La Quaresima piena di paure del giovane medico Elisa

Elisa Da Re è un giovane medico che all’arrivo della pandemia si sta specializzando in chirurgia generale in un ospedale vicino a Bergamo che viene trasformato in Coronahospital. Le viene detto che può interrompere il lavoro o rimanervi volontaria come Covid-doctor. S’improvvisa medico della pandemia e racconta la sua forte esperienza in un testo intitolato “Un medico in prima linea: dalla solitudine alla condivisione” per la rivista “Dialoghi” dell’Azione Cattolica, nel volume “Quaderni di Dialoghi. Speciale 2020” intitolato “La fede e il contagio. Nel tempo della pandemia”, che esce nel maggio del 2020. Il testo di Elisa è alle pagine 27-29. Nei commenti ne riporto alcuni capoversi.

7 Comments

  1. Luigi Accattoli

    Specializzanda in chirurgia. Sono un giovane medico, fino al 22 febbraio ero una specializzanda di chirurgia generale in un ospedale vicino a Bergamo.
    Quel sabato, dopo il turno, sono tornata a Padova, dove vivo con mio marito. In poche ore hanno iniziato a susseguirsi varie ordinanze per l’emergenza coronavirus. Il mio reparto ha chiuso, le sale operatorie sono state trasformate in terapie intensive, l’ospedale è stato eletto Coronahospital: si potevano ricoverare solo pazienti Covid. Mi ha chiamato il primario chiedendomi se volevo tornare come Covid-doctor perché, in quanto specializzanda di chirurgia, non ero obbligata. Sono stati giorni di scelta difficili: da un lato la paura del contagio, del non essere pronta né professionalmente né emotivamente ad affrontare un lavoro non mio e con molti insuccessi; dall’altro un sentimento quasi di colpevolezza per non provare a dare il mio contributo. Una parola allora mi è risuonata: vocazione.
    Quante volte ho sognato di lavorare in Africa, lì dove bisogna ottenere il massimo dal minimo; ora che l’Africa arrivava qui non potevo esitare. Ho lasciato casa, mio marito, la mia famiglia e non li rivedo da allora, perché tornando rischierei solo di contagiarli.

    13 Settembre, 2020 - 9:56
  2. Luigi Accattoli

    Oggi entro in un reparto Covid. Il disordine, le continue corse, l’assenza di mezzi, il continuo ricambio di pazienti, un clima di terrore perché ogni volta che mi tocco, mi cambio, sto vicina a un malato, rischio il contagio.
    La solitudine dei pazienti, che spesso non riescono a telefonare e non vedono nessuno se non il personale sanitario, che però non si ferma a lungo perché il lavoro è tanto e il rischio di contagio alto. Dei parenti, che lasciano il loro caro in ambulanza per riabbracciarlo dopo un mese, o attendere un camion militare che riporti a casa le ceneri da un’altra città. Di noi sanitari, spesso da soli a prendere decisioni immense, disumane, a cui manca il lavoro di équipe, la rielaborazione di ciò che sta accadendo, banalmente qualcuno che ci accolga a casa a fine turno.
    La solitudine di tutti coloro chiusi in casa a volte rattristati, a volte arrabbiati, a volte con un obiettivo grande, troppe volte senza capire il perché.
    L’impotenza di fronte a una malattia nuova e misteriosa. L’assenza di posti letto e di mezzi anche semplici per poter fare la differenza. La mancanza di una formazione vera, che viene fatta tra un turno e l’altro, da video incisi quotidianamente da colleghi un po’ più esperti, ma comunque incerti. L’impotenza di vedere un’onda immensa travolgere un sistema sanitario ritenuto formidabile e non riuscire a resistere. L’impotenza di non poter salvare molti, troppi. Di non riuscire a spiegare, ma neanche a capire.

    13 Settembre, 2020 - 9:58
  3. Luigi Accattoli

    Triduo Pasquale in pienezza. È stata una Quaresima piena di paure, a dire il vero, anche piena di rabbia verso tutto ciò che non è andato come noi uomini vorremmo. È stato però anche un tempo importante per riflettere; e paradossalmente quest’anno per la prima volta ho vissuto il Triduo pasquale in pienezza.
    In quei giorni avevamo ricoverato Mario, 68 anni, la solita diagnosi: polmonite interstiziale bilaterale, Covid. Da subito si è reso necessario un trattamento con ossigeno a elevate pressioni: la CPAP, quei caschi di plastica che spesso vediamo in televisione nelle ultime settimane. Tuttavia le sue condizioni sono ulteriormente peggiorate.
    Nel giro di qualche ora è stato sempre più agitato ed assente, cominciando a strapparsi qualsiasi cosa. Abbiamo iniziato una blanda sedazione per tenerlo tranquillo, ma i suoi parametri respiratori continuavano a peggiorare.
    Un pomeriggio ero l’unico medico in reparto, Mario si è strappato il casco per l’ennesima volta, rompendolo. Ho chiesto agli infermieri di riposizionarlo, ma non reggeva più la pressione. Roby, un giovane infermiere molto in gamba, mi ha detto: «Dottoressa, c’è un altro casco di là, solo uno. Cosa vuole fare? Vuole continuare o lasciare andare?».

    13 Settembre, 2020 - 10:00
  4. Luigi Accattoli

    Come angeli al sepolcro. Sapevo che a breve altri ne avrebbero avuto bisogno e che la probabilità di salvare Mario era bassissima. Ho chiesto di provare a riparare il casco, senza utilizzarne un altro. Dopo qualche minuto Roby mi ha raggiunto in corridoio, la mia idea non aveva funzionato. Con voce ferma mi ha detto: «Eli, e se stesse solo soffrendo? Cosa facciamo?».
    In quel momento qualcosa è cambiato, facendomi passare dalla solitudine alla condivisione. Mi sono lasciata accompagnare da quest’esperienza per tutto il Triduo pasquale. Ho riflettuto sulla lavanda dei piedi, sul gesto di mettersi al servizio anche nella difficoltà, ma allo stesso tempo di accettare che i miei piedi, le mie debolezze, siano lavati da Qualcun altro, che forse Cristo a volte bussa alla porta nelle veci di Roby. Ho contemplato la Croce per ore, sempre pensando a Mario, il mio Cristo in questi giorni. Mi sono lasciata cullare dall’immagine di Maria ai piedi della Croce, sentendola così vicina. Forse, però, il rischio in cui possiamo cadere è di non riuscire ad abbandonare il Venerdì Santo per giungere alla Pasqua.
    Ringrazio allora il pensiero di un sacerdote: «I sanitari sono come gli Angeli di fronte al sepolcro vuoto»! In fondo, anche davanti alla nostra impotenza, siamo chiamati a testimoniare che il sepolcro è vuoto, che gli ospedali sono luoghi dove si custodisce la vita con impegno e affetto, così come le case di riposo, le cliniche di riabilitazione, le nostre città, comunità e famiglie, perché in certi momenti, quando l’impegno e la professionalità non bastano, custodire la vita significa semplicemente vegliare, pregare, restare a casa!

    13 Settembre, 2020 - 10:01

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