Benedetto Giuseppe Labre. Una santità donata dallo Spirito – attualissima oggi

Parrocchia di Santa Maria ai Monti – venerdì 29 marzo 2019

Benoît Joseph Labre (Amettes, Francia, 1748 – Roma 1783) è uno dei santi più straordinari dell’epoca moderna: pellegrino a vita, laico, senza casa e senza famiglia, vive per la strada e tra i più poveri per occuparsi solo della ricerca di Dio.
Un’esistenza in radicale contrasto con le idee dominanti nell’umanità e nella Chiesa del suo tempo ma anche di oggi. Visse appena 35 anni restando a tutti sconosciuto, ma la sua santità fu immediatamente riconosciuta dal popolo cristiano di Roma, a partire dai poveri tra i quali era vissuto.

Un camminante di Dio
Nasce in una famiglia di solida pratica cristiana, primo di 15 figli. Siamo nel Nord della Francia al confine con il Belgio, diocesi di Boulogne Sur Mer. Colpiti dalla sua sensibilità religiosa, i genitori lo affidano a uno zio prete, parroco di Erin, borgo vicino al paese natale, Amettes, perché lo prepari al seminario. Vi resta sei anni e mezzo, fino alla morte dello zio nel 1766. Viene poi affidato a un altro zio sacerdote, vicario a Conteville, dove resta fino verso i vent’anni quando inizia a bussare senza fortuna alla porta di vari monasteri trappisti e certosini: gli dicono che è troppo giovane, o troppo debole.
Viene infine accettato per sei settimane in una Certosa e per otto mesi in un monastero cistercense, dal quale viene dimesso dopo una grande febbre vinta a fatica. Nel congedarlo l’abate gli dice: “Figlio mio, non eravate destinato al nostro ordine. Dio vi aspetta altrove”. Interrogato per la causa di canonizzazione, un successivo abate informa che era restato loro novizio per otto mesi ed era stato “licenziato a motivo de travagli del suo spirito, che davano a temere del suo capo: buon soggetto, pio, faticatore, egli lasciava con molto rincrescimento la Casa”.
Combattè per tutta la vita con gli scrupoli di coscienza. Raggiunse una certa pace solo negli ultimi mesi della sua esistenza. I grandi rigori delle Certose e delle Trappe a lui parevano “troppo miti”. In vista dell’ammissione alla vita monastica apprese il latino, familiarizzò con la Scrittura, si esercitò nel canto liturgico. Gli ripugnava invece lo studio della Dialettica, cioè della filosofia. Nelle due brevi esperienze monastiche – scriverà il suo confessore e biografo Giuseppe Marconi, penitenziere a Sant’Ignazio – era colto da aridità spirituale e “credeva di più non vedere il suo Dio”.
L’altrove di Benedetto Giuseppe – preconizzato dal congedo dell’Abate che l’aveva avuto novizio – diventa il pellegrinaggio e sarà un contemplativo della strada. A partire dai 22 anni, si fa pellegrino in Francia, Germania, Polonia, Svizzera, Spagna dove arriva a Santiago di Compostela e Italia, dove si spinge fino a Santa Maria di Leuca. Si calcola che in 14 anni abbia percorso circa 30.000 chilometri. Arriva a Roma nel dicembre del 1770, passando per Loreto e Assisi. A Loreto andrà 11 volte, ad Einsiedeln (Santuario mariano della Svizzera tedesca) cinque volte.
In Roma anche peregrina da una chiesa all’altra, specie in quelle che praticano l’adorazione eucaristica e le devozioni mariane. Dorme al Colosseo, sotto il 43° arco, alla V stazione della Via Crucis: quella del Cireneo che aiuta Gesù a portare la croce.
Il mercoledì santo del 1783 si accascia sfinito sui gradini che sono davanti alla facciata di Santa Maria ai Monti, dove passava intere giornate in contemplazione dell’icona mariana che vi è custodita. Viene soccorso dalla famiglia del “macellaro” Francesco Zaccarelli: il figlio Pierpaolo lo porta nella loro casa di Via dei Serpenti e la figlia Anna lo sistema nel proprio letto.
Riceve l’Unzione degli infermi e spira la sera di quello stesso giorno. Aveva 35 anni. Acclamato santo dalla voce popolare, il processo per la canonizzazione viene avviato a un anno dalla morte. Sarà fatto beato nel 1860 da Pio IX e canonizzato nel 1881 da Leone XIII. La sua festa è posta al 16 aprile, che è la data della morte. La casa nella quale è morto dopo la canonizzazione diviene (nel 1885) un santuario che custodisce la sua memoria, affidato alle Oblate Apostole Pro Sanctitate (via dei Serpenti 2).

Testimoni del pellegrino
Il processo di canonizzazione avviato tempestivamente ha raccolto le testimonianze di chi l’aveva conosciuto: dai genitori ai confessori, ai frequentatori delle chiese e dei santuari dove si era fatto pellegrino, alle famiglie che l’avevano ospitato nei pellegrinaggi. In tanti luoghi vennero segnalate tracce del suo passaggio e della sua carità. Presto gli furono attribuite guarigioni.
Ecco alcune delle testimonianze raccolte nel processo di canonizzazione, o dai biografi, che aiutano a intendere il cercatore di Dio che fu Benedetto Giuseppe.
“Andava a piedi con l’abito meschino e cencioso, non mai variato per quanto variassero le stagioni […] e per viaggio da vero povero non curava i tempi rigidi e nevosi dell’inverno, né i caldissimi e molesti dell’estate; per lo più lasciando le vie battute si avviava per sentieri solitari con sommo stento per dover valicare fossi, monti, dirupi e vie rotte per le piogge. Contento di quel Dio che lo guidava […] dormiva per lo più sulla nuda terra e anche all’aria aperta”.
Scrisse il confessore Giuseppe Marconi che la voce popolare l’indicava come “il povero delle Quarantore”, tanta era la consuetudine di vederlo inginocchiato davanti al Santissimo esposto: “Non v’ era lontananza di luogo, non piogge sì dirotte, non freddo sì crudo, non caldo sì eccessivo che lo potesse trattenere, benché egli andasse mal coperto nel capo, mal vestito e difeso nei piedi. Passava egli le intere giornate genuflesso avanti al suo altare, e dall’esterna apparenza ben si notava l’interno incendio che gli ardeva nel cuore”.
“Restava in quella Santa Casa [di Loreto] così compreso dall’amor di Maria, che fu veduto in chiesa tutto intero il giorno, digiuno, contento del nutrimento spirituale che lo saziava, stando coll’amata sua madre Maria”. Nostalgico del santuario marchigiano, a Roma andava spesso nella chiesa di Santa Maria di Loreto al Foro Traiano.
“Al bisogno di cibo soddisfaceva con duri frusti di pane, e con erbe gittate per la via, alla sete con l’acqua; né mai dalla carità altrui, o dalle preghiere si lasciò indurre a usare più larga e salubre refezione” (così il cardinale Macchi nel “Breve Pontificio per la beatificazione del Venerabile Benedetto Giuseppe Labre”).
“Macilento com’era e squallido, se talvolta veniva fastidiosamente rigettato o schernito ed insultato dalla procace plebaglia, non solo non risentivasi, ma anzi tranquillo e lieto riceveva ogni ludribio e ogni ingiuria” (ibidem).
Non predicava ma molti attestarono che vederlo in preghiera era già un insegnamento. Si racconta che i sacerdoti che lo vedevano inginocchiato in fondo alla chiesa sentivano un inspiegabile fervore nel celebrare la messa, o nel predicare. Un connazionale pittore, André Bley, lo incontrò un giorno per Roma e lo supplicò a lungo di posare per lui: aveva bisogno di un modello per il volto di Cristo.
A Santa Maria in Aquiro la sua frequente presenza è ricordata nella prima cappella a destra: sulla balaustra un’iscrizione segna il punto dove si fermava a pregare. Tre tele lo raffigurano sulle pareti.
“Molti portavansi a bella posta in detta chiesa [della Madonna dei Monti], e si mettevan di proposito ad osservarlo, destandosi ne’ loro cuori affetti di compunzione nel mirarlo così innamorato e devoto di Maria Santissima”.
Dopo che era morto, cavarono dalla sua sacca sdrucita i libri che aveva sempre con sé: un breviario che usava tutti i giorni, l’Imitazione di Cristo in latino, il “Memoriale della vita cristiana” del domenicano Louis de Grenade, l’“Epistola di Gesù Cristo alle anime fedeli” del certosino Jean Juste Lanspergio, un “Esercizio della Via Crucis”, l’Ufficio dei sette dolori della Vergine. Insieme a questi libri c’erano delle immagini: il Bambino dell’Ara Coeli, la Vergine di Loreto, il Salvatore che porta la croce. C’erano anche delle monete d’argento e di rame, un almanacco strappato, bucce d’arancio e di limone, croste di pane secco.

Due lettere ai genitori
Del 2 ottobre 1769 è la lettera che Benedetto Giuseppe scrisse ai genitori quando dovette lasciare la Certosa di Montreuil-sur-Mer: «Vi informo che non avendomi i Certosini giudicato adatto alla loro condizione, ne sono uscito il due di ottobre; considero la cosa come un ordine della Divina Provvidenza che mi chiama ad uno stato più perfetto, essi stessi hanno detto che era la mano di Dio che mi ritirava da loro. Dunque, mi incammino verso la Trappa, questo luogo che desidero tanto, e da tanto tempo […]. Vi prego caldamente l’uno e l’altra di darmi la vostra benedizione affinché il Signore mi accompagni. Io pregherò il buon Dio per voi, tutti i giorni della mia vita, soprattutto non vi preoccupate per me. Anche se avessi voluto restarvi, non mi avrebbero ricevuto, per questo mi rallegro molto, perché vedo che l’Onnipotente mi guida […]. Il buon Dio che ho ricevuto prima di uscire mi assisterà e mi condurrà nell’impresa che Lui stesso mi ha ispirata. Io avrò sempre il suo timore davanti agli occhi e il suo amore nel cuore […]. Ho l’onore di essere, con profondo rispetto, vostro umilissimo servitore. Montreuil, 2 ottobre 1769. Benoît-Joseph Labre».
Fatti 800 chilometri a piedi, arriva alla Trappa di Sept-Fonts il 30 ottobre 1769. L’11 novembre prende l’abito di novizio con il nome di frate Urbano. Otto mesi più tardi è obbligato a uscirne e così cessa la sua ricerca della via monastica. Benedetto Giuseppe intuisce che il suo monastero, anzi il suo eremo sarà la peregrinazione e s’incammina per Roma. Dal Piemonte scrive una nuova lettera ai genitori il 31 agosto 1770: «Mio carissimo padre, mia carissima madre. Voi avete saputo che sono uscito dall’abbazia di Sept-Fonts e senza dubbio siete in pena di sapere quale strada io ho preso da allora, e quale stato di vita io desidero abbracciare […]. Ho preso la via di Roma. Adesso sono quasi a mezza strada […]. Non vi preoccupate per me, io non mancherò di mandarvi mie notizie, vorrei molto averne di vostre e dei miei fratelli e sorelle, ma questo non è possibile adesso perché non sto fisso in un luogo. Non mancherò di pregare Dio per voi ogni giorno, vi chiedo perdono di tutte le pene che posso avervi procurato e vi prego di accordarmi le vostre benedizioni affinché Dio benedica i miei progetti. È per ordine della Provvidenza che ho intrapreso questo viaggio».
“L’Onnipotente mi guida” ed “È per ordine della Provvidenza che ho intrapreso questo viaggio” sono i due testi scritti lasciati da Benedetto Giuseppe che meglio ci aiutano a intendere la sua insolita chiamata alla santità. La consapevolezza che ebbe fin dall’inizio della via unica che avrebbe battuto, “ispirata dal buon Dio”.

Riconosciuto santo dal popolo
Il grido di santità – “E’ morto il santo – il penitente del Colosseo” – fu così rapido che le due parrocchie, San Salvatore ai Monti e San Martino ai Monti, si disputarono il diritto ad averne la tomba: la casa dove era morto dipendeva dall’una, l’ospizio dell’abate Paolo Mancini, sua ultima residenza, dall’altra [tre anni prima della morte, l’abate l’aveva convinto a prendere alloggio, per recuperare forze, nell’ospizio ch’egli aveva realizzato presso la chiesa di San Martino].
Dalla sera del giovedì santo fino alla domenica di Pasqua il corpo fu esposto alla Madonna dei Monti. Tanta era l’affluenza di popolo che i soldati corsi che montavano la guardia alle porte di Roma furono chiamati da una vicina caserma per assicurare il servizio d’ordine.
La tomba fu sistemata “in quella chiesa da lui più d’ogni altra frequentata, ed in quella parte medesima, in cui era stato veduto per più anni starsene orando genuflesso” (Giuseppe Marconi).
Per intendere il valore del riconoscimento popolare spontaneo della santità di Benedetto Giuseppe occorre dare un’occhiata alla situazione del Papato negli anni della stagione romana del nostro folle di Dio.
Egli fu un uomo di nuda fede in un tempo di religione mondanizzata. Anche la scelta di farsi povero, che tanto l’avvicina a Francesco d’Assisi, va intesa come radicale spoliazione da tutto ciò che non è di aiuto alla ricerca di Dio.
Giunto a Roma – come già detto – nel 1770, Benedetto Giuseppe – ancora buon camminatore – riparte nel 1793 per compiere il Cammino di Compostela, passando per Manresa, in Catalogna, per pregare nella Grotta di Ignazio di Lojola e per venerare a Saragoza la Virgen del Pilar. Rientrerà a Roma il 3 aprile del 1774.
Mentr’egli pieno di commozione visita in Spagna i luoghi di Ignazio di Loyola, Clemente XIV sopprime la Compagnia di Gesù: l’ultimo atto è dell’agosto 1773. Il generale dei Gesuiti, Lorenzo Ricci, viene imprigionato a Castel Sant’Angelo e muore in carcere. Il Papa soppressore muore il 22 settembre 1774 e per eleggere il successore, Pio VI, dovranno passare quasi cinque mesi, con ogni interferenza dei sovrani europei, in un tripudio di lotte tra ordini religiosi e cordate cardinalizie.
Siamo in una Roma papale in piena decadenza, che verrà presto risvegliata dallo tsunami della rivoluzione francese e di Napoleone, che imprigionerà i Papi Pio VI e Pio VII. E’ sullo sfondo di quella stagione del Papato che dobbiamo collocare il nostro Benedetto Giuseppe, sempre pellegrino, in preghiera, scrupoloso di ogni osservanza, tanto che fu sospettato di giansenismo. Nella Causa di canonizzazione fu avanzato il dubbio “che potesse essere infetto degli errori dei Giansenisti” e per questo avesse “lo spirito spaventato”.
La lontananza e insieme il pieno rispetto per quella Roma papale li manifesterà in pienezza rispondendo così a chi lo rimprovererà per non essere andato a Porta del Popolo a festeggiare Pio VI in partenza per Vienna, il 27 febbraio 1782, avendo preferito fare visita a un malato presso il Colosseo: “A che serve vedere il Papa? Bisogna pregare per lui”.

Una santità donata dallo Spirito: la più preziosa
Benedetto Giuseppe è stato un “folle di Dio”, simile a quelli della tradizione ortodossa, quasi gemello all’autore dei “Racconti di un pellegrino russo”, che un secolo più tardi peregrinerà a Oriente come Benedetto a Occidente. Non era un vagabondo e non era un barbone. Era piuttosto un monaco errante. Andava cercando l’Assoluto. Potrebbe essere il patrono di chi cerca la propria via. Di chi attende un segno.
Non mendicava. Raramente chiedeva l’elemosina, e solo per aiutare altri, più bisognosi. Non mendicava pane, mendicava Dio. “Benedetto Labre, girovago e mendicante di Dio” lo invocano le “Litanie di Bose”.
Monaco della città o del cammino, potrebbe anche essere una sua descrizione. E santo della strada. “San Benedetto Labre fu cercatore di Dio sulle strade della terra. La solitudine fu la sua vocazione, foss’egli smarrito fra sentieri selvaggi o fra il popolo di Roma. La contemplazione dovette essere tutta la sua vita nel tempo che precedette la beatitudine eterna” (Jacques e Raissa Maritain).
Ma forse la parola più penetrante sulla santità donata dallo Spirito di cui fu portatore Benedetto Giuseppe la scrisse la mamma di Benedetto, Anne Barbera, a una signora di Loreto, Barbara Sori, che aveva più volte alloggiato il pellegrino: «Signora, non dimenticheremo mai tutto quello che avete fatto per il nostro caro figlio Benoît-Joseph al momento dei suoi pellegrinaggi a Loreto. Voi mi dite che per me è consolante di aver dato la vita a questo figlio e ne convengo con voi, signora, ma ho motivo di inorgoglirmene? Affatto. Io riconosco umilmente che un padre e una madre non sono che i vili strumenti di cui Dio si serve per dare la vita fisica ai loro figli. Per questo se Benoît-Joseph, il nostro caro figlio, si è santificato sulla terra con la pratica dell’umiltà e di altre virtù cristiane, io confesso candidamente che la condotta o piuttosto la vita edificante ch’egli ha condotto fin dall’infanzia era il puro effetto della grazia e per conseguenza, solo il lavoro dello Spirito Santo […]. Anne Barbe Gensire – Amettes – 20 gennaio 1785».
E’ straordinaria la consapevolezza di questa madre e merciaia che in una lettera di fine Settecento mostra una perfetta intuizione del concetto di “santità donata dallo Spirito” che il teologo Hans Urs von Balthasar formulerà due secoli più tardi, nel volume “Sorelle nello Spirito. Teresa di Lisieux e Elisabella di Digione” (1970), per distinguerla dalla “santità abituale”, educata dalla Chiesa.

L’8 dicembre 1881, giorno della canonizzazione di Benedetto Giuseppe, il poeta francese Paul Verlaine, già pellegrino ad Amettes nel 1877, dedicò un veggente sonetto al nuovo santo intitolato Saint Benoît-Joseph Labre
(Jour de la canonisation), che entrò poi nella raccolta “Amour” del 1888. Ne segnalo questi due passaggi che attestano un’ottima percezione del dono sorprendente e risvegliante che Benedetto Giuseppe fu per l’umanità del suo tempo: Come è buona la Chiesa in questo secolo di odio, / d’orgoglio e d’avarizia e di tutti i peccati, / a esaltare oggi il nascosto fra i nascosti, / il dolce fra i dolci dinanzi all’ignoranza umana / […] che libero dai sensi, / fece di Povertà la sua sposa e la sua regina / come un altro Alessio, come un altro Francesco, / e fu il Povero obbrobrioso e angelico, che del Vangelo / praticò insieme la dolcezza e lo scandalo!

Attualità di Labre nel nuovo millennio
Un santo antico ma anche anticipatore. Interrogato su come riuscisse a superare la notte oscura della fede di cui faceva esperienza, rispondeva: “Allora io unisco la mia desolazione a quella di Gesù nell’Orto degli Olivi” (testimonianza processuale del padre Temple). In queste parole avvertiamo un’anticipazione di Teresa di Lisieux e addirittura di Chiara Lubich, maestra dell’amore a “Gesù abbandonato”.
Avendo narrato a un confessore che nel meditare la Passione di Cristo si sentiva “sollevato verso la Trinità”, richiesto di dire che cosa conoscesse di quel mistero, rispose: “Io non conosco niente ma mi sento trasportato” (testimonianza processuale del padre Almerici). Qui si avverte qualcosa di Santa Elisabetta di Digione che dalla Trinità si sentiva “portata in Paradiso”.
Interrogato su come riuscisse a non disperare della salvezza, pur trovandosi spesso nella prova della fede, rispondeva: “Il primo movimento del mio cuore è di persuadermi che voi, mio Signore Beneamato, non siete lontano da me come i miei difetti meriterebbero”. E confidava che essendo “Dio tanto buono e tanto amorevole, basta dimandargli di cuore ciò che spetta alla salute dell’anima e al bene del corpo per ottenerlo” (ibidem). Qui pare di sentire Papa Francesco sulla Misericordia divina che sempre e tutto perdona.
Concludo indicando i singolari insegnamenti che possiamo trarre dalla figura di questo santo fuori da ogni modello e tradizione, che in Roma possiamo facilmente conoscere e amare, visitando la sua tomba in Santa Maria ai Monti, i luoghi dove passò e il santuario che gli è dedicato nella casa del macellaro Zaccarelli dove morì:
1. che la santità di Benedetto Giuseppe, colta innanzitutto dai poveri in mezzo ai quali era vissuto, ci attesta che mai in nessuna epoca il Popolo di Dio ha smarrito il sentimento di Cristo povero, neanche in epoche nelle quali quel sentimento non ispirava la vita della Chiesa gerarchica;
2. che quella santità attestata da un povero tra i poveri potrebbe trovare una rinnovata attualità nella Chiesa del Vaticano II e di Papa Francesco che “riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del proprio fondatore, povero e sofferente” (Lumen Gentium 8,3).