La Chiesa e la comunicazione al tempo di Papa Francesco

 

Seminario di formazione per Ordine Giornalisti delle Marche
Monastero di San Silvestro – Fabriano – Sabato 27 giugno 20215 – ore 09.00-13.00

Tra le novità di Francesco è quella del linguaggio a creare più problemi. E’ dunque appropriato che tra giornalisti ci si interroghi su questo aspetto dell’attuale Pontificato.

Papa Bergoglio parla in modo da essere capito dalla moltitudine e innanzitutto dai lontani dall’esperienza cristiana, che infatti mostrano di comprenderlo. Ma è frequente, dentro e fuori la Chiesa, la reazione critica e anche polemica da parte di osservatori qualificati.

La “Chiesa babysitter” (17 aprile 2013), il “Dio-spray” (18 aprile 2013), le suore che devono essere “madri e non zitelle” (8 maggio 2013), la vita cristiana che “non è una terapia terminale” (15 giugno 2013), la lode dei “cristiani squilibrati” (cioè radicali, senza compromessi: 26 settembre 2013), la deplorazione dei “cristiani sconfitti” (10 gennaio 2014), o dei “cristiani pipistrelli” (che “preferiscono le ombre alla luce”: 24 aprile 2014), o di quanti “si truccano da cristiani” (4 dicembre 2014), l’invito a guardare ai “santi peccatori” (19 gennaio 2015) hanno divertito gli uditori e procurato lodi al repertorio immaginifico del Papa argentino.

Ma le reazioni polemiche erano in agguato e non hanno tardato ad arrivare. Quando ha detto “vergogna” per i migranti affogati nel Mediterraneo (3 ottobre 2013) tra i commentatori c’è stato chi ha chiesto chi dovesse vergognarsi e di che. Quando ha affermato che l’apostolo Paolo “si vanta dei suoi peccati” (4 settembre 2014) gli è stato fatto osservare che Paolo dice “mi vanto delle mie debolezze” e non dei peccati.

Quando ha esclamato che se qualcuno offende la sua mamma “lo aspetta un pugno” (15 gennaio 2015), è stato accusato di giustificare le reazioni violente degli islamisti alle vignette satiriche. Quando ha buttato là che “per essere buoni cattolici non dobbiamo essere come conigli” (19 gennaio 2015), con riferimento al numero dei figli, non è mancato chi ne ha dedotto che offendeva le famiglie numerose.

Come mai queste incomprensioni e perché il Papa parla con tanta libertà?

A mio parere Francesco semplifica il linguaggio – come accennavo – per arrivare alle persone semplici e a quelli di fuori. Scrivendo per esempio a Eugenio Scalfari (“La Repubblica” 11 settembre 2013), portabandiera della cultura illuministica e laica in Italia, fondatore del quotidiano “La Repubblica”, aveva lodato il ruolo della coscienza (“la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza”) senza richiamare le distinzioni tradizionali sulla coscienza “rettamente formata” ed ecco il giornalista che nell’intervista allo stesso quotidiano del 1° ottobre 2013 osserva: “Penso che quello [sulla coscienza] sia uno dei passaggi più coraggiosi detti da un papa”. Francesco gli risponde: “E qui lo ripeto. Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo”.

Ne è venuta grande disputa e l’ala tradizionale della Chiesa ha accusato Papa Bergoglio di “errore comunicativo”, qui come quando si era rifiutato di giudicare il gay che cerca Dio (conferenza stampa durante il volo di rientro da Rio de Janeiro, 29 luglio 2013), o quando aveva definito “impossibile” l’ingerenza spirituale nella vita personale (intervista alle riviste dei Gesuiti, 19 settembre 2013: “La religione ha il diritto di esprimere la propria opinione a servizio della gente, ma Dio nella creazione ci ha resi liberi: l’ingerenza spirituale nella vita personale non è possibile”).

Io non credo che siano errori: Francesco conosce l’apparato delle distinzioni che si sono accumulate nei secoli e la loro utilità in sede accademica, ma ritiene di doverne uscire per parlare una lingua nuova, di annuncio diretto, da uomo a uomo, che non resti prigioniera del filtro culturale che lo farebbe arrivare al destinatario – quell’annuncio – come elemento di scuola e di erudizione.

A chi crede che la Chiesa condanni i gay in quanto gay, non accetti la libertà di coscienza e sempre miri a giudicare le persone; a chi immagina che un Papa sia contento se si ride di Maometto, o che un buon cattolico debba avere necessariamente da cinque a dieci figli; ecco, a tutti costoro Francesco vuol dire – nella lingua comune – che non è vero, non è quella la Chiesa.

L’obiezione con cui gli ambienti tradizionalisti rispondono a questa interpretazione della libertà di linguaggio del Papa è che, così parlando, Francesco rischia di mandare in confusione i buoni cristiani, ovvero il “cattolico medio”. Può capitare, ma perlopiù questa io la ritengo una risposta strumentale: partecipo a dibattiti sul Papa in tutta Italia ogni settimana e conduco un blog nel quale si discute di Chiesa ogni giorno e posso dire che non mi è mai capitato di incontrare un cristiano comune perplesso sulle parole del Papa. Sono sempre degli intellettuali che si mostrano perplessi a nome dei “semplici fedeli”, che invece capiscono benissimo quello che dice il Papa e generalmente ne sono felici.

Come si preoccupa di parlare al non credente così Francesco vorrebbe avere una parola calorosa per il credente turbato, che non intende più il linguaggio usato dagli ecclesiastici. “A volte – ha detto il 27 luglio 2013 a Rio de Janeiro ai vescovi del Brasile – perdiamo coloro che non ci capiscono perché abbiamo disimparato la semplicità. Senza la grammatica della semplicità, la Chiesa si priva delle condizioni che rendono possibile ‘pescare’ Dio nelle acque profonde del suo mistero”. I linguaggi “precettivi e dottrinali” ereditati da un glorioso passato sono indicati dal Papa, in quel discorso, tra i possibili responsabili della disaffezione di tanti credenti nei confronti della Chiesa, che avvertono “forse troppo lontana dai loro bisogni, forse troppo fredda nei loro confronti, forse troppo autoreferenziale, forse prigioniera dei propri rigidi linguaggi”.

Nell’esortazione “La Gioia del Vangelo” Francesco insiste sulla necessità che il sacerdote nell’omelia usi “il linguaggio che i destinatari comprendono” se non vuole parlare a vuoto: “Accade che i predicatori si servono di parole che hanno appreso durante i loro studi e in determinati ambienti, ma che non fanno parte del linguaggio comune delle persone che li ascoltano. Ci sono parole proprie della teologia o della catechesi, il cui significato non è comprensibile per la maggioranza dei cristiani” (n. 158).

L’uscita dal linguaggio codificato della tradizione ecclesiastica e pontificia è da leggere come un capitolo – forse il più importante – dell’uscita missionaria predicata da Papa Bergoglio. Che nel suo insieme andrebbe interpretata come uscita dal modello di Chiesa costituita della tradizione europea in vista della realizzazione di una nuova figura di Chiesa missionaria capace di incrociare l’umanità di oggi nella sua complessa realtà e nei suoi molteplici cammini.

Potremmo – in conclusione – distinguere due novità di linguaggio in Papa Bergoglio: una che si manifesta nel suo modo informale e creativo di comunicare e un’altra, più ampia e più alta, tendente a promuovere una riformulazione del linguaggio della Chiesa perché si liberi dell’attuale dominante canonica e sappia proporsi con attitudine di prossimità e di accompagnamento.

Ma forse non dovremmo distinguere troppo tra le novità piccole e grandi del linguaggio di Francesco, in quanto – come ha detto felicemente una volta il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato – “le sue parole fanno corpo con il personaggio, perché il Papa è quello che dice”. Va anche tenuta presente una specie di astuzia della sua azione riformatrice: molti passi che reputa difficili a compiere con atti di governo e di magistero egli li anticipa, o li auspica con propri atti e parole, cioè nell’abito della sua personale attività pontificale, dove nessuno lo può fermare.

Egli infatti non intende fermarsi e non si lascerà fermare nella sua uscita missionaria. “Il vescovo non deve lasciarsi bloccare da una Chiesa talvolta paralizzata dalle proprie tensioni interne. Incarna la vicinanza della Chiesa agli uomini del nostro tempo, nel radicalismo della testimonianza a Gesù Cristo”, disse il cardinale Bergoglio nella relazione “post disceptationem” (dopo il dibattito) che tenne al Sinodo del 2001. Quello che disse allora del vescovo oggi lo attua da Papa.

Né lo spaventano le critiche. Al padre Spadaro ha confidato una regola che ha maturato nella sua vita di gesuita: “Non lasciarsi bloccare dai giudizi negativi, ma accettarli, viverli nella preghiera ed entrare in dialogo aperto per capire dove sta il problema o l’equivoco” (Antonio Spadaro, La mia porta è sempre aperta, Rizzoli 2013, p. 48). Mi aspetto che quando le critiche e le opposizioni si faranno rumorose egli entri con esse “in dialogo aperto”, cioè pubblico.

Una decina di volte ha detto di non essere preoccupato per i contrasti che si sono manifestati nei due Sinodi sulla famiglia: “Per me è un buon segno, che si espongano [i dissensi], che non si dica di nascosto che non si è d’accordo” (intervista a “La Nacion”, 7 dicembre 2014). La sua prima urgenza è la missione, non la concordia interna alla Chiesa. Una volta aveva detto (Angelus del 7 luglio 2013): “Non bisogna aspettare il consenso di tutti, bisogna andare e annunciare”.

Le critiche di alcuni intellettuali al linguaggio di un Papa amato dal popolo non devono sorprendere. Esse vanno innanzitutto intese come critiche all’intera proposta riformatrice di Francesco, che egli stesso ha definito “riforma missionaria della Chiesa in uscita” (“La Gioia del Vangelo” 17). Bastano a spiegare quelle critiche la novità di un Vescovo di Roma che parla la lingua comune e l’avversione al cambiamento che è sempre in agguato nelle cose di Chiesa.

“Debbo anche pensare a una conversione del Papato” ha scritto Francesco nella “Gioia del Vangelo” (n. 32) ed è nella logica delle cose che quanti non vogliono quella “conversione” a essa facciano resistenza. Quella conversione comporta infatti un radicale abbandono dei simboli allontananti di un’antica maestà da sostituire con l’assidua ricerca di una libera vicinanza, anche di lingua, a ogni umanità.

Luigi Accattoli

www.luigiaccattoli.it