Gli domandavano un segno dal cielo

“Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo”: così Luca al capitolo 11, versetto 16. Gesù ha appena scacciato “un demonio che era muto” e “uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle rimasero meravigliate”. Meraviglia delle folle e dubbio metodico di “alcuni”. Leggo il Vangelo di Luca con un gruppo di ragazzi (proprio oggi arriviamo a questo versetto) e continuamente ci areniamo sui miracoli e sui demoni: oggi come allora la meraviglia e il dubbio sono la reazione corrente ai “segni” operati da Gesù. Si direbbe che il Signore non abbia trovato impaccio più frequente alla sua predicazione che la ricerca di prodigi da parte delle folle. E io posso dire che la curiosità sui miracoli e sui demoni alletta assai il mio piccolo uditorio e l’induce spesso a deviare dalla strada maestra, che sarebbe quella di una lettura che punta a cogliere compiutamente la figura di Cristo nei suoi gesti e nella sua parola. Immagino che vi sia un insegnamento in questa ricorrente tendenza a tentare Dio, cioè – come dice il versetto – a “metterlo alla prova”. Mi sono fatto l’idea che ascolta davvero il messaggio di Gesù solo chi riesce ad andare oltre la schermatura esercitata dalla passione umana per i “segni dal cielo”. Senza dimenticarli perchè anch’essi fanno parte del Vangelo, ma riuscendo ogni volta ad andare oltre. A guardare cioè al significato cui il segno rimanda, senza cedere alla tentazione di accontentarci del significante.

17 Comments

  1. Luigi ha toccato qui un argomento credo fondamentale: quello della lotta contro i demoni e la differenza significato/significante. Discorso che solletica non poco l’attenzione di tutti noi, penso.
    Partiamo dai demoni. Padre Amorth, personaggio spesso sbertucciato da una certa corrente politica per la quale nel momento in cui dice che Harry Potter incita all’occultismo sta sicuramente dicendo fesserie, è uno dei più grandi testimoni dell’esistenza del Male. Di quell’essere che, come disse Paolo VI, agisce con proditoria astuzia. E il cui grande piacere è proprio quello di far credere che non esiste. E in tanti gli credono.
    Ho avuto spesso delle conversazioni con amici e colleghi non credenti, per i quali i diavoli cornuti sono solo delle invenzioni, che non sono capaci di dare la forza ad un essere di corporatura esile e fargli sollevare tavoli molto pesanti o parlare lingue sconosciute. Per loro l’idea che possano esserci delle forze simili è impossibile. Ci credano o no, spiego sempre loro che a) dovrebbero forse assistere ad un esorcismo, e che b) sarebbe meglio che, proprio perché non credenti o addirittura non battezzati, non si dessero alle sedute spiritiche. Perché il divieto ovviamente vale anche per i battezzati, ma il fatto di non essere ‘protetti’ dal Battesimo li espone a dei rischi maggiori.
    Ma, come ho detto, non sono in tanti a crederci. Auguro loro di non sperimentare mai cose come quelle che Amorth racconta nei suoi libri.

    Detto questo (ma l’argomento potrebbe essere approfondito meglio da un esorcista, e mi farebbe piacere se su questo blog qualcuno di loro prendesse la parola), passiamo a significante e significato. E’ quel benedetto discorso forma/sostanza, quella capacità di “discernimento” tanto cara ai Gesuiti, che qualche volta ho voluto accennare qui sul blog. Con risultati alterni, e qualche scontro. Oggi siamo proprio al punctum dolens, cari amici, ed è quello della necessità di “segni dal cielo” che spesso vengono attesi e poi giustificano scelte storiche per le proprie vite. Penso a Nino Manfredi che disse di non credere in Dio perché probabilmente l’Onnipotente si era preso un po’ di ferie durante l’Olocausto. Penso invece che Dio si sia ficcato almeno sei milioni di volte nei forni crematori, e abbia sofferto sulla sua pelle il dolore dell’Olocausto. E penso anche che la sua collera verso chi ha permesso tutto questo sia stata molto grande.
    La scommessa della fede, penso, è tutta qui: nel provare a capire la sostanza delle cose e non l’apparenza. Per esempio: Dio non mi ha guarito dal tumore, né padre Pio, dunque sono morto; hm… e se Dio invece avesse voluto chiamarmi a sé, se attraverso tutto questo avesse voluto farmi capire qualche cosa che ancora mi sfugge?
    Posso dire in coscienza (e ne rendo testimonianza perché sennò sarei solo un porco nel tacere), che anche se non ho affrontato queste prove tremende e prego Dio che nessuno le affronti mai, ma nella mia vita le parole silenziose di Dio si sono fatte e si fanno sentire. Che io non le ascolti a volte è un altro paio di maniche: ma sono giunto alla conclusione che davvero nulla accade per caso, e che alle volte occorre fare silenzio nella propria vita.
    E così accade nella vita di tutti noi. Mi pare stia scritto: “Solleva la pietra, volta il sasso, e lì mi troverai”. Ecco, è in questa dimensione intimistica, nell’essere vicini a Dio o meglio sapere che Dio è vicino a tutti noi, che finalmente al di là di tutto riesco a trovare pace.
    Un abbraccio a tutti voi.

    30 Ottobre, 2006 - 21:26
  2. UDIENZA GENERALE DI PAOLO VI

    Mercoledì, 15 novembre 1972

    “Quali sono oggi i bisogni maggiori della Chiesa?

    Non vi stupisca come semplicista, o addirittura come superstiziosa e irreale la nostra risposta: uno dei bisogni maggiori è la difesa da quel male, che chiamiamo il Demonio.

    Prima di chiarire il nostro pensiero invitiamo il vostro ad aprirsi alla luce della fede sulla visione della vita umana, visione che da questo osservatorio spazia immensamente e penetra in singolari profondità. E, per verità, il quadro che siamo invitati a contemplare con globale realismo è molto bello. È il quadro della creazione, l’opera di Dio, che Dio stesso, come specchio esteriore della sua sapienza e della sua potenza, ammirò nella sua sostanziale bellezza (Cfr. Gen. 1, 10, etc.).

    Poi è molto interessante il quadro della storia drammatica della umanità, dalla quale storia emerge quella della redenzione, quella di Cristo, della nostra salvezza, con i suoi stupendi tesori di rivelazione, di profezia, di santità, di vita elevata a livello soprannaturale, di promesse eterne (Cfr. Eph. 1, 10). A saperlo guardare questo quadro non si può non rimanere incantati (Cfr. S. AUG. Soliloqui): tutto ha un senso, tutto ha un fine, tutto ha un ordine, e tutto lascia intravedere una Presenza-Trascendenza, un Pensiero, una Vita, e finalmente un Amore, così che l’universo, per ciò che è e per ciò che non è, si presenta a noi come una preparazione entusiasmante e inebriante a qualche cosa di ancor più bello ed ancor più perfetto (Cfr. 1 Cor. 2, 9; 13, 12; Rom. 8, 19-23). La visione cristiana del cosmo e della vita è pertanto trionfalmente ottimista; e questa visione giustifica la nostra gioia e la nostra riconoscenza di vivere per cui celebrando la gloria di Dio noi cantiamo la nostra felicità (Cfr. il Gloria della Messa).

    L’INSEGNAMENTO BIBLICO

    Ma è completa questa visione? è esatta? Nulla ci importano le deficienze che sono nel mondo? le disfunzioni delle cose rispetto alla nostra esistenza? il dolore, la morte? la cattiveria, la crudeltà, il peccato, in una parola, il male? e non vediamo quanto male è nel mondo? specialmente, quanto male morale, cioè simultaneamente, sebbene diversamente, contro l’uomo e contro Dio? Non è forse questo un triste spettacolo, un inesplicabile mistero? E non siamo noi, proprio noi cultori del Verbo i cantori del Bene, noi credenti, i più sensibili, i più turbati dall’osservazione e dall’esperienza del male? Lo troviamo nel regno della natura, dove tante sue manifestazioni sembrano a noi denunciare un disordine. Poi lo troviamo nell’ambito umano, dove incontriamo la debolezza, la fragilità, il dolore, la morte, e qualche cosa di peggio; una duplice legge contrastante, una che vorrebbe il bene, l’altra invece rivolta al male, tormento che S. Paolo mette in umiliante evidenza per dimostrare la necessità e la fortuna d’una grazia salvatrice, della salute cioè portata da Cristo (Cfr. Rom. 7); già il poeta pagano aveva denunciato questo conflitto interiore nel cuore stesso dell’uomo: video meliora proboque, deteriora sequor (OVIDIO, Met. 7, 19). Troviamo il peccato, perversione della libertà umana, e causa profonda della morte, perché distacco da Dio fonte della vita (Rom. 5, 12), e poi, a sua volta, occasione ed effetto d’un intervento in noi e nel nostro mondo d’un agente oscuro e nemico, il Demonio. Il male non è più soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa.

    Esce dal quadro dell’insegnamento biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla esistente; ovvero chi ne fa un principio a sé stante, non avente essa pure, come ogni creatura, origine da Dio; oppure la spiega come una pseudo-realtà, una personificazione concettuale e fantastica delle cause ignote dei nostri malanni. Il problema del male, visto nella sua complessità, e nella sua assurdità rispetto alla nostra unilaterale razionalità, diventa ossessionante. Esso costituisce la più forte difficoltà per la nostra intelligenza religiosa del cosmo. Non per nulla ne soffrì per anni S. Agostino: Quaerebam unde malum, et non erat exitus, io cercavo donde provenisse il male, e non trovavo spiegazione (S. Aug. Confess. VII, 5, 7, 11, etc.; PL, 32, 736, 739).

    Ed ecco allora l’importanza che assume l’avvertenza del male per la nostra corretta concezione cristiana del mondo, della vita, della salvezza. Prima nello svolgimento della storia evangelica al principio della sua vita pubblica: chi non ricorda la pagina densissima di significati della triplice tentazione di Cristo? Poi nei tanti episodi evangelici, nei quali il Demonio incrocia i passi del Signore e figura nei suoi insegnamenti? (P. es. Matth. 12, 43) E come non ricordare che Cristo, tre volte riferendosi al Demonio, come a suo avversario, lo qualifica «principe di questo mondo»? (Io. 12, 31; 14, 30; 16, 11) E l’incombenza di questa nefasta presenza è segnalata in moltissimi passi del nuovo Testamento. S. Paolo lo chiama il «dio di questo mondo» (2 Cor. 4, 4), e ci mette sull’avviso sopra la lotta al buio, che noi cristiani dobbiamo sostenere non con un solo Demonio, ma con una sua paurosa pluralità: «Rivestitevi, dice l’Apostolo, dell’armatura di Dio per poter affrontare le insidie del diavolo, poiché la nostra lotta non è (soltanto) col sangue e con la carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori delle tenebre, contro gli spiriti maligni dell’aria» (Eph. 6, 11-12).

    E che si tratti non d’un solo Demonio, ma di molti, diversi passi evangelici ce lo indicano (Luc. 11, 21; Marc. 5, 9); ma uno è principale: Satana, che vuol dire l’avversario, il nemico; e con lui molti, tutti creature di Dio, ma decadute, perché ribelli e dannate (Cfr. DENZ.-SCH. 800-428); tutte un mondo misterioso, sconvolto da un dramma infelicissimo, di cui conosciamo ben poco.

    IL NEMICO OCCULTO CHE SEMINA ERRORI

    Conosciamo tuttavia molte cose di questo mondo diabolico, che riguardano la nostra vita e tutta la storia umana. Il Demonio è all’origine della prima disgrazia dell’umanità; egli fu il tentatore subdolo e fatale del primo peccato, il peccato originale (Gen. 3; Sap. 1, 24). Da quella caduta di Adamo il Demonio acquistò un certo impero su l’uomo, da cui solo la Redenzione di Cristo ci può liberare. È storia che dura tuttora: ricordiamo gli esorcismi del battesimo ed i frequenti riferimenti della sacra Scrittura e della liturgia all’aggressiva e alla opprimente «potestà delle tenebre» (Cfr. Luc. 22, 53; Col. 1, 13). È il nemico numero uno, è il tentatore per eccellenza. Sappiamo così che questo Essere oscuro e conturbante esiste davvero, e che con proditoria astuzia agisce ancora; è il nemico occulto che semina errori e sventure nella storia umana. Da ricordare la rivelatrice parabola evangelica del buon grano e della zizzania, sintesi e spiegazione dell’illogicità che sembra presiedere alle nostre contrastanti vicende: inimicus homo hoc fecit (Matth. 13, 28). È «l’omicida fin d a principio . . . e padre della menzogna», come lo definisce Cristo (Cfr. Io. 8, 44-45); è l’insidiatore sofistico dell’equilibrio morale dell’uomo. È lui il perfido ed astuto incantatore, che in noi sa insinuarsi, per via dei sensi, della fantasia, della concupiscenza, della logica utopistica, o di disordinati contatti sociali nel gioco del nostro operare, per introdurvi deviazioni, altrettanto nocive quanto all’apparenza conformi alle nostre strutture fisiche o psichiche, o alle nostre istintive, profonde aspirazioni.

    Sarebbe questo sul Demonio e sull’influsso, ch’egli può esercitare sulle singole persone, come su comunità, su intere società, o su avvenimenti, un capitolo molto importante della dottrina cattolica da ristudiare, mentre oggi poco lo è. Si pensa da alcuni di trovare negli studi psicanalitici e psichiatrici o in esperienze spiritiche, oggi purtroppo tanto diffuse in alcuni Paesi, un sufficiente compenso. Si teme di ricadere in vecchie teorie manichee, o in paurose divagazioni fantastiche e superstiziose. Oggi si preferisce mostrarsi forti e spregiudicati, atteggiarsi a positivisti, salvo poi prestar fede a tante gratuite ubbie magiche o popolari, o peggio aprire la propria anima – la propria anima battezzata, visitata tante volte dalla presenza eucaristica e abitata dallo Spirito Santo! – alle esperienze licenziose dei sensi, a quelle deleterie degli stupefacenti, come pure alle seduzioni ideologiche degli errori di moda, fessure queste attraverso le quali il Maligno può facilmente penetrare ed alterare l’umana mentalità. Non è detto che ogni peccato sia direttamente dovuto ad azione diabolica (Cfr. S. TH. 1, 104, 3); ma è pur vero che chi non vigila con certo rigore morale sopra se stesso (Cfr. Matth. 12, 45; Eph. 6, 11) si espone all’influsso del mysterium iniquitatis, a cui San Paolo si riferisce (2 Thess. 2 , 3-12), e che rende problematica l’alternativa della nostra salvezza.

    La nostra dottrina si fa incerta, oscurata com’è dalle tenebre stesse che circondano il Demonio. Ma la nostra curiosità, eccitata dalla certezza della sua esistenza molteplice, diventa legittima con due domande. Vi sono segni, e quali, della presenza dell’azione diabolica? e quali sono i mezzi di difesa contro così insidioso pericolo?

    PRESENZA DELL’AZIONE DEL MALIGNO

    La risposta alla prima domanda impone molta cautela, anche se i segni del Maligno sembrano talora farsi evidenti (Cfr. TERTULL. Apol. 23). Potremo supporre la sua sinistra azione là dove la negazione di Dio si fa radicale, sottile ed assurda, dove la menzogna si afferma ipocrita e potente, contro la verità evidente, dove l’amore è spento da un egoismo freddo e crudele, dove il nome di Cristo è impugnato con odio cosciente e ribelle (Cfr. 1 Cor. 16, 22; 12, 3), dove lo spirito del Vangelo è mistificato e smentito, dove la disperazione si afferma come l’ultima parola, ecc. Ma è diagnosi troppo ampia e difficile, che noi non osiamo ora approfondire e autenticare, non però priva per tutti di drammatico interesse, a cui anche la letteratura moderna ha dedicato pagine famose (Cfr. ad es. le opere di Bernanos, studiate da CH. MOELLER, Littér. du XXe siècle, I, p. 397 ss.; P. MACCHI, Il volto del male in Bernanos; cfr. poi Satan, Etudes Carmélitaines, Desclée de Br. 1948). Il problema del male rimane uno dei più grandi e permanenti problemi per lo spirito umano, anche dopo la vittoriosa risposta che vi dà Gesù Cristo. «Noi sappiamo, scrive l’Evangelista S. Giovanni, che siamo (nati) da Dio, e che tutto il mondo è posto sotto il maligno» (1 Io. 5, 19).

    LA DIFESA DEL CRISTIANO

    All’altra domanda: quale difesa, quale rimedio opporre alla azione del Demonio? la risposta è più facile a formularsi, anche se rimane difficile ad attuarsi. Potremmo dire: tutto ciò che ci difende dal peccato ci ripara per ciò stesso dall’invisibile nemico. La grazia è la difesa decisiva. L’innocenza assume un aspetto di fortezza. E poi ciascuno ricorda quanto la pedagogia apostolica abbia simboleggiato nell’armatura d’un soldato le virtù che possono rendere invulnerabile il cristiano (Cfr. Rom. 13, 1 2 ; Eph. 6, 11, 14, 17; 1 Thess. 5; 8). Il cristiano dev’essere militante; dev’essere vigilante e forte (1 Petr. 5, 8); e deve talvolta ricorrere a qualche esercizio ascetico speciale per allontanare certe incursioni diaboliche; Gesù lo insegna indicando il rimedio «nella preghiera e nel digiuno» (Marc. 9, 29). E l’Apostolo suggerisce la linea maestra da tenere: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci nel bene il male» (Rom. 12, 21; Matth. 13, 29).

    Con la consapevolezza perciò delle presenti avversità in cui oggi le anime, la Chiesa, il mondo si trovano noi cercheremo di dare senso ed efficacia alla consueta invocazione della nostra principale orazione: «Padre nostro, . . . liberaci dal male!»”.

    So di aver postato un documento piuttosto lungo, ma mi sembra ancora attuale.

    30 Ottobre, 2006 - 22:41
  3. Hai fatto bene a postarlo, Gianluca. Sono state grandi parole quelle di Papa Montini. Ma anche la gioia, per fortuna, la Exultet in Domino del ’75 è un grande segno del cielo.
    Cosa c’è di meglio della gioia?

    31 Ottobre, 2006 - 0:44
  4. angela

    La gioa è la cifra del pontificato di Benedetto xvi, insiema all’ Amore e all’ Incontro con Gesù persona viva e reale.
    Riusciamo ad incontrare Gesù anche nelle persone che ci fanno del male?
    E’ il proposito per me di questa mattina
    Angela

    31 Ottobre, 2006 - 8:31
  5. Francesco73

    Se fossi un teologo mi verrebbe da dire così.
    I demoni e i segni prodigiosi sono “uno” degli aspetti del cristianesimo, e l’approccio a questo segno deve essere ragionato, illuminato da un minimo di formazione biblica, calato nel contesto di una educazione complessiva alla fede e alla cultura. Direi che si tratterebbe di stare attenti all’abuso della propria e altrui credulità, soprattutto per il rischio di scambiare Dio con qualche idolatria. Insomma, mi muoverei un pò sulla linea della fede che cammina insieme alla ragione, che non evade da essa, che non si sposta su un altro campo.
    Però.
    Però avrei presente anche che i demoni e prodigi sono l’espressione dell’incredibile concretezza personale del cristianesimo, dell’Indicibile che entra dentro la vita delle persone e la ribalta. Luigi (che un pò teologo invece lo è davvero) sa bene che uno dei rischi della fede cristiana è proprio quello di pensarsi solo come filosofia, ovvero come insieme di significati che prescindono dal significante. Per cui non ha in fondo importanza che il prodigio sia avvenuto, nè che Saul abbia visto la luce e sia caduto da cavallo, nè che Maria abbia ricevuto l’Annuncio dell’Angelo, nè che Cristo sia veramente risorto, nè che lo Spirito si sia davvero manifestato come lingue di fuoco il giorno di Pentecoste. Nulla di tutto ciò, alla fine, interesserebbe come cosa successa, perchè quel che importa veramente è appunto il senso metaforico. Ecco, questa tendenza mi pare davvero che porti lentamente ma progressivamente verso una snaturazione della fede, e alla sua trasformazione in un discorso umano facilmente revocabile.
    Naturalmente non sono certo che oggi le Verità da credere possano essere semplicemente somministrate come “articoli”. Non siamo ai tempi di Pio X, e l’Annuncio è davvero in competizione con sollecitazioni e offerte di tutti i tipi e di grandissima potenza. Direi che resta solo la strada più difficile: un continuo sforzo di ricerca della ragione per voler “vedere” ciò che il cuore sente in forza di una commozione che irrompe, di un urto che si manifesta.
    La strada è stretta, ma noi abbiamo la capacità per tentarla.

    31 Ottobre, 2006 - 9:30
  6. marianna

    Cari blogger,
    è la prima volta che scrivo, ma trovo interessante questo sito per la possibilità di discutere liberamente.
    Non c’entra niente con l’argomento che qui trattate ma io ho una domanda e non so sotto quale messaggio postarla.
    Sabato e Domenica sono entrata in crisi perché non ho capito che intento hanno i giornali e le tv.
    Fino alla settimana scorsa tutti hanno messo Papa Benedetto XVI perché sarebbe stato l’autore di un documento che innalzava i tempi di prescrizione per i reati di pedofilia.
    A me questo innalzamento è sempre sembrato un bene per impedire la prescrizione di certi reati, ma invece tutti hanno sempre dato dell’insabbiatore a Ratzinger. Fino a sabato quando mi è sembrato di sognare: tutti avevano finalmente capito le ragioni di Ratzinger e ne avevano tessuto le lodi. Fino a domenica quando i giornali hanno scritto che l’ era stata ribadita dal Prefetto Ratzinger, ma non era merito suo perché è stato Papa Wojtyla a volerla con un motu proprio. Quindi tutti i meriti andavano a Giovanni Paolo II e non a Benedetto XVI. A questo punto non ho più capito nulla: di chi è il merito? Come mai prima si usa quel documento per accusare Ratzinger e ora si usa la stessa istruzione per esaltare Wojtyla? Qualcuno mi può spiegare?
    Signor Accattoli, perchè se le cose vanno male è colpa di Benedetto e se vanno bene è merito di Giovanni Paolo?
    Grazie.
    Marianna new entry

    31 Ottobre, 2006 - 12:17
  7. Luigi Accattoli

    Cara Marianna, vedo che lei condivide la sensazione di altri visitatori che accusano i media di pregiudizio antibenedettino. Io non ne sono convinto e più volte ho ricordato gli attacchi che per tanti anni e su tante questioni subì papa Wojtyla: le accuse di ingerenza nella politica italiana l’hanno accompagnato dall’elezione alla morte e quindi anche i più giovani le dovrebbero ricordare…
    Vengo alle sue domande.
    Chi ha accusato papa Benedetto per aver innalzato i tempi di oprescrizione? Non ho visto questa accusa.
    Condivido con lei l’idea che quell’innalzamento sia stato un bene: esso infatti fu deciso in risposta al montare dello scandalo, come un ampliamento della possibilità di fare giustizia. Tanto più quindi sarebbe utile conoscere chi ha dato quella lettura rovesciata, che – sinceramente – mi è sfuggita. Ma mi sfuggono tante cose.
    L’accusa di insabbiatore a Ratzinger – strumentale e polemica – non gli veniva mossa, generalmente, per quell’innalzamento e le altre innovazioni degli ultimi anni, ma per la prassi precedente, cui doverosamente si atteneva la Congregazione che egli presiedeva da tanti anni.
    Ovviamente le decisioni prese negli ultimi anni di Giovanni Paolo II erano condivise dal papa e dal prefetto e dunque tra i due va diviso il merito, o l’eventuale demerito.
    Ma non credo che lei cercasse queste considerazioni. Lei ce l’ha con qualcuno e con qualche articolo in particolare. Almeno credo. Penso non ce l’abbia con me, perchè nel servizio di domenica sul Corsera mettevo in chiaro il “ruolo chiave” che il cardinale Ratzinger aveva avuto nell’istruire il processo decisionale che aveva portato alla nuova disciplina e al nuovo linguaggio nel trattare questa terribile materia.
    Ma debbo dirle che non mi pare d’aver letto neanche in altri giornali i rovesciamenti di meriti che lei lamenta, almeno in questa occasione.
    Benvenuta nel blog! Luigi

    31 Ottobre, 2006 - 13:26
  8. Luisa

    Caro Tonizzo, complimenti per il tuo articolo” Padre Pio for president”,( per i nuovi utenti sappiate che Tonizzo scrive sul sito Affari Italiani). Sono stata molto sensibile alla tua conclusione dove tu parli dell`attesa di un “segno dal cielo”,e la condivido. Sono stata molto sorpresa di leggere questo sondaggio dove Gesù occupa uno degli ultimi posti fra le ” figure religiose” ai quali ci si rivolge nella preghiera. Ciò suscita in me molta perplessità e molte domande. Forse perchè da sempre in preghiera mi rivolgo direttamente a Dio, a Gesù o a Maria. Cari saluti, Luisa

    31 Ottobre, 2006 - 15:52
  9. Altro invito a cena per Luisa…
    Ti ringrazio per l’attenzione. Ma vedo che mi segui davvero con una puntualità… svizzera! 🙂
    Se vuoi sorprenderti ancora compra L. Sciascia, Cruciverba o La Corda Pazza (Einaudi), e cerca il saggio Feste religiose in Sicilia. Vedrai che sorprese…

    31 Ottobre, 2006 - 16:08
  10. Per quanto riguarda il sondaggio riportato anche da Affari Italiani ed effettuato su commissione di Famiglia Cristiana, non trovo l’esito sorprendente, nè scandalizzante. Penso solo che l’importante sia guardare al Cielo. Certo, guardare al Cielo, non importa se a Padre Pio o a Santa Maria Goretti; quello che conta è non trasformare questi Santi in idoli, perchè di Dio ve ne è uno solo.

    31 Ottobre, 2006 - 16:26
  11. Luisa

    Grande indiscrezione…. dimmi Tonizzo sei a Milano o a Roma ?…ma non sei obbligato di rispondere. Sì ti seguo giorno per giorno (non conoscevo questa espressione , l`ho sentita per la prima volta da Papa Benedetto e mi piace), hai uno stile molto personale, e sai catturare la mia attenzione nella forma e nel fondo dei tuoi articoli…anche se non sono sempre d`accordo! So che i complimenti ti mettono a disagio allora mi fermo qui !
    Grazie per i libri, sarà meglio che viaggi leggera durante il mio prossimo soggiorno italiano, sento che la mia valigia sarà al ritorno leggermente più pesante!
    Beh un sondaggio come quello ti fa riflettere, effettivamente a parte Santa Teresa
    di Lisieux non ho per abitudine di rivolgermi ai Santi.
    È una constatazione, non mi giudico per questo anormale !!
    Saluti, Luisa

    31 Ottobre, 2006 - 16:41
  12. Affari Italiani ha sede a Milano, c’è scritto nei “credits” del giornale. Se passi di qui l’invito è valido.
    Quanto ai Santi… il bello della Chiesa è questo: non ci sono devozioni obbligatorie a questo o quello.
    Ah, altra novella di Giovanni Verga: Guerra di santi. Intelligenti e rispettose riflessioni.

    31 Ottobre, 2006 - 16:51
  13. fabrizio

    A proposito di Santi, in occasione della ricorrenza di domani mi piace ricordare la più bella definizione che abbia mai letto:

    i Santi sono coloro “mediante i quali il Signore, lungo la storia, ha aperto davanti a noi il Vangelo e ne ha sfogliato le pagine”.
    Benedetto XVI, veglia della GMG di Colonia.

    31 Ottobre, 2006 - 18:03
  14. Luisa

    Sempre a proposito di Santi, vi segnalo su Zenit.org, il commento di Padre Cantalamessa alla liturgia della Solennità di Tutti i Santi :” la santità non è un lusso è una necessità”. Luisa

    31 Ottobre, 2006 - 19:14
  15. Leonardo

    Fuori tema, ma visto che ci stiamo indicando letture proficue, segnalo un bell’articolo di Maurizio Crippa, sul Foglio di oggi, dedicato all’analisi del linguaggio ecclesiastico, il famigerato ecclesialese, confrontato con quello di Benedetto XVI

    1 Novembre, 2006 - 14:47
  16. Maria Grazia

    Grazie Leonardo 🙂 L’articolo è entusiasmante! Chi,riferendosi a Papa Ratzinger,nega che sia un grande comunicatore,commette l’errore giornalistico più grave che possa esistere. Copio e incollo l’articolo segnalato da Leonardo:

    POVERTÀ CULTURALE DELL’ECCLESIALESE
    Il linguaggio del cardinale Tettamanzi non attinge la realtà e chiama l’applauso facile della cultura sociologica
    di Maurizio Crippa

    Registriamo una più diffusa ed esplicita consapevolezza della ‘distanza’ (nel senso di estraneità o/e di antitesi) che nel
    nostro contesto socio-culturale e insieme ecclesiale esiste tra la fede cristiana e la mentalità moderna e contemporanea???. Registriamola pure questa “distanza???, per carità. Non si vuole certo far torto al cardinale
    che sta “declinando il riferimento alla comunione ecclesiale in termini di universalità???, nonché “l’accresciuta ricchezza ecclesiale nella modificata situazione sociale-culturale-ecclesiale???.

    Verona, 16 ottobre 2006. Apertura del Convegno ecclesiale nazionale, i decennali stati generali della chiesa italiana. E’ il cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi che parla. L’arcivescovo della più grande arcidiocesi europea e segretario del Comitato preparatore del Convegno, come vent’anni prima lo era stato il suo predecessore sulla cattedra di Ambrogio, Carlo Maria Martini, al Convegno di Loreto. Sua eminenza Dionigi Tettamanzi parla. Parla del “compito
    di elaborare – con un’interpretazione che sappia intrecciare fede e ragione, teoria e prassi, spiritualità e pastoralità, identità e dialogo – una rinnovata figura antropologica sotto il segno della speranza???.
    Registrare per registrare, nella platea dei convegnisti si registra qualche sbadiglio, qualche insofferenza. Ma minoritaria. La gran parte dei duemilasettecento delegati appare in sostanziale sintonia con quel linguaggio,
    col suo modo un po’ circonvoluto, un po’ socio-burocratico di porgere i concetti. E lo si vedrà nei giorni seguenti, nel tono generale del lavoro dei “gruppi???, dove la comunione ecclesiale è innanzitutto comunanza gergale, un modo di parlare, di definire temi e problemi. E non è solo il cardinale Tettamanzi. E’ il tono caldo e alto della Relazione di Paola Bignardi, campionessa del laicato cattolico ex Azione cattolica, è il tono dei religiosi che si alternano nelle
    “riflessioni??? ai microfoni del salone. Registrare per registrare, il resto della laica società italiana, e qualche pezzo di chiesa, registrano invece una diffusa sensazione di estraneità, di sordità a quelle parole.
    Tettamanzi ammonisce: “Siamo consapevoli che l’essere oggi ‘testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo’ domanda una comunione missionaria tra le diverse categorie di fedeli più compattata e dinamica???.
    Che cosa segna la differenza – perché la segna, bisogna avere orecchio e non è necessario aver studiato teologia, ma la segna eccome – tra questa frase e la frase dal contenuto semantico pressoché identico, che Benedetto
    XVI ha pronunciato sempre a Verona, durante l’omelia della Messa al Bentegodi: “Occorre tornare ad annunciare con
    vigore e gioia l’evento della morte e risurrezione di Cristo, cuore del Cristianesimo????
    Essere testimoni di Gesù Risorto “domanda una comunione missionaria tra le diverse categorie di fedeli???, oppure occorre “annunciare l’evento della morte e risurrezione di Cristo???? Che differenza c’è tra questi due linguaggi? Cosa fa sì che l’uomo comune – il famoso “lontano??? ma anche magari il semplice battezzato che va a Messa – di fronte a un certo tono ecclesiale faccia fatica, come sbattendo contro un muro, per quanto imbottito, come trovasse un che di
    respingente, ultimamente di incomprensibile?
    Registriamo anche questo. E proviamo a declinare il come e il perché. Dionigi Tettamanzi è un teologo moralista,
    professore di seminario e prolifico estensore di testi sulla morale familiare (un “Dizionario di bioetica???, tra gli altri), nonché affidabile goshtwriter dei documenti bioetici firmati da Giovanni Paolo II. Non proprio un temibile progressista, insomma. Ma come un vino ben invecchiato e decantato, gli intenditori annusano in un bicchiere di buon Tettamanzi un complesso sedimento di sentori e retrogusti. Più fresco e recente, subito al naso e un po’ superficiale,
    c’è una fragranza di Sant’Egidio. L’amore tra il cardinale di Milano e la comunità trasteverina è cosa di questi ultimi anni. In lui i sant’egidini hanno trovato una nuova ala protettrice e un candidato spendibile (prima al Soglio, poi come erede di Ruini) per quanto alla prova dei fatti perdente; in loro il cardinale ha trovato i suggeritori adatti per offrirgli quella proiezione sui temi sociali e internazionali che gli mancava. Quando pronuncia frasi del tipo “una nuova visione e realizzazione della mondialità e della grande questione della giustizia e della pace???; quando dice che le altre religioni non “hanno nulla da temere??? dal cristianesimo, sono le bollicine di Trastevere che salgono su a pizzicare il naso.
    Bisogna anche dire che da tempo Sant’Egidio ha allargato i propri orizzonti, sta stretta nella casella multiculturalista, e il suo leader Andrea Riccardi è giunto a riconoscere l’interesse di certune posizioni laiche in riferimento al cristianesimo. Ma il briefing non dev’essere ancora giunto all’arcivescovado di Milano.
    Sant’Egidio è l’essenza odorosa del cardinale. Ma sul palato, per prima cosa, senti sempre un dolce sapore giovanneo, una memoria lontana e padana del buon curato di campagna. Non è neppure questo, però, che fa la struttura. La stoffa la fa il tecnico della morale, abituato a guardare le cose solo dal punto di vista dell’etica, della conseguenza. Raramente da quello della loro essenza. Il doverismo del “dobbiamo sforzarci???, del “possiamo e dobbiamo riconoscere???, dello “stile virtuoso della speranza???. Il tutto immerso e stemperato in quel gergo curiale, da apparatnik ecclesiale (non è un atteggiamento solo suo) che è l’aspetto più evidente a occhio nudo, anche ai più inesperti, come il colore rosso del vino: “Connotata dalla tensione escatologica, la comunione ecclesiale può ritrovare l’umiltà e la conversione di fronte alle sue diverse forme di lacerazione???.
    Ecclesialese, si dice pure: il linguaggio della chiesa che parla (solo) a se stessa. Roberto Beretta, giornalista di Avvenire, qualche anno fa ha scritto “Il piccolo ecclesialese illustrato??? (ed. Ancora), un gioiellino di pungente ironia che, nella forma del dizionario, smaschera i luoghi comuni e le finzioni prive di contenuto di una koiné, un linguaggio, che s’è impadronito della comunicazione della chiesa. “Nel trentennio in cui la comunicazione ecclesiastica ha abbandonato
    i suoi canoni secolari per cercare di farsi comprendere meglio dalle persone comuni, sembra che la gente non la
    capisca più???. Per pigrizia, per pavidità o addirittura per non avere niente da dire, spiega Beretta, che ha appena rincarato la dose con un altro libro puntuto, “Da che pulpito???, in cui si fanno le bucce all’omiletica contemporanea: “Soprattutto c’è un’incapacità di dire, aggravata dal fatto che la chiesa parla troppo, si fanno troppi discorsi
    e alla fine è quasi normale che prevalga la ripetitività, il formulario che dice poco ma dà l’impressione di aver sondato la massima profondità (anzi adesso si dice ‘altezza’) teologica possibile???.
    Fin qui un po’ d’irriverenza. Ma la sempiterna battuta morettiana, “chi parla male, pensa male e vive male???, forse va bene anche per l’ecclesialese, dove “la laurea in sociologia non è necessaria, ma aiuta???. Nel cattolicesimo c’è un difetto di comunicazione, frutto di automatismo, ma non solo. Soprattutto, sentenzia Beretta, “uno comunica se ha qualcosa da dire???. Giudizio a suo modo definitivo. Così è per Benedetto XVI, che le parole per dire ciò che vuole le trova, sia
    quando traccia millimetrici solchi dottrinali a difesa della Verità, sia quando a Verona aggira tutte le trappole sociologiche e parla piano e cristallino: “Il cristianesimo è infatti aperto a tutto ciò che di giusto, vero e puro vi è nelle culture e nelle civiltà, a ciò che allieta, consola e fortifica la nostra esistenza???.
    Oppure quando il 6 ottobre scorso, e parlava proprio alla Commissione teologica internazionale, si è trovato a esordire: “Non ho preparato una vera omelia, solo qualche spunto per fare la meditazione???. Per poi cavare la splendida invenzione linguistica: “L’obbedienza alla verità dovrebbe ‘castificare’ la nostra anima???, per spiegare che “parlare per trovare applausi, parlare orientandosi a quanto gli uomini vogliono sentire, parlare in obbedienza alla dittatura
    delle opinioni comuni, è considerato come una specie di prostituzione della parola e dell’anima???. Viceversa, nell’ecclesialese spesso prevale – definizione da dizionario – “la riluttanza alla fatica di spiegare (anzitutto a se stessi) le ragioni del credere???.
    Da dove nasce dunque non diremo l’afasia – per parlare, si parla – ma l’afonia della chiesa? O almeno di quella che sempre vuole ripartire “dallo spirito del Concilio??? e che a Verona si è specchiata di più nel morbido cardinale di Milano che in certe ruvidezze programmatiche del presidente della Cei Camillo Ruini? Il compianto giornalista Giovanni Fallani – che tra le altre cose fu il primo direttore del Sir, l’agenzia di stampa dei vescovi – iniziò a raccogliere appunti sull’ecclesialese quando, seguendo i lavori del Concilio, per la prima volta sentì parlare di “piano pastorale???. Ne trasse
    una mirabile vignetta, che ora fa da copertina al “dizionario??? di Beretta. Soprattutto, si mise ad appuntare sul taccuino tutta una serie di termini e locuzioni in codice che risultavano incomprensibili a lui (figurarsi ai suoi potenziali lettori) ma su cui i Padri sinodali sembravano intendersi come un sol uomo. Il dubbio che il Concilio Vaticano II sia stato, in qualche modo, anche un prodotto linguistico degli anni Sessanta, è dubbio sommamente irriverente.
    Ma riaffiora come un sentore asprigno ogni volta che di quell’assise universale si parla nei termini di “difficoltà di un cristianesimo sempre più chiuso in se stesso, lontano dai bisogni e dall’evoluzione della società???, come ancora lunedì ha fatto il professor Giuseppe Alberigo, il Paolo Sarpi del Vaticano II, ricordando il decennale della morte di don Giuseppe Dossetti, “il partigiano del Concilio???, come lo definì il cardinale Léon Joseph Suenens. Del resto, se ci fu un
    punto su cui i Padri sinodali si spaccarono la testa, ma nella sostanza si trovarono d’accordo, fu che “rivolgersi al mondo profano comporta l’adozione del linguaggio profano, fuori del gergo???. (“Acta Synodalia Sacrosancti
    Concilii Oecumenici Vaticani II???).
    Eppure, mai come negli ultimi decenni è brillato nella chiesa il primato della Parola. Assaporando gli aromi più riposti del
    bouquet di Tettamanzi, se ne trova uno che è un lascito diretto del cardinale Martini, suo predecessore per oltre vent’anni a Milano. Gesuita studioso e ottimo biblista, Martini ha tracciato un solco profondo fatto di “Scuole della Parola??? e “lectio divina???, in cui oggi continuano a peregrinare non solo il suo successore, ma anche la gran parte dei fedeli di tutte le diocesi: quelli che in Martini hanno trovato per lungo tempo una sorta di antidoto riflessivo all’irruenza
    kerygmatica di Giovanni Paolo II.
    Il professor Pietro De Marco, docente alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, prova a scavare più al fondo: “Nel linguaggio della chiesa cattolica c’è stata una lunga penetrazione del linguaggio teologico protestante, non imputabile tanto o solo al Concilio, poi ricaduta a cascata anche sul linguaggio della pastorale e nell’uso comune dei sacerdoti???. E’ come se, a un certo punto, i cattolici avessero trovato maggiore rispondenza in quello stile caldo, moraleggiante
    e spirituale che è tipico del protestantesimo, non fosse altro perché lì tutto è centrato sulla Parola “letta, pregata, cantata, spiegata???, come scrive il teologo valdese Ermanno Genre. Spiega De Marco: “E’ uno stile, per esempio, molto aggettivato, per il quale la chiamata di Dio è sempre ‘la chiamata forte’ di Dio, l’impegno è sempre ‘fiducioso’,
    la speranza sempre ‘indomita’. E poi zeppo di avverbi, di esortazioni. Molto lontano dal linguaggio cattolico tradizionale, assai meno portato a ‘scaldare i cuori’, sempre più vicino al dogma e all’istituzione che alla morale???. D’altra parte, riflette De Marco, “il Concilio ha avuto come perno l’idea di una teologia non dogmaticistica, che
    potesse essere resa comprensibile al mondo attraverso un linguaggio non teoretico???.
    Il linguaggio medio della chiesa italiana, quello maggiormente udito a Verona, è frutto di questa lunga deriva. Anche se pochi lo ammettono apertamente, sono in molti oggi a ricordare che persino nei seminari per lungo tempo è stato più naturale leggere i testi del teologo calvinista Karl Barth o di Rudolf Bultmann, il “teologo della demitizzazione???, le cui parole ricascavano poi inevitabilmente nella costruzione dei piani pastorali e persino nella catechesi delle parrocchie.
    Con la non banale differenza che la parola di un teologo luterano come Dietrich Bonhoeffer aveva un’altra forza e un’altra sostanza: “Non dobbiamo pensare a un cristianesimo che si giustifica davanti al tempo presente, ma a una giustificazione del tempo presente di fronte al messaggio cristiano… Dove il presente si trova davanti alle pretese di Cristo, là è il presente???. Parole dette negli anni Trenta, che oggi sarebbero giudicate assai poco dialoganti e che probabilmente non avrebbero incontrato l’applauso di un buon numero di delegati veronesi della chiesa del terzo millennio.
    E’ un problema di forma e perciò di contenuto. Quanta differenza passa tra dire che “certo, nessuno di noi può minimamente negare o attenuare l’esistenza dei tantissimi mali, drammi, pericoli crescenti e talvolta inediti dell’attuale momento storico???, e dire invece come Papa Ratzinger: “Nella nostra epoca, nonostante tutti i progressi compiuti, il male non è affatto vinto; anzi, il suo potere sembra rafforzarsi e vengono presto smascherati tutti i tentativi di
    nasconderlo???? Da una parte un cristianesimo che esprime senza timore ciò che è, senza porsi il problema preventivo di venire a patti col mondo. Dall’altra, per dirla con Sandro Magister, “una chiesa mite e amichevole con la modernità, silenziosamente mescolata alle forze del progresso, invisibile come ‘lievito nella pasta’, concentrata sullo spirituale e sul primato della coscienza individuale???. E’ la famosa “kenosis???, “lo svuotamento??? – parola che sta superando nella moda ecclesialese persino la “parresìa???, il dovere di parlare chiaro – tanto cara al priore di Bose, Enzo Bianchi, profeta di una “chiesa che ascolti prima di parlare???. La differenza sta nell’ontologia. In una certa tendenza di lungo corso da parte della chiesa – di parte della sua gerarchia – a lasciare tra parentesi le questioni ontologiche, guarda caso quelle legate alla ragione: dalla riflessione sul cosmo, tema appassionatamente ratzingeriano, al fatto che “la risurrezione
    di Cristo è un fatto avvenuto nella storia, di cui gli Apostoli sono stati testimoni e non certo creatori???, come ha detto il
    Papa a Verona, tagliando corto con le interpretazioni.
    Al contrario, teologi e catechisti si sono arroccati nella difesa dell’etica, nel richiamo spesso stucchevole, quasi mai efficace, non alla fede ma al dover essere della fede. Il risultato per la chiesa è molto spesso di avvilupparsi in un metalinguaggio – come direbbero i semiologi degli anni Sessanta – che non parla più della realtà (di quel che
    accade e interessa agli uomini), ma diventa un discorso che fa riferimento ad altri discorsi teologici (nel caso migliore, una riflessione sulle Scritture). Da una parte assumendo a ideale le categorie del politicamente corretto: “Proprio nella chiesa, in una maniera nuova e rinnovatrice, può e deve realizzarsi la comunione più variegata e talvolta più difficile: è, per esemplificare, la comunione tra uomini e donne, giovani e adulti, ricchi e poveri, studenti e maestri, sani e malati, potenti e deboli, vicini e lontani, cittadini del paese e cittadini del mondo???.
    Così che, parrocchia che vai, ci si ritrova sempre a discutere di “accoglienza??? e di “ascolto???, di “dialogo??? e “oblazione???. Di come meglio “riconoscere il volto dell’altro???, che fa sempre molto Lévinas. Dall’altra parte, rispolverando un afflato ottimista che si appoggia, più che sul Concilio, sulla conciliabilità della fede. Un ritorno allo spirito “volutamente ottimista??? del Vaticano II, ha detto Tettamanzi, che “invece di deprimenti diagnosi??? seminava “incoraggianti rimedi;
    invece di funesti presagi, messaggi di fiducia???. Per il professor De Marco, in fondo il vero problema non sta in che cosa questo linguaggio possa dire: nessuno ci troverà qualcosa di sbagliato, di men che fedele all’ortodossia. Il vero problema “è che cosa sia impossibilitato a dire. A furia di ottimismo, di accoglienza della diversità, di ‘cammini
    comuni di conversione’ non si è più in grado di esprimere un contrasto, di dire che una cosa è contraria alla fede o alla chiesa come istituzione. Ancor più, non puoi parlare della realtà: vediamo benissimo come sia difficile, per i credenti, impostare un dibattito su questioni di interesse pubblico, ad esempio i temi bioetici, basandosi sulla ragione, anziché su un loro risvolto etico???. Un giorno un superlaico come Enrico Ghezzi ebbe a dire di Giovanni Testori che “il suo supremo coraggio??? era stato quello “di usare la parola peccato senza che a nessuno venisse la voglia di ridere???. Testori, al contrario, diceva che quando aveva scritto per il Corriere della Sera i suoi articoli più urticanti sulla condizione della fede nel mondo moderno, “nessun vescovo, nessun cardinale, nessun uomo politico della Democrazia
    cristiana mi ha contattato???.
    Linguaggi, che alla fine mettono in campo concezioni della chiesa assai diverse. Nel suo elogio di Dossetti, pubblicato su Repubblica lunedì, il professor Alberigo spiega come alla base delle posizioni dossettiane, la punta avanzata del progressismo conciliare, sta “la necessità che la chiesa scelga la ‘povertà culturale’, cioè la rinuncia al potere fondato su illuministiche certezze dottrinali???. Dove il richiamo all’illuminismo e alle certezze razionali della fede non appare per nulla casuale, ma pertinente e centrale nell’attualità del richiamo del Papa all’incontro “tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione??? del discorso di Ratisbona. Nonché ai tanti laici che in varia misura si sentono colpiti, perlomeno
    interessati, dalle parole del Papa professore. Fosse anche solo perché capiscono quello che dice. Il presule milanese a Verona “registra???, “declina???, “intreccia???, parla del “compito di elaborare???, si rivolge a “categorie di fedeli??? Chi si rifà a Dossetti vuole una chiesa senza “illuministiche certezze dottrinali???, chi ascolta Ratzinger sente parlare di “vero illuminismo???.
    In lui parla il teologo morale che guarda le cose dal punto di vista della conseguenza più che da quello dell’essenza
    Mai come negli ultimi decenni nella chiesa è brillato il primato della Parola (Martini docet) ma il risultato è una sorta di afonia Con Benedetto si riascoltano Dottori e Padri. Papa Ratzinger amministra il suo magistero in nome della fede, ma anche con attenzione al mondo, all’uomo, in tutte le sue forme ed espressioni culturali, storiche, filosofiche, etiche, morali. Il sostrato culturale e teologico di Ratzinger interpella e provoca tutti. Ratzinger agisce da Papa,
    pastoralmente e profeticamente, ma enuncia anche con chiarezza il suo pensiero.
    Un linguaggio teologico per certi versi sorprendentemente inedito sul piano dello stile omiletico. Cosa c’è di nuovo nelle parole e nella sintassi di Benedetto XVI? Facciamo un tentativo di ermeneutica del linguaggio di Benedetto XVI con il professore Gaspare Mura, ermeneuta e filosofo delle religioni alla Pontificia Università Lateranense e all’Urbaniana di Roma. “Se si dovesse fare un’analisi linguistica del linguaggio proprio del magistero di Benedetto XVI – ci dice Mura – si dovrebbe affermare che esso è il tipo di linguaggio che è appartenuto a tutta la grande tradizione della chiesa. E’ il linguaggio in particolare dei Padri e dei Dottori. Come i Dottori, esprime con chiarezza concettuale i contenuti
    della Rivelazione e della tradizione; e come i Padri va direttamente al cuore del problema, senza giri di parole, ed evitando accuratamente quell’uso retorico del linguaggio e della parola, al quale si rifà molta cultura contemporanea, il quale occulta piuttosto che svelare la verità. Se volessimo fare una battuta, potremmo dire che è un linguaggio diametralmente opposto al talkshow. Ed è forse per questo che alcuni non riescono a capirlo. Benedetto XVI si pone
    nella prospettiva di quella che possiamo legittimamente denominare ‘filosofia classica’, e che ritroviamo in quella disciplina che, in ambiente cristiano, è stata chiamata ‘filosofia perenne’, secondo cui la ragione, il logos, è destinato a spiegare la totalità del reale. A differenza delle scienze, la filosofia intende infatti conoscere in modo razionale
    le cause e i principi non di questa o di quella realtà, ma di tutta la realtà; e questo perché il suo scopo, ‘libero e divino’ (Aristotele), si risolve in una ‘totale contemplazione della verità’; da cui consegue l’importanza per l’uomo di esercitare la ragione in ordine alla conoscenza della verità, perché è da questa conoscenza che deriva la retta
    valutazione dell’agire morale. Per Benedetto XVI la nozione di ‘verità’, intesa in questo senso metafisico dal pensiero greco e da tutta la grande tradizione cristiana, possiede un certo carattere di ‘assolutezza’, nel senso che le verità metafisiche nascono nella storia della filosofia, ma raggiungono una penetrazione nella stessa verità che non è di carattere solamente storico ma per principio di carattere metastorico e metafisico, e quindi non dipendente dalla contingenza.
    Certamente l’assoluto è un carattere che soprattutto la filosofia cristiana, da Agostino a Tommaso a Nicolò Cusano, ha attribuito solamente all’Essere che è ‘absolutus’, ossia sciolto, svincolato da qualsiasi carattere contingente e materiale, e quindi, a Dio come l’Essere che trascende tutto ciò che è. E tuttavia, dal momento che l’uomo è capace, a motivo del suo intelletto, di penetrare nella verità dell’essere, le verità metafisiche che egli consegue non sono più
    semplicemente verità o principi contingenti e storici, perché partecipano in qualche modo di quella assolutezza della verità che è il termine ultimo della ricerca filosofica. E questa è la relazione tra il logos dell’uomo e il Logos di Dio ricordata da Benedetto XVI. La verità – e questo concetto vale ininterrottamente per la filosofia cristiana da Agostino a Tommaso a Bonaventura a Rosmini a Maritain – viene rapportata direttamente alla verità dell’essere, intesa come
    la partecipazione creaturale della stessa verità di Dio: l’intelletto divino – dice Tommaso – è misura delle cose: poiché ciascuna di esse… in tanto è vera in quanto imita l’intelletto divino???.
    (Alberto Di Giglio)

    Saluti MG

    2 Novembre, 2006 - 9:17
  17. Tremendamente discutibile, tremendamente interessante.

    4 Novembre, 2006 - 15:14

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