanto era disteso sull’aia.
    Ah! Luigi! che ricordi!…..sei riuscito ad aprire uno di quei cassettini che fanno ricordare la felicità allo stato puro……….un bacio per questa tua capacità….

    20 Febbraio, 2010 - 18:10
  5. Credo che i braccianti della zia venissero ricompensati con i soldi, non saprei dire.
    Di sicuro ricordo le tavolate apparecchiate dove ci si sedeva tutti insieme, alle 10 del mattino (loro lavoravano già da 4 ore), e la chiamavano colazione ( pane, pomodori,salami,tutti i tipi di sottoli e sottaceti,formaggi…..) e poi prima che il giorno terminasse, di solito tra le 17 o le 18 estive, una cena ricchissima seppur cucinata spesso con i prodotti della terra circostante. E sempre tutti insieme………

    20 Febbraio, 2010 - 18:16
  6. Clodine

    Con dispiacere devo dire di non aver l’esperienza di quel mondo an plein air che pure è sempre stato il mio più grande desiderio. Sentire racconti, spaccati di vita che riportano ad una esistenza così estranea al vissuto che si sperimenta nelle grandi città, ormai invivibili, ti lascia un non so che di stupore…Però, conservo i racconti di mio nonno bambino -classe 1885 [anno in cui morì Garibaldi giusto per avere un’idea] morto vecchissimo che ha avuto il mio papà, figlio unico,in età molto avanzata- i ricordi dicevo di una Roma splendida, dove nelle sere afose d’estate si godevano il ponentino sdraiati sugli scalini a ridosso di una Fontana de’ Trevi assolutamente accogliente come un piccolo salotto barocco, il cui unico rumore era lo scrosciare dell’acqua e piazza Navona un immenso luogo semideserto dove ritrovarsi per bere un bicchiere di fontana candida in compagnia di parenti e amici. Una Roma assolutamente surreale, fatta di tranvetti e carrozzelle, biciclette con la grande ruota, dove il tempo scorreva tra lo schiamazzo dei bambini e le voci dei venditori ambulanti. Che meraviglia, non riesco ad immaginarla una Roma così, ma credo fosse prerogativa di tutte le città italiana tra fine 800 primi 900.
    Ci tenevo fare un piccolo inciso circa il secondo post, quello delle 9,08, per sottolinere come il riferimento ai fatti di Rosarno fosse diretto esclusivamente al fenomeno del “neo-caporalato”, aspetto che riguarda tutte le regioni italiane e non solo la calabria o il popolo della calabria che adoro….

    20 Febbraio, 2010 - 19:44
  7. Clodine-Claudia Leo

    È stato un piacere passare di qui…
    p.s
    mio padre rimase figlio unico a seguito della morte dell’unico fratello che aveva, morto a 19 a seguito di una polmonite da virus.

    9 Gennaio, 2017 - 15:19

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