Come ho conosciuto e che cosa ho imparato da Madre Teresa

 

Ho incontrato la prima volta madre Teresa a metà degli anni Settanta, a San Gregorio al Celio, in Roma: aveva appena aperto la prima casa romana delle sue suore, e aveva scelto per loro il pollaio dei monaci camaldolesi.

Il priore di San Gregorio, don Giabbani, si vergognava di quella sistemazione e mi spiegava: ‘Le abbiamo offerto delle stanze, ma lei ha detto che erano troppo comode; ha visto il gallinaio che non usiamo più e ha voluto quello’.

Era una costruzione bassa, in mattoni bucati e lamiere, col pavimento in cemento. Lì l’incontrai. ‘Le mie sorelle sono povere e abituate a tutto, vengono dall’India. Il pollaio sarà più che sufficiente’, questo è tutto ciò che mi disse.

L’ho poi seguita e ascoltata in decine di circostanze pubbliche: al Congresso eucaristico di Milano, nel 1982; nei vari sinodi in Vaticano; quando le fece visita il papa a Calcutta. Sempre l’ho udita dire parole semplici e vere, come quelle sul pollaio. Di un anno prima della morte (avvenuta nel settembre del 1997) è questa parabola, che raccontò al principe Michele di Grecia e che tanto somiglia alla storia del pollaio: ‘L’altra notte ho sognato che ero alle porte del paradiso. E san Pietro ha detto: torna sulla terra, qui non ci sono bassifondi’.

Negli anni mi sono fatto l’idea che madre Teresa non la dovevo cercare nelle parole che diceva, ma nei gesti e nelle opere. Le sue parole hanno una nudità che stordisce: la sua opera dà senso a quello stordimento.

Grazie a quell’opera, madre Teresa resterà come l’incarnazione più convincente, nella nostra epoca, del genio della carità evangelica; tutti l’hanno capita, in morte l’hanno pianta i cristiani delle varie confessioni, i laici d’ogni paese, capi di Stato e di Governo, dall’India a Clinton a Eltsin, indù e musulmani.

‘Dove guarda, vede’, scrisse di lei Pier Paolo Pasolini, in “Odore dell’India”, dopo che la incontrò a Calcutta nel 1961, quando non era ancora nota in Italia. Il dono dello sguardo era all’origine della sua genialità nell’amore: vedeva prima di altri il fratello che era nel bisogno e subito lo soccorreva, senza giudicare, senza lasciarsi bloccare dalle frontiere o dalla mancanza di mezzi. E se non lo poteva soccorrere, pativa con lui.

L’hanno criticata per questa sua fretta di portare aiuto, anche improvvisando. Hanno detto che nel suoi ospizi non c’erano abbastanza medici e medicine. Credo sia vero; ma la vedo come una lode, non come una critica! Che farai a Calcutta, o a Beirut sotto i bombardamenti, o a Cernobyll dopo l’esplosione della centrale, se aspetti di avere l’attrezzatura giusta per soccorrere qualcuno?

Perché questo è il punto: madre Teresa è andata in tutti questi luoghi impossibili e in tanti altri; è corsa per il mondo, piccola e storta, alla ricerca di ogni sofferente, come non le bastassero quelli dell’India, senza mai calcolare se le bastavano le forze, e senza fare preventivi. Ha portato le sue suore in novantacinque paesi, ed è morta con il rimpianto di non poter aprire delle case in Cina: due volte aveva chiesto il permesso, e due volte gliel’avevano negato.

La tendenza ad andare oltre ogni confine, alla ricerca dei fratelli, la caratterizza fin dall’inizio: quand’era una giovane missionaria a Calcutta, lasciò il convento per mettersi a servire i moribondi sulla strada. Da europea si è fatta indiana e ha portato le sue suore indiane a soccorrere i poveri del Nord del mondo. Ha lasciato il comando della sua congregazione a una compagna venuta dall’induismo: suor Nirmala. Il rovesciamento evangelico dei ruoli, personali e continentali, era la sua specialità

Quando nelle metropoli dell’Occidente è esploso l’Aids, lei ha inventato le case di accoglienza iniziando da New York. E ha battuto sul tempo ogni altra istituzione: le bastò vedere che i malati di Aids erano i più poveri tra gli uomini. È corsa a Beirut nel momento peggiore della guerra accompagnata da due sole sorelle: non avevano ancora una casa e già cercavano i bambini tra le macerie dei bombardamenti. La sentii dire in televisione: ‘Non ero stata mai, prima d’ora, nel mezzo di una guerra. Mi chiedo che cosa provino quando fanno questo. Non capisco. Sono tutti figli di Dio, perché lo fanno?’.

Lo stesso stupore evangelico le dettava queste parole scandalose sull’aborto: ‘Se vi è un bambino che non desiderate, o non potete curare, o educare, date quel bimbo a me. Non voglio rifiutare nessun bambino’.

È stata la prima a inserire delle suore negli ospedali sovietici, dopo l’esplosione di Cernobyll. E la prima a entrare in Albania, quando il regime ateo della sua patria d’origine era ancora in piedi. Persino in Vaticano ha fatto qualcosa che prima non si faceva: una mensa per i poveri nella casa del papa.

Dove guardava vedeva e dove vedeva soccorreva. Ha pure detto questo: ‘Vedo Dio in ogni essere umano. Quando lavo le piaghe dei lebbrosi sento che sto curando il Signore. Non è meraviglioso?’.

“Io non sono che una piccola matita nelle mani di Dio” è un’altra sua affermazione chiave. Non si considerava una suora di vita attiva: “Siamo delle contemplative che vivono in mezzo al mondo. […] La nostra vita deve essere una preghiera continua”. Vedeva il servizio dei poveri come una naturale conseguenza della preghiera e del dialogo con Dio.

Ha conosciuto la notte oscura di cui parlano i mistici, come attestano le lettere al direttore spirituale pubblicate dopo la morte. In una di queste lettere scriveva di non sentire “la presenza di Dio né nel suo cuore né nell’Eucaristia” e ancora: “Nella mia anima sperimento proprio quella terribile sofferenza dell’assenza di Dio, che Dio non mi voglia, che Dio non sia Dio, che Dio non esista veramente”. Ma ebbe il dono di non abbandonare mai la ricerca del Signore che le si nascondeva: “Ho cominciato ad amare le mie tenebre perché credo che siano una parte, una piccola parte delle tenebre di Gesù e della Sua pena sulla terra”.

Ero a Calcutta nel febbraio del 1986, quando la vidi prendere per mano il papa e guidarlo a vedere i moribondi del suo dormitorio. Questa è madre Teresa: il genio femminile sposato alla carità evangelica, che guida la chiesa verso il mondo del poveri.

L’attualità del suo insegnamento sulla via della carità ha avuto alto riconoscimento dai Papi che l’hanno incoraggiata, sostenuta, riconosciuta santa, proposta come modello di carità alla Chiesa e all’umanità di oggi. La teologia della carità indicata da Papa Benedetto (“Deus Caritas est”) e la pastorale della misericordia predicata da Papa Francesco erano state in qualche modo precedute e prefigurate dalla sua azione caritativa.

Proclamandola santa il 4 settembre 2016, Francesco la propone come patrona della forma di carità più diffusa nel nostro tempo, quella del volontariato: “La sua missione nelle periferie delle città e nelle periferie esistenziali permane ai nostri giorni come testimonianza eloquente della vicinanza di Dio ai più poveri tra i poveri. Oggi consegno questa emblematica figura di donna e di consacrata a tutto il mondo del volontariato: lei sia il vostro modello di santità”.

Papa Bergoglio ne aveva già parlato con grande ammirazione, accostandola a Francesco d’Assisi, nell’enciclica “Lumen fidei” (2013), al paragrafo 57: “Per quanti uomini e donne di fede i sofferenti sono stati mediatori di luce! Così per san Francesco d’Assisi il lebbroso, o per la Beata Madre Teresa di Calcutta i suoi poveri. Hanno capito il mistero che c’è in loro”.

Madre Teresa come testimone della evangelizzazione che può venirci dai poveri: un’indicazione forte, questa del Papa delle periferie, per la comprensione della piccola grande santa di Calcutta.