Dario Fo come Benigni

«La fede non va imposta in modo autoritario, può essere solo donata in libertà». Papa Ratzinger ci sorprende una volta di più (…) il Pontefice sembra “proporre” Gesù Cristo e la fede cristiano-cattolica come uno dei percorsi buoni (per quanto concerne il suo ministero, il percorso privilegiato) per «trovare la via verso il Futuro». A Roma s’è persa un’ottima occasione per capire finalmente chi sia Ratzinger: non quello che molti di noi pensano sia. Non vuole imporre, ma consiglia. Auspica, non ordina. Aiuta, non costringe (…) Merita d’esser letta e riletta, l’allocuzione che il Papa filosofo avrebbe fatto alla Sapienza.
Così Dario Fo sul Messaggero del 17 gennaio. Considero le sue parole il frutto migliore del fattaccio della Sapienza. Dice “occasione persa” e a me invece appare colta. Il messaggio del papa avrebbe avuto meno ascolto se l’avesse letto di persona perchè l’attenzione sarebbe andata agli sberleffi dei contestatori come era successo con Giovanni Paolo nell’aprile del 1991. Non sarebbe stata svelata, inoltre, l’intolleranza di quel laicismo. Forse a portare frutto è stata l’umiliazione – o l’umiltà – inaspettata della rinuncia. La cancellazione della visita è stato un fatto spiacevole e il papa ne sarà amareggiato ma spero che qualcuno gli possa spiegare il buon acquisto delle parole del comico e premio Nobel di cui mi rallegro. Ho sempre apprezzato il Dario Fo di Mistero buffo e ultimamente quello che spiegava i Trionfi del Mantegna o la facciata del duomo di Modena. Quando interpreta le sculture medievali Fo è per me come un gemello del Benigni che legge Dante. Che sia arrivato a una giusta interpretazione di papa Ratzinger mi pare una buona notizia: se c’è arrivato lui, maestro dello sberleffo, vuol dire che tanti ci stanno arrivando.

39 Comments

  1. In effetti sorprende che Dario Fo scriva questo. Forse una volta tanto si è fermato a leggere. Solitamente tira dritto con i suoi preconcetti, che poi son sempre quelli. Come dopo l’ultimo incontro di Assisi, a Annozero da Santoro Fo se la prese duramente con Ratzinger perché aveva detto che S.Francesco era un cristiano e un uomo di fede quando sono anni che lui fa turné per dire che era un giullare ecologista. Sorprende proprio, oggi.

    18 Gennaio, 2008 - 14:40
  2. raffaele.savigni

    In generale non amo molto Dario Fo (anche se gli riconosco qualità artistiche notevoli). Questa volta lo apprezzo e gli do fiducia, sperando di non restare disilluso.

    18 Gennaio, 2008 - 15:12
  3. Sumpontcura

    Dario Fo che torna a ragionare con la testa, smettendo di utilizzare – per la bisogna – altri organi del corpo, normalmente addetti ad altre funzioni? Si ponga mano all’uccisione del vitello grasso!
    (No, Giuliano, dài, è solo una metafora: giuro che non corri alcun rischio!)

    18 Gennaio, 2008 - 15:33
  4. Sumpontcura

    (Anche perché – se fosse una questione di stazza – fra te e me sarebbe una bella gara!)

    18 Gennaio, 2008 - 15:35
  5. fabrizio

    Per completezza, però, io avrei inserito anche la parte dell’articolo di Fo che Luigi ha tralasciato tra le parentesi.
    Mi permetto di aggiungerla io:
    “Perché, allora, mi chiedo da laico e sono stato un estimatore del gesto carismatico di Wojtyla, Ratzinger agisce in modo oppositivo rispetto a ciò che dice? Perché la sua assenza di aperture, i suoi no, i suoi divieti in materia di procreazione, di sacerdozio alle donne, le sue scomuniche? Perché la capacità di togliere di mezzo certe “concessioni” popolari fatte dal Concilio Vaticano II, vedi la posizione del sacerdote sull’altare durante la Messa e l’uso degli idiomi nazionali al posto dell’anacronistico latino?”.

    Prendo per buono il credito che Fo concede al papa, ma la contrapposizione che fa tra Wojtyla e Ratzinger è davvero comica, e dimostra di aver letto fino ad oggi ben poco sia di Wojtyla che di Ratzinger.
    Diamogli fiducia.

    18 Gennaio, 2008 - 15:44
  6. Sumpontcura

    (Dopo aver letto l’integrazione informativa di Fabrizio:)

    Ricordate, nel goldoniano “Servitore di due padroni”, il povero Pantalone alle prese con le intemperanze del giovane Silvio, che però a un certo punto sembra più ragionevole di quel vecchio trombone del Dottore suo padre?
    “Però! – dice di lui Pantalone, rivolto al pubblico: – Forse non è tanto bestia”.
    Ma poi, una battuta dopo, sconsolato: “Eh no, è proprio bestia come suo padre”.

    Il Papa avrebbe tolto di mezzo (sic) certe concessioni popolari (doppio sic)fatte dal Concilio Vaticano II, vedi la posizione del sacerdote sull’altare durante la Messa (triplo sic) e l’uso degli idiomi nazionali al posto dell’anacronistico (!) latino…
    Che il vitello grasso torni a trotterellare sereno per i campi!

    18 Gennaio, 2008 - 16:14
  7. Coraggio invece, teniamo quello che c’è di buono.

    18 Gennaio, 2008 - 16:52
  8. Mi ri collego a Luca G.
    … a chi lamenta il decadimento della chiesa rispetto ai vertici del Concilio, io rimprovero il fatto che il primo tradimento del Concilio è privarsi della capacità di cogliere le gemme di bello e di bene che appaiono dove meno te l’aspetti.
    Ad esempio, il fatto che Scalfari non perda domenica per occuparsi – certo, a modo suo – di Dio, Papa, religione….

    18 Gennaio, 2008 - 19:11
  9. LEONE

    Vorrei segnalarVi un interessante articolo di Franco Garelli sulla Stampa da cui estrapolo l’ultima parte che mi sembra molto molto interssante e che esprime anche il mio pensiero.

    l’articolo completo lo potette trovare sul sito che segue dove ogni giorno ci sono bellissimi articoli daimaggiori quotidiani nazionali

    http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/Stampa/080118garelli.

    “Si tratta di creare un clima di reciproco riconoscimento. Anche il caso della Sapienza ci dice che questo è il vuoto grave della nostra società. Parte del mondo laico non critica il Papa perché ha
    un’idea alta della verità, perché ricorda a tutti che c’è un senso ultimo delle cose che occorre
    perseguire per l’arricchimento pieno dell’umanità. Ma perché in qualche suo passo l’affermazione
    della verità sembra prevalere sul riconoscimento che anche altri – pur a partire da posizioni e
    convinzioni diverse – possono essere alla ricerca della verità. Magari sarà la verità con la v
    minuscola, perché in molti (nel mondo laico) non credono in quella assoluta. Parallelamente, la
    Chiesa può sentirsi estranea alla cultura contemporanea, perché settori influenti del mondo laico
    non riconoscono il valore innovativo delle battaglie per la crescita umana e spirituale che essa
    promuove da tempo. Come sempre gli steccati sono destinati a cadere quando i vicini si sporgono
    oltre le differenze”.

    Buona giornata atutti ed a Luigi ci sentiamo per il 30 gennaio a Clusone

    18 Gennaio, 2008 - 20:12
  10. Sono comunque convinto che, per confrontarsi proficuamente, bisogni uscire dalle sindromi speculari che vedono i cristiani sentirsi culturalmente inferiori e “incomunicabili” e gli “atei” sentirsi per questo superiori e i soli capaci di vedere con razionalità.
    Da parte mia ho scoperto una attualità incredibile in Chesterton. Sicuramente atipico e non accademico, ma vivo e vivace come pochi altri, positivamente e rispettosamente polemico, magnificamente paradossale.
    Consiglio a tutti “L’uomo che fu Giovedì” (ora disponibile nei Tascabili Bompiani anche se con una traduzione un po’ arcaica), “Ortodossia” e “Eretici” – e non fatevi spaventare dai titoli.
    Sono divertentissimi, vecchi di un secolo ma sembrano scritti per oggi.

    18 Gennaio, 2008 - 22:15
  11. Sumpontcura

    Come frutto tardivo del “fattaccio della Sapienza”,

    in omaggio al Dario Fo di una volta, studioso di tradizione popolare e regista del “Ci ragiono e canto” (1966),

    in “omaggio” a Radio Maria, che nei fatti di questi giorni fa entrare in gioco uno scomodo personaggio solforoso,

    in omaggio alla brava Clodine, che mi sembra apprezzare i canti popolari abruzzesi,

    in omaggio soprattutto al santo di ieri (17 gennaio), S.Antonio Abate,

    vorrei condividere il ricordo di un’epica lotta nel mitico deserto dei santi eremiti, da cui si evince l’interpretazione popolare della pazienza cristiana e il vero significato dell’espressione “settanta volta sette” (attenti, sapientini!):

    Sant’Antonie allu desertu
    se cuciva li carzuna,
    Satanasso pe’ dispietto
    glie freghette li buttuna,
    Sant’Antonie si nni frega,
    cu lu spago si li lega.
    (Coro) Sant’Antonie, Sant’Antonie,
    lu nimice di lu dimonie!

    Sant’Antonie allu desertu
    se coceva li spaghetti,
    Satanasso pe’ dispietto
    glie freghette li furchette,
    Sant’Antonie nen s’incagna,
    cu li mane si li magna.
    (Coro)

    Sant’Antonie allu desertu
    se lavava l’insalata,
    Satanassu pe’ dispietto
    glie tirette na sassata,
    Sant’Antonio lu prese pe’ collo
    e lu mise co’ culo a mollo.
    (Coro)

    Sant’Antonie allu desertu
    se diceva l’orazione,
    Satanasso pe’ dispietto
    fa lu verso de lu trombone,
    Sant’Antonie co ‘u cortellone
    glie corse appresso e lu fece cappone.
    (Coro)

    18 Gennaio, 2008 - 22:18
  12. Clodine

    ah ah ha ah…mamma mia ! Che ridere, questo blog dott. Luigi è unico nel suo genere. Così, tra il serio e il faceto riusciamo a sdrammatizzare, a sorridere, a ironizzare nonostante i tempi e gli eventi impongano una certa serietà…!

    Ah..ah…grazie Sumponctura..sono troppo divertita..

    18 Gennaio, 2008 - 22:29
  13. Sumpontcura

    Aspetta, Clodine! Manca giusto giusto l’ultima strofa!

    Sant’Antonie allu desertu
    se ne jeva a La Sapienza,
    Diavolicchio Littizzetto
    fa lu versu dell'”Eminenza?!”.
    “Lucianina, viene accà,
    mo’ te spiego lu tiempe che fa!”.

    Buona notte a tutti (e scusa, Luigi, per l’occupazione esagerata del pianerottolo…).

    18 Gennaio, 2008 - 22:49
  14. Sumpontcura è una grande scoperta! Ma quando facevi la battuta sul vitello grasso, hai citato proprio Benigni… lo sapevi, no?

    18 Gennaio, 2008 - 22:58
  15. Eufemia Budicin

    Oggi su Repubblica Roberta de’ Monticelli scrive che noi italiani abbiamo dato troppa importanza alla Sapienza, mentre all’estero per niente. Sempre oggi la SuddeutscheZeitung,di Monaco, ci snobba di meno:
    http://www.sueddeutsche.de/kultur/artikel/573/153183/ – Kultur.
    Abgesagte Papst-Rede Lieblingskleidung Schafspelz
    Credo che dopo il 25 luglio, la guerra continui. Cordiali saluti.

    18 Gennaio, 2008 - 22:59
  16. LEONE

    VI GIRO UN INTERESSANTE ARTICOLO DI ILVO DIAMANTI SU REPUBBLICA

    Anch’io mi sono domandato se 300 studenti su 140.000 e 67 professori su 2.000 giustifichino tanto baccano, ma effettivamente, a mente fredda, non abbiamo un po’ sopravvalutato quanto è avvenuto?
    Che poi il Papa abbia fatto bene a non andare può essere, probabilmente come faceva notare Luigi la Chiesa è quella che ne è uscita meglio dalla vicenda, ma anche se il Papa fosse andato alla Sapienza non avrei visto troppi problemi, in fondo 300 persone su 140.000 che manifestino ci possono essere sempre.
    Il dissenso ed il conflitto, (non fisico si intende ma di opinioni), sempre c’è stato e sempre ci sarà.
    Forse abbiamo troppa paura dei conflitti.

    DEMOCRAZIA MINIMA
    Si odono ancora, distintamente, gli echi delle polemiche sollevate dalla rinuncia di Papa Benedetto XVI a proporre la sua lezione magistrale all’Università “la Sapienza” di Roma. Preoccupato dalla lettera dei 67 professori che avevano espresso, a tale proposito, il loro dissenso. E dalle manifestazioni annunciate da alcuni circoli di studenti, anch’essi apertamente contrari all’arrivo del Papa. Anche se, probabilmente, oltre alla preoccupazione è subentrata l’irritazione per il mancato senso di ospitalità (non si invita qualcuno a casa propria, come ha fatto il Rettore, per poi comunicargli che i figli lo accoglieranno, all’ingresso, per fischiarlo). Senza trascurare la volontà del Vaticano di far passare la religione civile fondata sulla “ragione” dalla parte del “torto”. Rovesciando sui “militanti laici” la critica di intolleranza che, da qualche tempo, accompagna il rinnovato protagonismo della Chiesa sulla scena pubblica.

    Le polemiche dei giorni seguenti (che proseguono ancora) si sono concentrate, soprattutto, sul concetto di laicità, di libertà, pluralismo. In particolare, è stata criticata – giustamente, a nostro avviso – l’azione volta a impedire la lezione di Joseph Ratzinger. Pontefice, ma anche eminente filosofo e teologo: sarebbe stato di casa all’Università. Per contro, altre voci, più circoscritte, hanno insistito sull’inopportunità che l’autorità più rappresentativa della Chiesa aprisse le lezioni di un centro di cultura pubblica e “laica”, qual è la più grande università italiana.

    Noi, tuttavia, vorremmo spostare l’attenzione dalla luna al dito che la indica. In altri termini, intendiamo soffermarci su un aspetto laterale, rispetto a questa discussione. E, tuttavia, sintomatico del male che affligge il nostro (povero) Paese; e indebolisce la nostra democrazia. Ci riferiamo alla sproporzione delle forze in campo.

    67 professori esprimono il loro dissenso verso una iniziativa dell’Università in cui insegnano. Insieme ad altri 2000 docenti. Affiancati da circa 300 studenti, che manifestano la loro protesta. E la rilanciano giovedì scorso, quando avviene l’inaugurazione. Senza il Papa, ma di fronte al sindaco Veltroni e al ministro Mussi. Studenti molto diversi da quelli del mitico ’68. Definiti e auto-definiti “autonomi”, non perché si ispirino ai collettivi e ai movimenti “rivoluzionari” degli anni Settanta, ma perché dichiaratamente estranei e antagonisti rispetto ai soggetti politici attuali. “Antipolitici”, per usare le categorie del nostro tempo. Ripetiamo un’altra volta: 300 studenti. Trecento: in una Università dove gli iscritti sono circa 140 mila.

    Il nostro appunto (e disappunto) è riassunto da questi numeri. Una iniziativa di grande rilievo pubblico e di grande importanza simbolica si è, infatti, incagliata sul dissenso espresso dal 2,8 % dei professori e dallo 0,2 % degli studenti. Tanta sproporzione suggerisce una considerazione inquietante. La nostra democrazia non è più in grado di sopportare neppure una frazione di conflitto e di opposizione così ridotta. L’opposizione di alcuni professori di Università. Ambiente dove è, quantomeno, normale che vengano espresse distinzioni, differenze; talora “eresie” culturali. La sfida irrequieta e “maleducata” di un drappello di giovani studenti. Ai quali, per età e condizione, va comunque concessa la possibilità anche di sbagliare in proprio. Hanno di fronte una vita per sbagliare con la testa degli altri.

    Una democrazia incapace di “tollerare” il dissenso (anche quando esprime posizioni “poco tolleranti”), neppure se è così minuscolo, ci appare seriamente malata. Tanto più se, poi, cede. Se non è in grado, comunque, di garantire il rispetto delle scelte assunte dagli organi di governo legittimi; condivise dalla stragrande maggioranza della società.

    La colpa non è del 2 % degli intellettuali che si oppone, né dello 0,2 % della popolazione che manifesta. E’ delle istituzioni, delle autorità che si arrendono loro. Una democrazia che, come in troppe, altre, precedenti occasioni, si piega di fronte a pressioni minime. E non sopporta il minimo dissenso. E’ una democrazia minima.

    19 Gennaio, 2008 - 12:28
  17. LEONE

    A proposito di Conflitti, leggo oggi che la redazione di Jesus ha proclamato 20 giorni di sciopero per la rimozione del direttore Vincenzo Marras considerato troppo progressista.
    Leggo Jesus da anni e mi è sempre sembrato una rivista completa e attuale, certo con le sue posizioni ma decisamente non clericale.
    Se la notizia è esatta è molto molto deludente.

    19 Gennaio, 2008 - 12:32
  18. Iginio

    Mi scusera’ ma io non vedo proprio in che cosa si debba ammirare il fascista riciclato Dario Fo. Ergerlo poi a maestro di vita, mi sembra francamente troppo. Quanto alle sue “dotte” spiegazioni dell’arte medievale, voglia ancora perdonarmi se mi rifaccio al parere di chi vi ha visto solo l’ennesima rifrittura di un anticlericalismo stantio. Dario Fo e quelli come lui farebbero bene ad avere un po’ di umilta’ e a capire che il mondo non esiste per permettere a loro di stare al centro dell’attenzione. Magari potrebbero persino scoprire di dover imparare da qualcuno (magari persino il Papa), prima di pretendere di insegnare agli altri.

    19 Gennaio, 2008 - 14:49
  19. Iginio

    Una lectio magistralis di liberalismo

    di Salvatore Sechi

    L’università che prima invita e poi costringe il vescovo di Roma a disertare una manifestazione programmata da tempo sintetizza bene che cosa è la scuola di Stato in Italia. Non un luogo di libero confronto e di convivenza tra diversi, ma una comunità monoteistica.

    I laici sono diventati a pieno titolo clericali. Nelle aule in cui insegniamo si celebra un’unica verità, quella dei comunisti (che diventa livida e oltraggiosa in questa fase di declino), e si officia un pluralismo di facciata. Questo rito incolore, prendendo di mira Benedetto XVI, è stato la cartina di tornasole degli officianti, a cominciare dal Rettore, professor Guarini. Dietro la bandiera del laicismo, chi si è opposto all’invito al papa ospita una forma di clericalismo esausto, passivo, che emana l’aroma della consunzione. Niente, nei volterriani che hanno sbarrato la porta all’ingresso del novello Bellarmino, ricorda l’ intransigenza e la forza che nell’Ottocento aveva la massoneria, l’associazione clandestina alla quale la maggiore parte dei docenti, dei professionisti e degli uomini politici era iscritta.

    L’anticlericalismo dei liberali aveva dalla sua la lotta implacabile contro il potere temporale della Chiesa. La mancata accettazione di questa spoliazione da parte dei cattolici ha creato un vero e proprio roveto ardente. Lo scontro tra cattoli e liberali negli anni si convertirà, come osservò A.C. Jemolo, in un eccesso di punture di spillo dei primi (i vincitori) contro i secondi (i vinti), barricatisi nel rifiuto di riconoscere il fatto compiuto, la nascita dello Stato liberale. Cessarono quando, con le elezioni del 1913, i voti cattolici si rivelarono indispensabili per arginare la crescente influenza elettorale dei socialisti. Ma Sturzo, mobilitando i cattolici nella costruzione della società civile, mostrò che Cavour, liberando la Chiesa dalle incombenze della secolarizzazione, ne aveva esaltato la missione spirituale e anche la statura politica dei cattolici. Lo si vide nelle elezioni del 1919 col successo del Partito Popolare Italiano. In quelle precedenti, nel 1913, non il pluralismo, ma uno stato di necessità portò all’alleanza dei liberali conservatori con i cattolici, in nome della comune convenienza ad esorcizzare l’avanzare dei «rossi», come si diceva. Dopo la guerra di liberazione, i comunisti non si sentirono mai eredi di Cavour, Spaventa, Sonnino ecc… Ridussero la «quistione vaticana», come diceva Gramsci, a un problema di voti, costituzionalizzando il Concordato.

    Insegno da più di trentanni nelle università statali (Torino, Venezia, Bologna, Ferrara). Ebbene, non si discute di nulla. Non c’è mai dissenso, ma una morta gora di idee comuni, quella della sinistra laica e comunista. Si litiga sui posti, mai sui valori. Come non credente e liberale (anzi liberal-socalista: anche quando sono stato iscritto al Pci), le uniche volte in cui ho assistito a forme di discussione e di dibattito è stato quando i cattolici di Comunione e Liberazione hanno cercato di far valere le loro ragioni con iniziative, proposte, spazi di agibilità. Contro di loro si è sempre levata la reazione, direi il livore mai placato, delle sinistre. Il Pci ha fatto un’arma dell’alleanza offertagli dai cattolici filo-comunisti che fece battezzare, falsificando la storia del cattolicesimo dopo il 1861, come cattolici democratici. Il Papa non può entrare in una università, La Sapienza, fondata da un suo predecessore. Non può portarvi il suo punto di vista sul rapporto tra scienza e fede, la sua analisi del processo a Galileo Galilei, la sua interpretazione dell’origine cristiana del liberalismo. Se Ratzinger andasse a La Sapienza per una pubblica abluzione, facendo penitenza per l’errore e gli errori della Chiesa, assolverebbe ad una funzione grama. Il dibattito, infatti, presuppone il contrario, cioè posizioni diverse da opporre e su cui orgogliosamente confrontarsi.

    Da laico dico che il Papa è fondamentale per noi non credenti se resta il cardinal Ratzinger, un uomo di principi, ma anche il guardiano della Fede. Non deve barattarli, nè smussarli per avere il diritto di entrare in un’aula universitaria di Roma. A che cosa si sia ridotta la docenza, la comunità universitaria italiana l’ha confessato il ministro Mussi. Spende gran parte del suo tempo a promuovere azioni legali su carriere nate su inciuci e imbrogli. I concorsi universitari italiani non sono solo una cooptazione (che sarebbe ragionevole), sono anche una truffa e uno scambio di favori. Pertanto, se al Senato accademico di Roma debbono decidere a chi affidare una lectio magistralis, la prassi di politica culturale di cui sono figli li induce a scegliere qualcuno da regime interno, da orda che si riproduce. Il Papa, non andando a La Sapienza, ha mostrato che la cultura liberale si fonda sul conflitto, sulle differenze, sulle diversità. Chi non l’ha voluto pretendeva il contrario, cioè l’omologazione. Bendetto XVI ha preferito rispettare la posta in gioco, di restare, continuare ad essere cioè, l’altro. Una lezione magistrale di liberalismo.

    19 Gennaio, 2008 - 15:11
  20. Luigi Accattoli

    Dal padre Mario Barbero ricevo questo messaggio:
    Daveyton, 19 Gennaio 2008 (San Mario) Caro Luigi, Un affettuoso saluto e un grazie cordiale per il tuo blog che, anche dalla mia nuova sede in Sud Africa, leggo ogni giorno.
    In connessione con la mancata visita di Papa Benedetto alla Sapienza di questi giorni leggo varie diagnosi sulla stuazione della Chiesa, della fede, dell’ingerenza o meno della chiesa nella societa’. Discussioni interessanti ma che spesso sembrano ridurre la Chiesa a un’organizzazione o gruppo di potere. Qui nella nostra parrocchia ogni mese si visitano a domicilio le persone anziane e i malati (una settantina). In queste ultime settimane per due volte ci sono andato io. Case modeste, ma in genere ben pulite; molte persone che fanno difficolta’ a camminare o vittime di diabete o infarti. In genere hanno qualche famigliare vicino (figli o nipoti o pronipoti), non ho trovato persone del tutto sole. Quando arrivo per portare loro la Comunione (ad alcuni l’Unzione dei Malati), e pregare con loro, mi accolgono con molta gioia, i piu’ mettono una tovaglia su un tavolo, magari in cucina, accendono una candela e sono cosi’contenti di ricevere il Signore e di pregare. Li trovo sereni e raramente si lamentano della loro sofferenza. Se ci sono in casa altri famigliari, o vicini (anche non cattolici), si associano alla preghiera. Una giovane mamma con un bimbo di 6 mesi molto malato mi mando’ a chiamare per battezzarlo in casa. Nessun trionfalismo: una bacinella di plastica piena d’acqua, un bicchiere per versare l’acqua, una candela accesa sul tavolo di cucina, il padrino un ragazzo che mi accompagnava per trovare la casa : la gioia di qualla mamma che proprio voleva che il suo bambino fosse battezzato e lo chiamo’ “Mpho=DONO” in lingua sutu. In quella povera casa scese lo Spirito Santo e quel bambino, vero DONO, divenne membro del Corpo di Gesu’. Ringraziai quella mamma che volle trasmettere a suo figlio non solo la vita fisica ma anche quella spirituale. Questa mi sembra la Chiesa, e’ a questo livello che si vede che il Vangelo e’ reale, che la buona novella e’ annunciate ai poveri i quali l’accolgono, che quell’umile pezzo di pane consacrato e’ la presenza di Gesu’ che conforta e da’ forza. Quando vedo il sorriso di queste persone che mi ringraziano e mi dicono « I am so happy » ringrazio il Signore di essere cristiano e di essere prete.
    P. Mario

    19 Gennaio, 2008 - 15:55
  21. FINALMENTE !
    ci voleva questa lettera per rivedere che si toccasse terra,
    per vedere che esistiamo tra uomini semplici
    Finalmente si scende dai massimi sistemi
    Finalmente

    19 Gennaio, 2008 - 16:18
  22. Luigi portaci più a contatto con realtà di terra come quella di padre Mario.
    Grazie.

    19 Gennaio, 2008 - 16:19
  23. Sumpontcura

    Matteo,
    non “aut aut”,
    ma “et et”.
    A me sembrano testimonianza efficace di fede cristiana
    sia il discorso sui massimi sistemi del Vicario di Cristo,
    sia la “realtà di terra” di Mario Barbero.
    A me – non credente che cerca e non riesce (ancora) a trovare –
    Ratzinger e Barbero hanno entrambi comunicato un lungo brivido, una scossa, una voglia di piangere e di ridere.

    E guarda: non trovo fuori posto – per passare dall’immenso al piccolo, minuscolo, microscopico – neanche i sorrisi, le battutine, le battutacce, gli ammiccamenti del nostro “servite Domino in laetitia”.
    Affettuosamente

    19 Gennaio, 2008 - 18:31
  24. Sono perfettamente d’accordo sull'”et et”
    ma assolutamente
    no
    agli et 5% et 95%
    non c’è equilibrio

    Io purtroppo i brividi li percepisco solo nella concretezza della vita,
    o dinanzi al SSmo
    non dinanzi ai monologhi, soprattutto se non posso dimandare.
    Trovo che sia di grande intelligenza
    quando le persone si recano in sacrestia dopo la messa e possono parlare al prete sui dubbi che la Parola o le sue riflessioni hanno suscitato,
    ma
    questo non è possibile con chi si fa autorità autoreferenziale
    come molti nella Gerarchia e nella politica.
    Se poi il mio modo di vedere deve suscitare scandalo…. pazienza…!!!

    19 Gennaio, 2008 - 19:18
  25. mi è partito l’invio sul precedente commento-

    per finire,
    questo non significa che non abbia rispetto massimo per il “sentire” dell’altro
    ciao
    matteo

    19 Gennaio, 2008 - 19:21
  26. Sumpontcura

    Matteo (ore 19.18):
    la Chiesa è (o dovrebbe essere, credo) popolo di Dio, ma anche l’indispensabile gerarchia che, nella linea ininterrotta di Pietro e degli Apostoli, garantisca l’integrità del depositum fidei, secondo la volontà esplicitamente espressa da Cristo in persona.
    Mater et magistra, la Chiesa ti mette a disposizione un suo ministro che risponde alle tue domande ogni volta che ne senti il bisogno, ma anche uno dei massimi filosofi e teologi del nostro tempo sulla cattedra di Pietro: il tuo parroco e il dotto custode della Fede, il missionario e il “mastino del Sant’Uffizio”, Francesco d’Assisi e Tommaso d’Aquino. Di tutti questi ha bisogno il popolo di Dio, e le percentuali è il singolo credente a stabilirle, sulla base di quelle che ritiene le priorità, giorno dopo giorno.
    Quanto allo scandalo… io personalmente non ho mai provato scandalo di fronte alle tue affermazioni, anche quando proprio non me la sentivo di condividerle. Quel che mi piace nei tuoi interventi è la sincerità – a volte clamorosa, a volte, perdonami, irritante – e la benedetta mancanza di autocompiacimento. Leggendoti, ho sempre imparato qualcosa.
    Ciao e scusami per il tono un po’ professorale: è venuto così, ma credimi: è del tutto involontario.

    19 Gennaio, 2008 - 20:24
  27. raffaele.savigni

    Sono anch’io per l’et-et. Chi l’ha detto poi che chi va in piazza ad ascoltare il papa o a manifestare per la famiglia non vada anche (senza dirlo troppo in giro) a trovare i malati e le persone povere e sole? Gesù predicava alle folle nelle piazze e si ritirava a pregare in silenzio; incontrava lebbrosi, emarginati, prostitute, ma anche esponenti della classe dirigente ebraica o romana come Nicodemo o il centurione. Ognuno ha i suoi doni: deve metterli a disposizione di tutti e riconoscere quelli degli altri, diversi dai suoi.La Chiesa di papa Benedetto è la stessa di padre Barbero; ed ai tempi di san Francesco (che da parte sua aveva un grande rispetto per i preti che non vivevano poveramente come lui) c’erano anche san Domenico, i benedettini, i cistercensi…
    Io ho scelto di impegnarmi nel mondo della cultura, ma questo non significa che non mi accorga della vita e delle esigenze delle persone semplici intorno a me (anche perché vengo da una famiglia povera, con esperienza dell’handicap ecc.).

    19 Gennaio, 2008 - 21:16
  28. raffaele.savigni

    A Iginio (alias Salvatore Sechi): insegno anch’io all’Università, e in una regione “rossa”, ma francamente ora (diversamente da trent’anni fa, quando ero studente) non vedo tutta questa marea di “comunisti” all’opera. Vedo molti massoni, molti laicisti, molta gente di destra, molti indifferenti e qualche neoclericale che secondo me non fa il bene del Vangelo e della Chiesa. Non capisco poi perché debba sparare contro i “cattolici democratici”, alcuni dei quali hanno dato vita comnbattendo prima il fascismo, poi le Brigate Rosse (vedi Bachelet e Ruffilli). Il sottoscritto viene dall’Azione cattolica, si riconosce in parte nella categoria di “cattolico democratico” (intesa alla maniera di Maritain, Lazzati, Scoppola, non di Alberigo e Melloni: ci tengo a precisarlo). Un po’ più di rispetto per quei cattolici che non la pensano come lui non guasterebbe.

    19 Gennaio, 2008 - 21:32
  29. Luigi Accattoli

    Iginio forse ho fatto un apprezzamento eccessivo di quelle considerazioni di Dario Fo su “chi sia Ratzinger” – d’accordo – e c’era da tener conto delle sue riserve come sempre grosse e grossolane su vari aspetti dell’insegnamento cattolico – come giustamente ha fatto osservare Fabrizio – ma attenzione: io ho scritto “maestro dello sberleffo”, non “maestro di vita”!

    20 Gennaio, 2008 - 0:01
  30. lycopodium

    Pur apprezzando la buona volontà di Fo, il suo non mi sembra un approccio molto “filologico”; in realtà il Papa ha detto:
    «Al di là del suo ministero di pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro».
    Dunque, Gesù Cristo non è “uno” dei percorsi buoni, ancorché soggettivisticamente “privilegiato”, né tantomeno Lui è indirizzato verso un altro “Futuro” assoluto e assolutizzato.
    Così canta la liturgia pasquale: “Gesù Cristo è, era e viene / a Lui appartengono il tempo e i secoli”).

    20 Gennaio, 2008 - 10:26
  31. LEONE

    Ho letto stamane questa bella intervista a Padre Konvenbach sui suoi 25 anni a capo della Compagnia di Gesù, mi sembra un commento serio e pacato su
    25 anni di vita nella Chiesa su cui potremmo discutere per molto tempo.
    Buona domenica Leone

    Padre Kolvenbach: bilancio e prospettive della Compagnia di Gesù

    ROMA, sabato, 19 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l’intervista al padre Peter-Hans Kolvenbach S.I., ex Superiore Generale della Compagnia di Gesù, apparsa sulla rivista dei gesuiti “La Civiltà Cattolica”.

    * * *

    D.: Qual è il suo stato d’animo alla fine del suo servizio di Superiore Generale?

    Il mio stato d’animo, ora che sono giunto alla fine, non è molto diverso dall’inizio di questo lungo servizio di Superiore Generale. Il 13 settembre 1983 la scelta dei miei confratelli in un primo momento mi ha sorpreso, ma mi ha dato anche la fiducia che il Signore, che ha voluto così, mi avrebbe accompagnato in questa responsabilità ecclesiale. Vivendo per lunghi anni in un Vicino Oriente esplosivo, avevo imparato a vivere in una situazione conflittuale. Così sarei stato ben preparato ad assumere il governo della Compagnia, nella quale non mancavano membri allora in forte tensione con la Santa Sede.

    È vero che i padri Dezza e Pittau avevano già ristabilito un rapporto di fiducia con la Santa Sede. È anche vero che io avevo tutto da imparare dalla Compagnia universale, di fronte a tendenze secolarizzanti e a una teologia della liberazione la cui esistenza era sconosciuta nel Vicino Oriente. Più grave era il fatto che il mio compianto predecessore, padre Pedro Arrupe, non poteva fisicamente dirmi nulla dell’applicazione del Concilio Vaticano II, a cui si era generosamente dedicato nella Compagnia e nella vita consacrata. C’era però la Curia, con tante assistenze e segretariati, che mi hanno introdotto nella vita e nell’attività apostolica della Compagnia. Poi migliaia di incontri, di persona o per corrispondenza, mi hanno aiutato a compiere la missione che mi era stata affidata. Camminando nella sequela di Cristo sulle vie di Dio, non si eviteranno mai tensioni e conflitti. Non è però mancata mai l’unione degli spiriti e dei cuori, soprattutto nei momenti più difficili.

    Quasi 25 anni sono un tempo lungo, e ora la Compagnia ha bisogno di una nuova partenza e di sangue nuovo. Le conseguenze dell’età contribuiscono a formulare questo giudizio per il bene della Compagnia. Il Santo Padre ha benevolmente permesso che la Congregazione Generale discuta e accetti questa scadenza delle mie dimissioni. Io parto come sono arrivato, riconoscendo che il Signore ha voluto servirsi della sua minima Compagnia per la sua maggior gloria sotto il vessillo della croce e sotto il suo Vicario in terra.

    D.: Il suo generalato è stato lungo (e non poteva essere diversamente perché è stato eletto a vita): quali sono stati i momenti più significativi per la Compagnia durante questi anni?

    È difficile rispondere in poche parole a questa domanda, non soltanto perché i gesuiti lavorano un po’ dovunque nei cinque continenti, ma soprattutto perché a causa della loro spiritualità incarnata sono solidali con tutte le gioie e le pene della Chiesa e del mondo. Il fatto più significativo è che la presenza ecclesiale e la missione della Compagnia rimangono importanti. Essa è ben consapevole che il Signore si attende da lei una missione evangelizzatrice, chiara ed esplicita, servendosi di tutti gli strumenti apostolici che sono le numerose istituzioni educative e i meno numerosi centri sociali, specialmente al servizio dei rifugiati e di altre persone «in movimento», e che sono pure le parrocchie in numero crescente e i centri di ogni genere, dove è molto sensibile l’irradiazione degli Esercizi Spirituali, aiutando ciascuno e ciascuna a trovare la sua via personale verso Dio.

    Tutta questa attività apostolica sarebbe impossibile senza la collaborazione di un numero crescente di laici, spesso motivati dalla spiritualità ignaziana nella loro partecipazione di qualità all’opera della Compagnia. Con il rischio di non essere compresa o apprezzata, la missione della Compagnia rimane in dialogo con il mondo del nostro tempo e si colloca per vocazione alle frontiere dell’incredulità o della cattiva credenza, per portarvi la Buona Notizia del Signore.

    Tutto questo servizio è reso in condizioni di fragilità e di precarietà. Anche se in alcuni continenti le vocazioni non mancano — il numero dei novizi si mantiene attorno agli 800 —, in certe zone, come nel continente europeo, il ricambio è insufficiente e creerà fatalmente problemi per lo sviluppo, o almeno per il mantenimento, dell’attività missionaria. La prossima Congregazione Generale dovrà discernere come far fronte a un compito missionario che supera sempre più le nostre reali possibilità, con il pericolo incombente che uno sforzo sovrumano di mantenere tutta questa attività apostolica finisca per soffocare la sua ragione d’essere: «Aiutare le persone a incontrare Dio nella loro vita», perché questo ne è il principio e la fine, come diceva sant’Ignazio.

    D.: Nella vita di un Ordine, come in quella di ogni persona, esistono momenti e scelte positive e negative: secondo lei, in questi anni quali sono state le decisioni, le situazioni che avrebbe preferito non avvenissero?

    Fra le tante situazioni che si preferirebbe non conoscere, vorrei ricordarne due. Anzitutto il clima nervoso e teso nel quale devono lavorare tutti coloro che vorrebbero servire la Chiesa con la loro iniziativa, la creatività e la ricerca, in particolare i teologi. I Papi — da Paolo VI a Benedetto XVI, passando per Giovanni Paolo II —hanno esplicitamente desiderato che la Compagnia mantenga una solida formazione, per potersi impegnare nei settori di attività di punta e più difficili, nell’incontro delle ideologie, sul fronte dei conflitti sociali. Questo compito profondamente missionario, anche se assunto con uno spirito moderato e rispettoso della fede, ben presto è fatto oggetto di contestazione e di sospetto. È stata già l’esperienza di Matteo Ricci come di Pierre Teilhard de Chardin nel mondo scientifico, di san Roberto Bellarmino e del padre Henri de Lubac, prima disprezzati, poi apprezzati e riconosciuti. Durante questo lungo generalato il magistero della Chiesa ha dovuto pronunciarsi sul lavoro di pionieri, svolto nell’ambito del dialogo interreligioso, del dialogo con il mondo postmoderno, dell’incontro con le spiritualità dell’India, dell’atteggiamento verso certi teologi della liberazione. Questi interventi hanno consentito a tali ricerche teologiche di collocarsi più correttamente nei confronti della fede cattolica.

    Quando tali interventi della Santa Sede giungono al grande pubblico attraverso la stampa e la televisione, mancano il tempo e lo spazio per dire tutta la verità, e questi commenti dei mezzi di comunicazione prendono facilmente il posto del giudizio competente. Non c’è niente di strano che i teologi si scoraggino nel ministero che la Chiesa si attende da loro, con vigore e creatività.

    L’altro fatto che si sarebbe voluto non esistesse è la pubblicità che si è data, specialmente nei Paesi di lingua inglese, agli abusi sessuali commessi da preti e religiosi. È doloroso constatare che, dopo tanti anni di inchieste, non si finisce di scoprire nuovi casi. Oltre al fatto del peccato grave che ogni abuso sessuale comporta, e oltre all’offesa grave fatta a una persona umana, che esige un giusto risarcimento, la funesta pubblicità che la stampa sembra dare volentieri a tali fatti, senza dubbio condannabili, compromette seriamente la credibilità della Chiesa e della Compagnia nella loro efficacia apostolica.

    D.: Nella sua esperienza di Superiore Generale, anche all’interno dell’Unione Superiori Generali, lei ha potuto verificare una certa «stanchezza» della vita religiosa oggi, specialmente nelle società occidentali. Di quali segni ha bisogno la vita religiosa per rinnovarsi e continuare ad essere significativa per il Regno di Dio e i nostri contemporanei? È possibile trovarli o bisogna attendere che lo Spirito di Dio doni alla Chiesa un nuovo Santo fondatore o rifondatore?

    Non direi che la vita religiosa sia stanca: essa piuttosto si scopre davanti a una nuova situazione nella Chiesa. A partire dal Concilio Vaticano II i vescovi esercitano la loro responsabilità pastorale in comunione con tutte le forze vive delle loro Chiese locali, e i laici assumono molto più che in passato l’impegno per le Chiese, soprattutto nei movimenti ecclesiali. In questa nuova situazione la vita consacrata ha perduto tanti servizi prima resi in esclusività; anche la vocazione alla santità non è più sua propria, perché tutti vi sono chiamati. In queste nuove prospettive la vita consacrata si sente più che mai con il Concilio un «dono dello Spirito per la Chiesa», con tutta la gratuità e anche la precarietà che un dono comporta.

    Il Signore che cosa vuole che siamo per la sua Chiesa? Anche se la Chiesa non volesse perdere tutto ciò che la vita consacrata opera e fa, tuttavia il dono dello Spirito in tutta questa attività impressionante ed esemplare consiste nell’essere tra gli uomini i testimoni viventi del Signore in preghiera, come manifesta la vita contemplativa, del Signore povero, come manifesta la tradizione francescana, del Signore in missione, come è presente nella spiritualità ignaziana, del Signore vicino a ogni miseria umana, come avviene in tante famiglie religiose di carità spirituale e materiale. Con un ritorno a questa sorgente della vita consacrata che è il Signore, lo Spirito indicherà ciò che è da rinnovare e da continuare al servizio della Chiesa. Poiché la vita consacrata è un dono, nessuna famiglia religiosa può considerarsi indispensabile o eterna. Ancora oggi lo Spirito suscita nuove forme di vita consacrata come altrettanti nuovi doni alla Chiesa. Madre Teresa di Calcutta e Charles de Foucauld non sono che due beati fra tanti altri fondatori e fondatrici, che, mossi dallo Spirito, hanno iniziato una nuova vita tra i consacrati.

    Ma essere un dono implica pure — come dimostra ampiamente la vita e la morte di tante famiglie religiose — che a un certo momento la Chiesa ha bisogno di altri doni. La scomparsa di questa o quella famiglia religiosa resterà sempre per noi un fatto doloroso e misterioso, che ha senso soltanto nel mistero pasquale, che illuminerà sempre quelli e quelle che seguono il Signore più da vicino.

    D.: In questi anni certamente l’impegno a favore dei rifugiati nel mondo, il cui numero cresce ogni giorno, ha caratterizzato, almeno a livello di immagine, il servizio apostolico della Compagnia, oltre che la collaborazione con i laici (discussa da parte di alcuni per le modalità in cui viene attuata). La Congregazione per la Dottrina della Fede ha recentemente rinnovato l’invito a tutti a non abbandonare il lavoro di evangelizzazione e di annuncio. Nel rispetto delle scelte della Congregazione Generale in corso, che cosa si attende lei da tale impegno?

    La missione evangelizzatrice della Chiesa è una responsabilità unica che si sviluppa in una grande varietà di modi. San Luca ci racconta nel suo Vangelo che alcuni inviati di Giovanni Battista domandano a Gesù: «Sei tu colui che deve venire?» (Lc 7,19). E il Signore risponde richiamandosi ai suoi atti e gesti nella loro diversità: «I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano […], ai poveri è annunciata la Buona Notizia» (Lc 7,22).

    Il Papa Giovanni Paolo II ha tradotto questa missione di Cristo per il nostro tempo scrivendo che l’annuncio della Buona Notizia passa attraverso le dimensioni essenziali della testimonianza di una vita e della proclamazione della Parola di Dio, dell’invito alla conversione e della nascita di nuove Chiese locali, attraverso il dialogo e l’inculturazione, vivendo il comandamento nuovo dell’amore e impegnandosi nella promozione della giustizia voluta da Dio.

    La preoccupazione della Chiesa è che tutte queste attività si distacchino dalla loro ragione d’essere, che è l’annuncio della fede, e diventino attività forse buone in sé, ma nelle quali la missione evangelizzatrice non è più chiaramente visibile e sensibile. C’è una filantropia senza Dio e soltanto umana. La carità cristiana non è soltanto una beneficenza accompagnata da qualche parola del Vangelo. Essa proclama Cristo quando fa sempre il primo passo per andare in aiuto senza attendere un contraccambio, quando serve tutti e tutte, senza preferenze o esclusioni e soprattutto quando, come Cristo, non si accontenta di donare le proprie cose, ma dona la sua persona, la sua vita per amici e nemici.

    Già il Papa Paolo VI aveva insistito su una proclamazione integrale del Vangelo nel mondo d’oggi, e che non si isolasse o accentuasse unilateralmente una dimensione della missione a scapito di un’altra, cioè concretamente che non si separasse la promozione della giustizia dalla sua sorgente, che è l’annuncio della Buona Notizia che è Cristo.

    La Congregazione Generale dovrà valutare in quale misura tutto questo ventaglio di ministeri che la Compagnia assume — ministeri educativi e scientifici, pastorali e sociali — mantengono esplicitamente la vitalità e la proclamazione della fede, soprattutto dove il Signore non è conosciuto o è mal conosciuto. Si tratta di servire in tutto la missione di Cristo.

    D.: Come valuta lo stato attuale della Compagnia circa la sua unità e coesione, un valore sommo secondo l’ispirazione di sant’Ignazio?

    Sant’Ignazio insisteva sull’unità della fede nelle file dei gesuiti, ma la sua grande preoccupazione era piuttosto l’unione degli spiriti e dei cuori nella Compagnia. Fin dall’inizio la Compagnia era e voleva essere segnata dalla diversità di nazioni e di culture, di caratteri e di scelte apostoliche. I primi gesuiti si paragonavano volentieri al corpo degli apostoli attorno a Gesù, dove Pietro non era Giovanni, e Tommaso non era Giuda. Inoltre, poiché ancora oggi i gesuiti hanno il mondo intero come «casa» e sono sparsi nelle diverse parti del mondo, è necessario, come scriveva già sant’Ignazio, cercare ciò che può aiutare un’unione «che è costantemente da rifare, perché ci sono mille ragioni per disfarla». Inevitabilmente ci sono state e ci saranno tensioni tra i gesuiti. Era anche il motivo per cui sant’Ignazio e i primi compagni sono andati a Roma per trovare nell’unione con il Vicario di Cristo in terra, il Pastore universale, le vie da percorrere e le vie da evitare.

    Quando il padre Arrupe, dopo il Vaticano II, intraprendeva profeticamente la via tracciata dal Concilio, ha provocato forti tensioni in una parte importante della Compagnia, che ha chiesto al Papa Paolo VI il privilegio di rimanere gesuiti autentici. Il Papa ha risolto la questione in favore del padre Arrupe, e quella tensione non ha avuto come conseguenza una divisione o una separazione. Poiché la spiritualità della Compagnia è incarnata nella realtà della vita, ogni tensione nella Chiesa e nel mondo può avere ripercussioni nella Compagnia. È quasi un miracolo e certamente un dono di Dio che, nonostante la diversità sconcertante nella Compagnia, l’unione degli spiriti e dei cuori rimanga come un bene forte in questa «via verso Dio» che è la Compagnia di Gesù.

    D.: Un settore nel quale la Compagnia è impegnata sin dalla sua fondazione, sia pure, com’è ovvio, con modalità diverse a seconda dei tempi e dei luoghi, è quello della cultura, che lei ha accompagnato durante il suo generalato. Ritiene che la cultura oggi costituisca ancora uno strumento al servizio dell’evangelizzazione, e in che modo?

    Sant’Ignazio amava le espressioni culturali del suo tempo. Amava la musica e le danze, la letteratura cavalleresca e la calligrafia. Chiamato ad essere servitore della missione di Cristo, amava le grandi città, dove la popolazione si sforza di condurre la cultura umana al suo culmine. In una visione mistica vedeva Dio al lavoro e all’opera nelle culture umane.

    Di qui da parte dei gesuiti un approccio positivo, benché sempre critico, riguardo alle culture presenti nei luoghi e negli ambienti nei quali erano chiamati a lavorare. Gli alunni dei collegi ricevevano un’educazione cristiana che passava anche attraverso l’umanesimo classico, le arti e il teatro. Nell’incontro con le altre culture europee i gesuiti non sono sempre riusciti a integrarsi veramente in una cultura che non era la loro, con l’eccezione di esempi in Cina e nell’America Latina.

    C’è voluto del tempo per imparare la lezione della torre di Babele, dove Dio rifiuta la nascita di una cultura artificialmente uniforme per tutti e guarda alla festa di Pentecoste, quando tutti nella loro cultura ricevono e riconoscono le meraviglie di Dio. Per toccare il cuore dell’uomo, bisogna passare per il suo particolare ambiente culturale con tratti positivi e negativi che attraverso la nostra missione il Vangelo deve raggiungere. Ogni credente ha la propria fede inculturata, che, secondo la parola di Giovanni Paolo II, non deve imporre all’altro, ma deve proporla in un incontro inter-culturale alla ricerca del nostro unico Signore.

    Parlando propriamente, noi non evangelizziamo le culture: noi siamo chiamati a portare la Buona Notizia che è il Signore agli uomini nella loro cultura, perché senza tener conto dell’esperienza culturale di ciascuno il Vangelo non parla. Soprattutto in presenza di culture moderne e postmoderne, di culture secolarizzate e agnostiche, siamo chiamati a vivere in ogni cultura umana la dinamica della cultura d’amore che il Signore non manca di stimolare e di creare in noi. In questo senso la cultura è piuttosto il terreno che lo strumento dell’evangelizzazione.

    D.: Infine una domanda sulla «Civiltà Cattolica»: noi dipendiamo, da un punto di vista religioso, direttamente dal Superiore Generale, oltre ad avere un particolare legame con la Santa Sede, che ci rende un’opera «unica» e particolare all’interno della Compagnia. Vede un futuro per il nostro lavoro o «i tempi sono cambiati» e dobbiamo pensare ad altro, pur nel rispetto del nostro statuto pontificio?

    Dal 5 aprile 1850 la Civiltà Cattolica rende alla Santa Sede il servizio di disporre di una rivista nella quale in sintonia con il Vaticano le parole dei Sommi Pontefici possono essere illustrate e i fatti e i gesti della Chiesa trovano uno strumento competente di comunicazione.

    Oggi le «notizie religiose» fanno più facilmente parte dell’attualità, ma nei mezzi di comunicazione mancano il tempo e lo spazio per esprimere tutta l’importanza di queste notizie. Di qui un indispensabile ricorso alle riviste, dove La Civiltà Cattolica occupa una posizione unica grazie al suo legame con la Santa Sede. In questo senso la rivista si è resa indispensabile. Anche se può contare su un pubblico di lettori fedele e relativamente stabile, corre il rischio di dover fare fronte alla crisi generalizzata delle riviste, provocata dalla diminuzione di interesse da parte del pubblico e di conseguenza del numero di lettori. Le riviste sono in competizione con tante altre fonti di informazione più accessibili e più attuali. Anche La Civiltà Cattolica dovrà essere sempre più attenta alle trasformazioni in atto nei mezzi di comunicazione per adeguarvisi con prontezza, e così rimanere interessante e continuare con successo ancora maggiore il suo servizio al popolo di Dio.

    © La Civiltà Cattolica 2008 I 107-114 quaderno 3782

    20 Gennaio, 2008 - 10:33
  32. Iginio

    Anticlericali di ieri e di oggi. C’e’ qualcosa di nuovo sotto il sole
    di Roberto Pertici

    Gli avvenimenti di questi ultimi giorni hanno finalmente messo sotto gli occhi di tutti un fenomeno politico-culturale che i più avvertiti sentivano nell’aria da qualche tempo: la rinascita impetuosa (in diversi settori della cultura italiana, del mondo accademico e dell’informazione, della cosiddetta “società civile”) di un forte e conclamato atteggiamento anticlericale.

    Niente di nuovo sotto il sole, si dirà, non si tratta certo di una novità. In effetti, anche senza riandare all’assalto del 1881 contro il funerale notturno di Pio IX, alle fragorose campagne dell’«Asino» di Podrecca e Galantara o alle agitazioni dei “partiti popolari” dell’età giolittiana, basta concentrarsi sulla storia dell’Italia repubblicana, per individuarvi ritornanti ondate di anticlericalismo diffuso. La “supplenza” svolta dalla Chiesa negli anni della guerra civile (quando fu l’unica istituzione a cui gli italiani di ogni tendenza poterono sicuramente rivolgersi) e quindi la generale riconoscenza che l’opinione pubblica a lungo le serbò, vanificarono le previsioni (e le speranze) di quanti, fra i fuorusciti antifascisti, avevano dato per sicura una diffusa reazione alle sue “compromissioni” col regime appena caduto. Ma tra guerra e dopoguerra non pochi furono i sacerdoti (una recente indagine di Roberto Beretta lo ha ben documentato), che caddero vittime dei risentimenti, delle vendette, dell’odio di classe da parte di alcune frange dei vincitori.

    Un anticlericalismo prevalentemente satirico si sviluppò dopo le elezioni del 2 giugno 1946: nacque allora il «Don Basilio», che tanto scandalo avrebbe suscitato negli ambienti vaticani e democristiani. Più attrezzata culturalmente fu la campagna anticlericale della seconda metà degli anni Cinquanta, che accompagnò la gestazione della politica di centro-sinistra: ne furono promotori gli ambienti del neonato Partito radicale, allora fortemente presente in due prestigiosi settimanali come «Il Mondo» di Mario Pannunzio e «L’Espresso» di Arrigo Benedetti. Erano gli ultimi anni del pontificato di Pio XII, dominati – così almeno si diceva – dai potentissimi cardinali reazionari del Pentagono vaticano denunziato da Carlo Falconi. Infine le grandi campagne radicali per il divorzio e l’aborto degli anni Settanta fecero di nuovo risuonare note anticlericali, anche se non direi che esse ne abbiano costituito il motivo di fondo.

    2. Una spiegazione consueta descrive questi fenomeni come una reazione all’invadenza ecclesiastica, a una ripresa di iniziativa (avvertita subito come una “minaccia”) da parte della gerarchia o del Vaticano: insomma – come direbbero i sociologi – come un “fenomeno secondario”. Ma è davvero così? Si ha l’impressione che le cose siano in realtà più complesse.

    Fino a una cinquantina d’anni fa era prevalente un anticlericalismo a sfondo (potremmo dire) kantiano: esso era una forma di risentito moralismo contro i residui della Controriforma, la venalità dei preti, le loro inframmettenze nella politica, la morale lassista che veniva considerata tipica del cattolicesimo e corruttrice del carattere italiano. Tale anticlericalismo si diceva portatore di un cristianesimo filosofico-morale ben più genuino di quello ecclesiastico: «Io, modestamente, – scriveva Benedetto Croce nel 1947 – so di vivere in un continuo colloquio con Dio, così serio e intenso che molti cattolici e molti preti non hanno mai sentito nella loro anima». Da parte sua, Gaetano Salvemini scriveva nel suo testamento del 1957: «Se ammirare e cercare di seguire gli insegnamenti morali di Gesù Cristo, senza curarsi se Gesù sia stato figlio di Dio o no, o abbia designato dei suoi successori, è essere cristiano, intendo morire da cristiano, come cercai di vivere, senza purtroppo esserci riuscito. Ma cessai di essere cattolico quando avevo diciotto anni, e intendo morire fuori della chiesa cattolica, senza equivoci di sorta».

    Ne esisteva anche uno di matrice cattolica, che denunziava l’autoritarismo e le chiusure della gerarchia e che – in linea con una tradizione che risaliva al giansenismo sei-settecentesco – sperava in una politica fortemente laica da parte dello Stato proprio in vista di una purificazione e di una riforma della Chiesa: così molti dei nostri modernisti guardarono con grande simpatia alle leggi francesi di separazione del 1905, di cui invece alcuni laici come Francesco Ruffini sottolineavano gli elementi illiberali. Fra queste due anime furono perciò possibili scambi, amicizie e collaborazioni: insomma percorsi comuni.

    Ma già allora era presente un altro atteggiamento anticlericale: quello (potremmo dire) “primario”, che resta costantemente “sotto pelle”, anche nei periodi di bonaccia, ma che riemerge vivacemente nelle situazioni di movimento. Esso nasce da un atteggiamento di compatimento, quando non di vero e proprio disprezzo, del dato religioso, che viene considerato una specie di residuato storico: si può tollerarlo quando non pretende di avere rilevanza sociale, ma deve essere ferocemente attaccato allorché sembra rialzare la testa. E siccome quel dato è vissuto come un elemento di resistenza al progresso, che cerca privilegi politici o legislativi per resistere a un fatale tramonto, la mobilitazione che provoca è particolarmente martellante e intensa: tutti gli “illuminati” sentono il dovere di aderirvi.

    Questo tipo di anticlericalismo è spesso diventato (e ridiventa oggi) un rilevante elemento di mobilitazione politica e culturale. Quando? Uomini diversissimi come Salvemini prima della grande guerra e Togliatti dopo la seconda, rispondevano a questo quesito più o meno allo stesso modo: quando non si trova niente di meglio. Allorché determinati ambienti politici e culturali hanno difficoltà a elaborare strategie di ampio respiro, a tessere orditi complessi e ambiziosi, o sono stati costretti dalle dure repliche della storia a un ridimensionamento drastico dei loro progetti; quando vogliono sottolineare una logica di minoranza, a cui ormai sono rassegnati, si rifugiano nella propaganda anticlericale, che costa poco e, nel breve periodo, paga. Essa è, insomma, sintomo di un vuoto politico (Togliatti parlava, anzi, di «disperazione politica»), che si cerca di riempire con escamotages retorici, pose gladiatorie e ardimenti puramente verbali. Scendendo per un istante sul terreno della politica quotidiana, ma non è questo il caso del quotidiano «Il Manifesto», dei laici intemerati (da Boselli a Pecoraro Scanio) che pullulano nelle formazioni a sinistra del Partito democratico? Dello stesso Partito radicale, la cui esperienza di governo è così poco esaltante, che sente il bisogno di mostrare i muscoli nei temi a lui più consueti?

    3. Credo, tuttavia, che negli ultimi decenni siano emersi elementi nuovi, che mutano, almeno in parte, il quadro ora abbozzato. Innanzitutto la fine di un partito come il PCI, che giudicò sempre politicamente sterile l’anticlericalismo e lo arginò con una serie di scelte di grande significato come, all’Assemblea costituente, il voto favorevole all’art. 7 e, in seguito, l’opposizione a ogni iniziativa che mirasse all’abrogazione o alla modifica unilaterale del Concordato. L’area politico-culturale che occupava è oggi invece sempre più egemonizzata da una mentalità “borghese” (Ortega y Gasset evocherebbe la figura del “signorino soddisfatto”), convinta che la vita consista nello sviluppare ad libitum la propria soggettività e che tutto ciò che ostacola tale sviluppo sia una minaccia “reazionaria” che deve essere bloccata. Come aveva previsto Augusto Del Noce, alla “decomposizione del marxismo” è subentrata una mentalità neo-radicale, non più patrimonio di ristrette élites intellettuali, ma tendenzialmente di massa. Anche qui gli esempi non mancano: basti pensare al destino del quotidiano fondato da Antonio Gramsci e allo scempio che sta facendo di questa tradizione anti-anticlericale.

    In secondo luogo, oggi è in via di estinzione quello che ho chiamato l’anticlericalismo “kantiano”, perché potenzialmente in contrasto con la suddetta mentalità radicale. Di fronte ai temi sensibili dell’etica contemporanea, i suoi ultimi rappresentanti hanno avuto difficoltà a conformarvisi: Norberto Bobbio si diceva perplesso sul problema dell’aborto ed è difficile immaginare Sandro Pertini alle prese con i Dico. L’estrema vecchiezza di un cattolico malpensante come Arturo Carlo Jemolo fu amareggiata dalla pubblicazione di Porci con le ali, il libro scritto dal nipote Marco Lombardo Radice, al cui successo il vecchio professore non sapeva rassegnarsi.

    Il nuovo libertinismo di massa colora, dunque, anche l’anticlericalismo di sfumature nuove. Mentre il laicismo di Bobbio poteva convivere con un cristianesimo filosofico (l’unico vero cristianesimo ormai possibile, si diceva), l’anticlericalismo contemporaneo si coniuga sempre più con un’opzione nettamente antireligiosa e ateistica: i marxisti di una volta avrebbero parlato di un “materialismo volgare”, che di frequente si converte in uno scientismo acritico e aggressivo. Queste posizioni costituiscono un problema non da poco per il “cattolicesimo democratico” , anche per quello più alieno da ogni discorso identitario e più disposto allo “svuotamento”: in esso serpeggiano ostilità diffuse verso questo Papa e i suoi uomini (ah! i protratti silenzi e le tardive espressioni di solidarietà di Romano Prodi!), ma – a meno che non voglia privarsi di ogni retroterra ecclesiale ed… elettorale – è difficile che possa uniformarsi del tutto ai discorsi dei vari Odifreddi e dei loro mentori mediatici. Questo dualismo – a mio modo di vedere – costituisce forse il problema principale del neonato Partito democratico.

    Ma c’è un’ultima osservazione da aggiungere: i nuovi atteggiamenti anticlericali qui sommariamente evocati sono entrati stabilmente in quel “canone” , che costituisce il “perbenismo interessato” (come cantava Guccini) di questi anni. In quello del cantautore della nostra giovinezza, Dio moriva per poi risorgere, nell’attuale sembrerebbe morto per sempre. Come ogni perbenismo, questo “anticlericalismo obbligatorio” in nome della tolleranza – lo hanno spiegato benissimo Ernesto Galli della Loggia sul «Corriere» e Giancarlo Loquenzi su questo giornale – risulta invece sottilmente sopraffattorio: sembra ardito e prometeico, in realtà è conformista

    20 Gennaio, 2008 - 14:02
  33. Iginio

    All’Angelus per non diventare clericali

    di Marcello Pera

    Tratto da “La Stampa” del 19 gennaio 2008

    Sono due le ragioni principali per cui i laici dovrebbero essere presenti in massa domani in piazza San Pietro all’Angelus di Benedetto XVI. Una è culturale e si riferisce a un fatto da auspicare, l’altra è politica e riguarda un fenomeno da temere.

    La ragione culturale è: i laici devono distinguersi dai laicisti.
    Nel vocabolario corrente, laico è chi non crede, laicista è colui che crede che chi crede non abbia alcuna ragione per credere. Non è uno scioglilingua. Il laico non appoggia la propria concezione del mondo su una fede rivelata; il laicista ritiene che qualunque fede rivelata non abbia senso, se non banalmente privato, come un tic o un vizietto. L’uno non crede, o non riesce a credere, ma riconosce che la fede è una dimensione dell’esperienza umana che svolge una funzione propria, ad esempio il conferimento di senso alla vita, l’attribuzione all’uomo di un ruolo nel mondo, l’interpretazione del male.

    L’altro, il laicista, nega questa dimensione: la fede per lui è un’illusione o un fraintendimento o uno scacco alla ragione. Per sostenere la propria posizione, il laicista usa un’arma che ritiene micidiale, quella delle prove. «Che prove hai del tuo Dio?», chiede. Lo hai forse visto? Ci hai parlato? Un amico fidato lo ha incontrato? Ne hai dedotto l’esistenza da una teoria accettata? Ma basta rifletterci per capire che questa non è un’arma, bensì un boomerang. «Che prove hai dell’amore per tua moglie?». Lo ripeti a te stesso? Lei ti risponde? Lo confermano tutti? Un’esperienza quotidiana come questa fa capire che non tutte le «prove» si riducono a osservazioni, misurazioni, calcoli, ragionamenti. Nella vita degli uomini ci sono l’emozione, il sentimento, la passione, il senso interno, l’esaltazione, lo sgomento, la certezza morale. Sono prove anch’esse. Se il laicista non le avverte, lo si può compatire, ma se non le avverte e le nega, allora c’è da misurarsi con lui e sconfiggerlo, perché provoca danni.

    Il laicista infatti non è solo sordo e cieco. Negando diritto alla fede o deridendola come residuo mitologico, il laicista è supponente e tracotante: vuole imporre il suo punto di vista, vuole avere il monopolio della verità. Dice di seguire Galileo, ma di Galileo non capisce neppure la distinzione (e talvolta contrapposizione) fra verità di fede e verità di scienza. Per questo il laicista è antireligioso e soprattutto anticristiano.

    La ragione politica per accorrere all’Angelus è che i laici devono distinguersi dai clericali. Perché il laicismo, per inevitabile contrappasso, genera il clericalismo.
    C’è oggi in Italia e in Europa una domanda sempre più diffusa di identità. La paura dell’Islam, colpevolmente nascosta, e lo smarrimento di fronte alle pratiche bioetiche, deplorevolmente trascurato, la alimentano. Chi siamo noi? In che cosa crediamo? Quali diritti abbiamo e riconosciamo? Anche quello di ospitare gli intolleranti? Anche quello di praticare l’aborto eugenetico? Anche quello di nascondere e violare i valori della nostra tradizione? A questo bisogno di identità si lega la rinascita del fenomeno religioso: è la richiesta, dapprima smarrita poi confusa infine esplicita, di fondamenti, di basi solide, insomma di fede.

    Per merito suo e per bisogno altrui, Benedetto XVI è interprete illuminato di questa nuova domanda di religiosità e di identità. La gente lo sente, e accorre attorno a lui. La politica, invece, sente poco o nulla. Non ha capito per tempo la nuova domanda e non riesce a farsene interprete con le categorie sue proprie: una visione, una strategia, una leadership che non parli il linguaggio inerziale di un tempo: «il trono separato dall’altare», «libera Chiesa in libero Stato», e altre formule ieri utili e oggi vuote.

    Qualcuno, per la verità, fuori d’Italia, s’è svegliato. Tony Blair si è convertito al cattolicesimo, Sarkozy richiama le fonti della nostra civiltà cristiana, in Laterano come in Arabia Saudita. In Italia, invece, no, la politica tace. Con il rischio che, così come la gente, per avere risposta alla propria domanda, è costretta a saltare la politica e a rivolgersi direttamente agli interpreti della fede, anche i partiti politici facciano altrettanto, e si lascino solo guidare, trascinare, ordinare dalla Chiesa. Così il laicismo può produrre il clericalismo, e un leader politico sordastro può diventare un chierichetto furbastro, un «ateo devoto» preso alla lettera, non nello spirito sano di chi ha coniato l’ossimoro.

    I laici che hanno buona memoria e buona fede non possono volere questo esito. Siccome, fra tanti laicisti, colui che ha dato una vera lezione di laicità è proprio Benedetto XVI, i laici hanno una ragione in più per mostrargli un segno di gratitudine. Con una presenza pensata ai fini culturali e politici, non esibita a scopi elettorali e cinici.

    20 Gennaio, 2008 - 14:08
  34. suor Monica

    Caro Signor Luigi, sono una Suora e da tempo leggo con molto interesse, sul Regno, la Sua rubrica: “Io non mi vergogno del Vangelo” trovando sempre spunti bi bene e di bello che Lei sa cogliere dovunque, anche sulle scritte degli innamorati sul Ponte Milvio o giù di lì.
    Oggi voglio dirLe una parola sul Papa (forse se ne sono state dette tante che la mia è di troppo), anzi, no sul Papa, ma su quel Suo saper cogliere e vedere sempre con occhio buono ogni suo gesto, sempre aperto a cogliere il positivo, ciò che unisce, ciò che spinge a guardare in avanti, evitando i facili giudizi, grazie! Simpatici anche gli amici del suo blog! Saluti a tutti sr.Monica

    20 Gennaio, 2008 - 16:41
  35. Luigi Accattoli

    Benvenuta suor Monica nel mio blog! Sono contento delle sue parole. Grazie e torni a salutarci.

    20 Gennaio, 2008 - 16:44
  36. raffaele.savigni

    Ho trovato interessante l’intervista a p. Kolvenbach ed equilibrati e condivisibili i suoi giudizi.

    20 Gennaio, 2008 - 21:59
  37. Massimo D

    L’intera vicenda continua a procurarmi parecchia sofferenza.
    La ricerca ad effetto del colpo mediatico da parte di un Rettore altrimenti debole in termini di consenso e di immagine.
    La sgangherata critica dei fisici della Sapienza.
    La manifestazione “muscolare” in Piazza San Pietro.
    Mi pare che sia il momento per quelli che amano lo scontro, non per gli operatori del dialogo (e purtroppo alcuni interventi di questo blog sembrano confermarlo). Mi pare che si sia perso, da molte parti, il senso vero della laicità. Clericalismo e anticlericalismo si alimentano. Queste cose non fanno bene né alla chiesa né al paese.
    Lasciatemelo dire nel blog di un vaticanista di grande valore ed equilibrio.

    21 Gennaio, 2008 - 15:14
  38. Luigi Accattoli

    Grazie per i complimenti sempre graditi! Ci aiuti a dialogare più di quanto già qui non si faccia.

    21 Gennaio, 2008 - 16:15
  39. raffaele.savigni

    Concordo con chi dice “Mi pare che sia il momento per quelli che amano lo scontro, non per gli operatori del dialogo”. Ma credo che la colpa sia soprattutto dei laicisti (l’ultima “perla” è l’intervista a Bermnardini sul “Corriere” di oggi).

    21 Gennaio, 2008 - 18:33

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