Introduzione al volumetto 2019 del Premio Castelli

 

I partecipanti a questa edizione del Premio Castelli, dodicesima della serie, sono stati 101: uno sguardo alle edizioni recenti ci segnala che sono meno numerosi rispetto ai 196 del 2017, ai 166 del 2016, ai 123 del 2018, ai 116 del 2015. Tuttavia la qualità dei testi è apparsa buona ai membri della Giuria e può essere che la formulazione del tema, impegnativa e tendente al teorico, “Riconoscere l’umanità in sé e negli altri per una nuova convivenza”, abbia intimorito una fascia di potenziali partecipanti.

Il riconoscimento d’umanità talora sorprende, affiorando nelle situazioni anche meno propizie, come potrebbe sembrare quella del carcere; e può capitare che sia proprio la prova del carcere a favorire quel riconoscimento: l’attestano molti tra i lavori che abbiamo ricevuto per questa edizione del premio.

Il testo che ha vinto il secondo premio argomenta così la riscoperta dei “rapporti di buon vicinato” quando due detenuti si incontrano davvero “rompendo il muro della finzione”: “La condizione obbligata del carcere fa fare passi molto veloci sulla via della reciproca conoscenza e dell’intesa. La costrizione non è più un limite, ma una via per scoprire le cose come stanno, le emozioni profonde, la verità. Star sulla stessa barca diventa molto più che un modo di dire e la condivisione cresce esponenzialmente”.

Vari tra i testi che sono entrati nei dieci “segnalati” e qui pubblicati indicano l’aiuto al recupero d’umanità che è venuto ai loro autori dall’esempio ricevuto dai volontari. Cioè da un’umanità che “si avvicina a quanti hanno sbagliato dandogli un’altra possibilità”. E in tale avvicinamento c’è spesso il seme di una futura fratellanza: “perché l’Umanità è qualcosa che ognuno riconosce, senza dubbi, quando la scopre negli occhi dell’altro e ne rimane contaminato”, conclude il lavoro intitolato “Eroi”.

Il riferimento agli occhi come specchio d’umanità lo troviamo anche in “Misero et cordis”, un altro dei dieci testi segnalati: “Pian piano, troviamo negli occhi del compagno la nostra stessa solitudine, la nostra stessa sofferenza. E, dai meandri della mente, riaffiora la misericordia: mai, come in queste situazioni, ci riconosciamo l’un l’altro: questo è il mio prossimo”.

Un terzo tra i lavori segnalati, intitolato “Umanità”, individua l’aiuto che può venire dal carcere nella caduta forzata che in esso si realizza di ogni distinzione sociale, accompagnata dalla scoperta che “tutti siamo uguali in questo mondo”: “Il carcere ti fa riavvolgere il nastro dei tuoi giorni ed oltre a farti lavorare su te stesso, ti fa rispolverare un senso di umanità che non ricordavi più. L’umanità diventa il sentimento di fratellanza che unisce etnie diverse, religioni diverse, caratteri diversi senza nessun pregiudizio, che probabilmente avresti avuto in libertà”.

Molti dei lavori pervenuti segnalano l’apparente paradosso che “proprio qui, in questo luogo considerato senza vita” avvengano scoperte dell’umano che mai si erano profilate negli anni di libertà. In particolare – dice uno – la scoperta che “l’umanità è la dimora di tutti”. Nel carcere – osserva un altro – “vedi realtà che fuori non avevi mai visto” e quella vista ti chiama a un ampliamento inaspettato del riconoscimento d’umanità.

Qualcuno osserva che un aiuto in tale direzione può venire dalla caduta dell’orgoglio e della tendenza a giudicare, caduta che può essere favorita dall’esperienza del carcere. O dall’avvertenza di un soccorso ricevuto nel bisogno – da una guardia, da un compagno, da un educatore – che diviene molla a soccorrere altri bisognosi.

Due tra i concorrenti segnalano come le tante privazioni del carcere possano insegnare a “guardare il mondo con gli occhi di un bambino”, cioè con l’atteggiamento di chi ha “bisogno degli altri”: una condizione di povertà e debolezza che facilita la reciproca accettazione e dunque la ricerca d’una nuova convivenza.

Colpisce nei lavori di questa edizione la comparsa insistita di un tema che mai avevamo riscontrato gli altri anni: la segnalazione dei rischi che possono venire dai social e – più in generale – dalla comunicazione digitale. Sono tredici i concorrenti che svolgono questo richiamo. Uno di essi ha ottenuto il secondo premio e un altro è tra i segnalati.

Il testo che ha avuto il secondo premio, “Riscoprire i rapporti di buon vicinato”, svolge un sottile paragone tra le identità fittizie indotte dai social e quelle favorite dalla reclusione. Osserva che in carcere spesso “l’umanità che ciascuno porta in sé si occulta dietro cliché comportamentali” e argomenta che “forse proprio questo specifico aspetto ha significative somiglianze con il ‘fuori’; in carcere non c’è Internet per nascondere la propria identità fino al punto da crearne una del tutto fittizia, ma lo si fa ugualmente, generando formalismi vuoti”.

Il testo “Il regalo di un sorriso”, che è tra i segnalati, vede nei social il volano del livellamento universale delle individualità: “Oggi ogni aspetto della vita sociale è gestito da connessioni alla ‘rete’, e più queste sono veloci, più ci sentiamo in grado di affrontare nuove sfide e varcare nuovi orizzonti. Le parole sono sostituite da messaggi e foto e, tramite queste, ci auto-sponsorizziamo con il prossimo […]. Tutti sono simili a tutti. Tutti sanno tutto di tutti”.

Generalmente il lamento dei nostri concorrenti verso il digitale è generico, più o meno rispondente a quello che ascoltiamo ogni giorno nello scompartimento di un treno. C’è chi attribuisce al “continuo bombardamento di messaggi” la “spinta a non prestare ascolto agli altri”. Un altro afferma che l’uso dei social produce un calo delle relazioni. Un terzo dice con altre parole lo stesso concetto: “La tecnologia della comunicazione allontana le persone le une dalle altre”. Un quarto azzarda che “le reti sociali controllano negativamente la nostra vita”.

Com’è generica la denuncia, generici sono anche i rimedi al cattivo influsso del digitale. Uno dei concorrenti invita a diffidare dai social che “dovrebbero accorciare le distanze ma in realtà ci rendono sempre più distanti gli uni dagli altri”. Un altro segnala l’urgenza di “richiamare chi si isola troppo nella Rete” e di “ricordargli che i veri rapporti sono quelli personali, fatti di sguardi, di strette di mano, di emozioni e sensazioni, di relazioni che nascono tra esseri viventi e non solo dietro una tastiera”. Un terzo dà ai giovani il rassegnato consiglio di lasciare il cellulare e di “scrivere una bella lettera”, o di “andare di persona a trovare colui a cui si vuole dire qualcosa, mettendoci la faccia”.

Ma abbiamo letto, nei lavori in concorso, anche osservazioni puntuali riferite al proprio vissuto. Uno dei concorrenti indica tra le cause della propria devianza “le relazioni telematiche che non si svolgevano quasi mai a quattr’occhi”. Un altro è tentato di dare tutte le colpe allo smartphone e giura che mai più “sprecherà un solo istante a far divorare le sue sensazioni da quel diabolico congegno”. Un terzo osserva che “online e sui social appare più evidente il fenomeno, che c’è sempre stato, di chi prende coraggio e spavaldità a insultare quand’è sicuro di non essere visto”.

Un concorrente descrive con efficacia la difficoltà che le “amicizie” della Rete incidano sulla vita reale: “La quasi totalità delle persone utilizzano un like per condividere un bisogno o una richiesta di aiuto, mentre solo una sparuta minoranza ha l’umiltà di trasformare quel like in un gesto di vera solidarietà”.

Colpisce questa attenzione al digitale da parte dell’umanità delle carceri che è generalmente impedita dall’usarlo. In qualche caso si avverte dietro ai fuggevoli accenni un’esperienza recente, maturata da chi è in carcere da poco tempo. Ed è il caso di uno dei concorrenti che racconta come gli sia stato necessario “oltre un mese dall’arresto per levarmi le paranoie di non avere il cellulare”. Ma più frequente è l’impressione di un apprendimento indiretto di questa realtà, forse attraverso i contatti con i familiari, ma soprattutto attraverso la lettura e l’ascolto della televisione.

Il fatto che tanta attenzione al digitale nei lavori in concorso si sia manifestata quest’anno e non fosse comparsa prima, induce a ipotizzare che stia lievitando nella società italiana una percezione collettiva dei fenomeni digitali, veicolata principalmente – si può immaginare – dalla cronaca su vicende di plagio, di dipendenza, di violenza, di vendetta, di suicidio a seguito di fissazioni e irretimenti legati all’abuso dei social. Quella percezione è ormai pervasiva e non trova più un reale ostacolo neanche nelle mura delle carceri.

Come Giuria abbiamo ancora una volta ammirato la capacità di coinvolgimento soggettivo dei concorrenti in elaborati che sono anche revisioni di vita. Presi nel loro insieme i lavori che abbiamo letto costituiscono un’affermazione corale, si direbbe una protesta, che “l’umanità ha bisogno di prossimità”, come si esprime uno dei concorrenti. E’ significativa questa protesta che ci arriva da chi è ostacolato in ogni esperienza di prossimità. A tutti i concorrenti che si sono messi in gioco vorremmo dire il nostro grazie, che indirizziamo innanzitutto a quanti hanno attestato che prossimità inaspettate e inattesi recuperi d’umanità possono maturare anche nell’universo carcerario.

Luigi Accattoli

presidente della Giuria