L’atlante di Papa Francesco

Italia

di Luigi Accattoli

 

Rispetto a chi ha parlato fino a ora, io passo dalla geopolitica alla geochiesa.

Il rapporto di Francesco con l’Italia è problematico, segnato da contagio popolare e laico e da disagio ecclesiastico e identitario. Contagio e disagio che mi paiono ambedue in crescita.

Non voglio dire che l’Italia sia il paese con il rapporto più problematico verso Francesco, ma di sicuro è tra i più problematici. E’ ragionevole che il vasto programma di “riforma della Chiesa in uscita missionaria”, abbozzato dal Papa argentino, provochi maggiore reazione nei paesi dove la situazione della Chiesa Cattolica è più costituita, più antica, più radicata, più capillare. E questa è scuramente l’Italia.

La simpatia popolare verso Papa Francesco in Italia è vasta ma a dominante disimpegnata. Da tifo a distanza più che da conversione pastorale, o da rivoluzione culturale. Speculare ad essa è l’allarme o anche solo la diffidenza del mondo ecclesiastico e dei cattolici identitari, che sono di meno – molto meno numerosi – rispetto ai simpatizzanti, ma più motivati.

Sono colpito dall’inerzia collegiale dell’episcopato in riferimento alle sollecitazioni papali, ma anche dalla più generale apatia comunitaria.

Inerzia collegiale di fronte alla spinta di Francesco all’uscita missionaria: ripetutamente ha dovuto chiedere che si svolgesse un lavoro sinodale sulla “Evangelii gaudium”, non c’è stata rispondenza neanche sulla riduzione del numero delle diocesi e sulla revisione dello statuto in vista della designazione del vertice Cei. Lo statuto è stato rivisto ma non secondo il suggerimento papale.

Apatia comunitaria: l’appello di Francesco per l’accoglienza dei rifugiati nelle parrocchie non ha avuto affatto una buona risposta, nel microcosmo ha avuto scarsa eco anche la chiamata alla consultazione per la nomina del nuovo vicario di Roma.

Più ampiamente direi che nella comunità cattolica italiana non si coglie, o non si coglie appieno la gravità della crisi o del passaggio epocale che stiamo vivendo e dunque non si coglie neanche l’opportunità rappresentata da questo Papa. Non la si coglie né a destra né a sinistra. A destra si fa finta che le cose andassero bene prima, a sinistra si finge di credere che vadano bene adesso. Se qualcuno poi non finge ma crede davvero che andasse tutto bene prima, o che tutto vada bene ora, l’incomprensione ovviamente sarebbe più grave.

Più volte Francesco ha lodato l’Italia per l’accoglienza dei profughi e dei migranti. Mai è intervenuto in vista di nostri appuntamenti legislativi o elettorali. Lo sganciamento dal progetto culturale e dalla battaglia condotta dai Papi precedenti sui valori non negoziabili è stato tranciante e forse provvidenziale ma ne è venuto un effetto immediato di silenzio della Chiesa sulla scena pubblica che non soddisfa nessuno. Credo non soddisfi neanche il Papa.

In particolare è venuta meno la voce pubblica dell’episcopato. La via indicata da Francesco sarebbe: testimonio e affermo i valori, li promuovo fattualmente ma non faccio battaglia ideologica né schieramento politico. La cessazione della battaglia e dello schieramento sono evidenti, ma la testimonianza e l’affermazione in positivo non si vedono affatto.

Io credo che dietro all’evidenza di tale indebolimento della Chiesa sulla scena pubblica ci sia un logico ridimensionamento della percezione della presenza cristiana nel paese, ovvero una riconduzione di quella presenza alla reale sua consistenza, che è fortemente in calo nella società secolarizzata; percezione che in precedenza era nascosta dalla martellante affermazione politica; ma credo anche che vi sia un effetto di raddoppio di quell’indebolimento dovuto all’impreparazione a farsi sentire al di fuori dell’affermazione ideologica e politica. Il disagio dei cattolici identitari ha qui un fecondo terreno, e dunque la sua crescita è scontata.

Ma va segnalato che anche il contagio profondo esercitato da Francesco è in crescita. Crescita lenta, un po’ come la ripresa economica dell’Italia. Lenta e tuttavia reale. A Milano abbiamo visto una viva, ampia, pastosa rispondenza del popolo ambrosiano alla predicazione papale. Una rispondenza che si è espressa in ogni appuntamento di quella giornata, ha avuto risonanze nelle persone coinvolte, ha comportato ripensamenti verso Francesco di tanti che fino ad allora erano incerti. “Francesco lo sto scoprendo ora” ha detto all’Avvenire del 25 marzo (che era il giorno della visita) il cardinale Scola.

Un’analoga “scoperta” del portato del Papa argentino avevano compiuto il cardinale Betori a seguito della visita di Francesco a Firenze nel novembre del 2015 e prima ancora l’arcivescovo Nosiglia dopo quella a Torino del giugno 2015.

Mi auguro che le scelte imminenti del nuovo presidente della Cei, del nuovo vicario di Roma, del nuovo arcivescovo di Milano potenzino la presa e il ritmo del contagio.

 

Nota al margine: c’è una geopolitica di Papa Bergoglio?

Che ci dicono le sue iniziative per la pace in Siria, per il disgelo tra Cuba e gli Usa, per portare in Vaticano Peres e Abu Mazen, per il superamento del conflitto interno alla Colombia, per un accordo con la Cina, per il sorprendente incontro con Kirill a Cuba, per la pacificazione del Venezuela?

Che idea caviamo dalla geografia dei suoi spostamenti sul pianeta? Dalle puntate a Lampedusa e a Lesbo, dalle trasferte ecumeniche (Gerusalemme, Istanbul, Lund), dall’approccio all’Islam in Turchia e al Cairo?

Una prima approssimazione la potrebbe fornire l’insistenza dei suoi viaggi sull’Asia e sulle Americhe. Ha toccato due volte Cuba, è stato in Brasile, in Messico, negli Usa, in Ecuador, in Bolivia e in Paraguay. In Asia ha visto la Corea del Sud, lo Sri Lanka e le Filippine, ha detto che andrebbe “anche domani” in Cina e che all’Asia si deve dedicare con impegno stante la minima presenza cristiana in quel continente. Ha visto anche quattro paesi che sono posti a cerniera tra Europa e Asia: Turchia, Armenia, Georgia, Azerbaijan.

Una seconda approssimazione potrebbe attirare l’attenzione sull’attrazione che su di lui esercitano le situazioni di maggior bisogno. Ho già nominato Lampedusa e Lesbo. Aggiungo Tirana e Sarajevo, i tre paesi africani che ha già visto (Kenya, Uganda, Repubblica Centroafricana) e quello che ha in programma, ovvero il Sud Sudan.

Il Papa venuto dall’Argentina guarda alle periferie mondiali, al Sud del mondo in generale e – da gesuita – con prioritaria passione mira alla Cina. In altre parole: il Papa della “Chiesa in uscita” vorrebbe che l’uscita avesse a meta le popolazioni più vaste e più lontane rispetto al centro romano della cattolicità.

Con analoga approssimazione si potrebbe dire che Karol Wojtyla, Papa slavo, guardava in primis all’Europa centro-orientale, dov’è riuscito a visitare 9 volte la sua patria e dove – caduto l’impero sovietico – ha potuto vedere in ordine di tempo Cecoslovacchia, Albania, Lituania, Lettonia, Estonia, Croazia, Slovenia, Berlino, Bosnia, Romania, Georgia, Ucraina, Kazakhastan, Armenia, Azerbaijan, Bulgaria.

Il cuore di Benedetto batteva invece per l’Europa centro-occidentale: nei suoi otto anni è tornato tre volte nella sua patria ed è riuscito a vedere – nell’ordine – Polonia, Spagna, Austria, Francia, Repubblica Ceca, Malta, Portogallo, Gran Bretagna, Croazia. Egli – che è stato definito provvisoriamente “l’ultimo Papa europeo” – era preoccupato per la crisi delle Chiese del vecchio continente e si adoperava, come poteva, a risvegliarle.

Ma in questi primi quattro anni del Pontificato di Francesco c’è di più degli spostamenti sul pianeta per cogliere qualcosa della strategia che lo muove. La sua idea della Chiesa in uscita è un’idea missionaria a tutto campo, che – nell’intenzione – non sottostà a nessuna regola politica o ideologica e mira anzi a sovvertirle, o eluderle, per ottenere l’obiettivo dell’avvicinamento evangelico a ogni umanità a partire dalle più bisognose.

Eccolo dunque che prende iniziative apparentemente impossibili, si muove con libertà, decide in tempi brevi trasferte di grande impegno che potremmo chiamare missioni last minute, non pone condizioni formali o di prestigio. Si preoccupa – per usare il suo linguaggio – di “avviare processi” più che di acquisire “territori”, cioè obiettivi. Stabilisce contatti, propone incontri. Si espone disarmato a ogni strumentalizzazione. E’ convinto che ostilità ed equivoci alla fine cadranno se il cammino avviato proseguirà.

Luigi Accattoli

www.luigiaccattoli.it