Educare le comunità a essere centri di accoglienza

 

Relazione di Luigi Accattoli al Seminario formativo

della Caritas diocesana di Viterbo

Bagnoregio 25 giugno 2017 – ore 10.00

 

Tratteremo di tre centralità: della carità nel cristianesimo, del servizio della carità nella vita della Chiesa, dell’accoglienza nel servizio parrocchiale della carità. Delle prime due brevemente, della terza più a lungo. In coda metto tre appendici per l’approfondimento.

 

  1. Centralità della Carità e del ministero della Carità

La centralità della carità nel cristianesimo la indico con un richiamo all’angelus del 9 giugno 2013 quando Francesco disse che Dio è “tutta misericordia e pura misericordia”; e a un altro angelus del 7 giugno 2009 quando Benedetto aveva affermato che “Dio è tutto e solo amore”. I due Papi usano lo stesso linguaggio per proporre lo stesso annuncio sostanziale all’umanità di oggi.

La continuità profonda tra Benedetto e Francesco su questa terra di mezzo della carità e della misericordia ha avuto una manifestazione probante nel paragrafo 179 della “Gioia del Vangelo” dove a fondamento della “assoluta priorità dell’uscita verso i fratelli” Papa Bergoglio cita uno dei testi maggiori – e più trascurati – del predecessore, il motu proprio “Intima Ecclesiae natura” (dicembre 2012) sul “servizio della carità” visto come irrinunciabile alla pari di quello della liturgia e della predicazione: «Anche il servizio della carità è una dimensione costitutiva della missione della Chiesa ed è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza».

“Servizio della carità” potremmo intenderlo come “ministero della carità” e forse questa dicitura ci aiuta a vederne l’importanza.

 

  1. Mettere la carità al centro della vita parrocchiale

Applicando alle Caritas parrocchiali questi forti principi possiamo dire che esse hanno il compito di aiutare l’intera comunità a mettere la carità al centro della sua testimonianza. Ovvero a promuovere la testimonianza comunitaria della carità.

Da dove partiamo? Facendoci portavoce – nella comunità – dei bisogni dell’umanità circostante. Aiutando ad aprire gli occhi su di essa. Invitando a vederla: se c’è intorno a noi il racket dei questuanti e lo sfruttamento dei bambini nella questua, se ci sono luoghi dello spaccio di droghe, se c’è prostituzione minorile.

Non considerare improprio e da evitare nessun dramma umano che si svolga intorno. E dopo che l’avremo visto, che faremo? Parleremo con il maresciallo dei carabinieri, cercheremo di segnalarlo alle istituzioni. Prenderemo contatto con le cooperative sociali operanti nel territorio della parrocchia: se sono vere, se sono speculative.

Realizzare insomma una vigilanza dello sguardo e una visita guidata permanente all’umanità ferita circostante che faccia del nostro ambiente un luogo dove non capiti – poniamo – che muore qualcuno in solitudine estrema e nessuno se ne accorge e il telegiornale intervista i vicini che dicono: “Non ne sapevamo nulla”.

La visita alle ferite andrebbe proposta come iniziativa verso i ragazzi del dopo cresima. “Non si sa che fargli fare”: mettiamoli in contatto con l’umanità tribolata.

 

  1. L’accoglienza come motto della vita di parrocchia

La parrocchia promuove la testimonianza comunitaria della carità ponendosi come luogo e maestra di accoglienza. Di quell’arte della “relazionalità” di cui avete trattato ieri.

Possiamo guardare alla comunità parrocchiale come a una famiglia allargata che accoglie ogni umanità, dando corpo al testamento familiare di Cristo sulla croce: “Ecco tuo figlio – ecco tua madre” (Giovanni 19): le ragazze madri, i bambini senza genitori, le donne sole con figli, gli uomini restati soli dopo il fallimento del matrimonio, i disabili fisici e psichici, i giovani senza lavoro e quelli che lottano contro una dipendenza, le persone non sposate, le vedove e i vedovi, barboni e mendicanti, gli anziani e i malati che non hanno figli o non sono aiutati dai figli, gli stranieri con permesso di soggiorno e i clandestini, i devianti d’ogni tipo, chi ha sperimentato il fallimento familiare o economico, o il carcere.

La parrocchia è maestra dell’accoglienza misericordiosa e dell’integrazione delle persone fragili. Tende ad accogliere tutti e ad aiutare ciascuno nelle necessità primarie e nella possibilità di partecipare alla comunità ecclesiale, secondo la regola del “bene possibile” (“La Gioia dell’amore” 308).

 

  1. Come si articola il servizio dell’accoglienza

Nella vita d’una parrocchia animare significa rispondere alla domanda: chi può dare risposta a questo bisogno?

Case famiglia – accogliere in casa – donare una famiglia a chi non ce l’ha.

Centro di ascolto parrocchiale: accoglienza, ascolto, orientamento, accompagnamento delle persone in difficoltà. Il Centro di ascolto è un’antenna sul territorio che capta attraverso l’ascolto delle persone i bisogni emergenti.

Magazzino alimentare parrocchiale – raccolta alimentare – emporio dei cibi – mensa.

Servizio legale e psicologico. Sportello per le vittime di violenza e stalking.

Non si può fare tutto: ma qualcosa facciamo?

 

  1. L’accoglienza dei rifugiati come nuova urgenza

Questa accoglienza si pone come impegno specifico del momento che stiamo vivendo. Ne tratto in dettaglio narrativo nell’appendice 1.

Tweet del Papa: “L’incontro personale con i rifugiati dissipa paure e ideologie distorte e diventa fattore di crescita in umanità” (20 giugno 2017).

[Vedi uno sviluppo di questi concetti in chiave di preghiera nell’appendice 3]

 

  1. Accoglienza come attività e come metodo – ovvero come relazionalità

Prima che alle singole accoglienze si dovrà prestare attenzione all’accoglienza come metodo o paradigma.

Procederemo pragmaticamente, prestando attenzione – poniamo – alle sofferenze e a ogni ingiustizia anche quando non si hanno le risorse né le parole per andare oltre l’espressione della solidarietà. Si attesta comunque fratellanza. Si offre un abbraccio. Si fa sentire qualcosa del calore di famiglia che caratterizza la comunità della parrocchia.

 

  1. L’accoglienza di una parrocchia in uscita

“La Chiesa è chiamata a essere sempre la casa aperta del Padre. Uno dei segni concreti di questa apertura è avere dappertutto chiese con le porte aperte. Così che, se qualcuno vuole seguire un mozione dello Spirito e si avvicina cercando Dio, non si incontrerà con la freddezza di una porta chiusa”: “La gioia del Vangelo” 47.

La parrocchia in uscita non cerca di tenere lontani i disturbatori ma accoglie chi bussa e va a cercare chi non si fa vedere.

La parrocchia accoglie e osserva l’umanità circostante. Dall’esperienza della carità prende argomenti e coraggio per farsi voce critica nella città. [Vedi appendice 2]

 

  1. L’accoglienza dei non cristiani si fa evangelizzazione

Non per proselitismo ma per attrazione, cioè per illuminazione e contagio.

C’è un gruppo biblico, o liturgico, o culturale, o dei “nuovi media”: proporre che ammetta non praticanti e non credenti comunque interessati, e li cerchi; o alterni alle proprie riunioni delle altre aperte ai partecipanti non abituali e non interni. “Ma quelli non vengono”: si tratterà di creare occasioni cinematografiche, ricreative, conviviali perché vengano. Si offre una pizza ai partecipanti, si programma la visione di un film.

Lo stesso e ancor più si potrebbe tentare con il gruppo caritativo, o con il Centro Caritas: studiarsi di assistere, per ogni nostro povero, un povero sconosciuto, non cristiano. Nel giro delle straniere vi sono prostitute minorenni, o mamme sole con bambini: le agganceremo. Inviteremo a unirsi alle nostre attività persone lontane, ma che potrebbero avere un interesse personale, culturale, sociale ad aiutare il prossimo.

Uno spirito di accoglienza cordiale che non condanna (“La Gioia del Vangelo” 165) potrà guidarci nel contatto con i non cristiani.

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Tre appendici

  1. Ospitare i rifugiati in parrocchia

Sono il portavoce del gruppo “Ospitare i rifugiati” della mia parrocchia romana. Tra parrocchie e istituti religiosi sono 38 le esperienze che sono state avviate in Roma in risposta all’invito del Papa (6 settembre 2015). Costruire il gruppo è stato facile. I locali c’erano ma bisognava attrezzarli e arredarli. La spesa non è stata grande, il volontariato ha risolto i problemi. Il gruppo è passato rapidamente da una decina di soci iniziali a venti, a quaranta, ora siamo una sessantina. Si riunisce all’incirca una volta al mese, per posta elettronica si inviano appelli e rendiconti. La raccolta del denaro è finalizzata alle varie voci dell’ospitalità: cibo, vestiario, arredo abitativo.

Ci siamo attenuti alle direttive del Vicariato e della Caritas romana che prevedevano di mettersi a disposizione della Prefettura, la quale valuta l’adeguatezza dei locali e assegna i richiedenti asilo a seconda dei posti letto disponibili. Eravamo pronti a novembre 2015 ma la prima ospite l’abbiamo avuta ad aprile 2016. Come in tutte le parrocchie e le case religiose e i santuari che si erano detti disponibili ci siamo interrogati: è giusto seguire questa via della legalità, che comporta burocrazia e formalità, o non sarebbe più rispondente alla vocazione cristiana il rischio di agire in campo aperto?

Obiezione in parrocchia: ci occupiamo degli stranieri, e gli italiani che non riescono a pagare l’affitto? Questa è stata la nostra risposta: dacci una mano, inizia a pensarci tu, noi collaboreremo. La carità è inventiva e flessibile. Di suo non ha protocolli, ma dove questi sono necessari non ha difficoltà a rispettarli. Penetra in ogni fessura, anche in quella burocratica.

Nella modesta risposta all’appello papale non va trascurato il beneficio del coinvolgimento delle persone in un’attività che prima era sconosciuta o quasi alle parrocchie. Di questo beneficio ho esperienza diretta.

 

  1. La Caritas soccorre ma anche parla

Scrivevo nel mio blog – in data 9 12 2014 – un articolino scherzoso e serio intitolato “Appello all’ottimo e inascoltato direttore della Caritas romana Enrico Feroci”: “Ah Feroci, vedi de fatte feroce! Devi disturbare, devi puntare il dito, devi gridare in nome delle migliaia di persone che fanno volontariato nel silenzio e nel dileggio. Una Caritas che non parla alla città è una carità dimezzata”.

Era esploso lo scandalo di Mafia Capitale e io mi chiedevo come fosse possibile che nessuno si fosse accorto di quel marcio. Mi rispondevo che i veggenti c’erano e avevano parlato ma la loro parola non era ascoltata. E tra loro vi era la Caritas romana che il 12 novembre aveva pubblicamente accusato le “cooperative senza scrupoli” che si occupano di Rom e di rifugiati: tutto era detto ma nessuno aveva udito.

Quel comunicato della Caritas – secondo me – costituiva insieme un titolo di vanto, per aver visto; e di demerito, per non aver ottenuto ascolto.

Mi chiedevo: perché la Caritas romana non è ascoltata? Perché non ha voce pubblica da quando non c’è più Di Liegro (1928-1997) alla sua guida? Perché nel febbraio del 2014 il Vicariato non ha ricordato il quarantennale del Convegno sui mali di Roma del febbraio del 1974, che fu il capolavoro di don Luigi? Perché l’afasia pubblica della Caritas perdura anche sotto Papa Francesco?

Vi è stata poi – il 22 dicembre 2014 – una “Preghiera per Roma” in Santa Maria Maggiore durante la quale il cardinale Vicario ebbe a dire: “Noi cristiani di Roma siamo troppo silenziosi”. E’ stato a seguito di quella “Preghiera per Roma” che ho scritto un articolo apparso sul “Corriere” romano il 24 dicembre 2014 con il titolo “La carità dimezzata” per il quale poi fui invitato a un incontro della Caritas regionale a Ferentino nel maggio del 2015.

Voi sapete meglio di me che la Caritas non è pura beneficenza. Tutti condividiamo l’idea che la carità è più ampia dell’elemosina: “Siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia, perché non avvenga che si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia; si eliminino non soltanto gli effetti ma anche le cause dei mali; l’aiuto sia regolato in modo che coloro i quali lo ricevono vengano, a poco a poco, liberati dalla dipendenza altrui e diventi sufficienti a se stessi” (“Apostolicam actuositatem” 8: L’azione caritativa).

Benedetto XVI, “Intima Ecclesiae natura” 9: “Il Vescovo favorisca la creazione in ogni parrocchia d’un servizio di Caritas che promuova anche un’azione pedagogica nell’ambito dell’intera comunità per educare allo spirito di condivisione e di autentica carità”. Quel documento è prezioso per voi: lo segnalavo al paragrafo 1 della relazione.

Di Liegro ci ha insegnato che la Caritas ha un ruolo pubblico in cui non può essere surrogata da nessuno: un ruolo conoscitivo e di denuncia che fa parte integrante della sua missione educativa. Dal vivo dei contesti in cui opera deve poter trarre le conoscenze e lo sdegno necessari alla denuncia pubblica. E’ pronto soccorso ma anche monitoraggio delle zone a rischio. Deve soccorrere ma deve anche lanciare l’allarme e chiamare al soccorso. Deve parlare e deve trovare il modo di farsi ascoltare.

 

  1. Preghiera laica e preghiera cristiana dell’accoglienza

Il regista di “Human” (2015), Yann Arthus-Bertrand, che voi conoscete: Viviamo in un’era molto difficile. E’ la prima volta nella storia della umanità in cui il futuro appare così incerto: il riscaldamento globale, la crisi dei rifugiati, il divario crescente tra ricchi e poveri, la crisi economica… L’unica cosa che possiamo fare per affrontare i periodi difficili che stanno arrivando è vivere assieme, accettando il mondo per quello che è e cercando di fare il meglio che possiamo. Perché tutti abbiamo una missione. Come dice un bambino africano nel film “tutti abbiamo una missione che ci ha dato Dio”, il nostro compito è capire qual è la nostra missione. Questo film vuole fare emergere l’empatia necessaria per vivere tutti assieme in questo mondo dal futuro così incerto [intervista a “Vita” del 7 marzo 2016].

Mia traduzione cristiana di quella preghiera laica: Viviamo in un’epoca piena di sfide ma anche di opportunità. Per la prima volta nella storia dell’umanità sperimentiamo un rimescolamento di popoli sul pianeta che può costituire un aiuto provvidenziale alla nascita di un’unica famiglia umana, quale è prefigurata nei profeti, nel mandato missionario di Cristo, nel Concilio Vaticano II. Siamo chiamati a vivere assieme, accettando ogni umanità per quello che è e cercando di farci prossimi a essa. In questa impresa – come dice un bambino africano nel film “Human” – tutti abbiamo una missione che ci ha dato Dio”. Il primo compito d’ognuno è capire quale sia la sua propria missione. Il secondo è tenervi fede.