“Benedico nei luoghi affollati”. Ancora sulle benedizioni dei cristiani comuni

“Io benedico nei luoghi affollati”. “Dio mio non ho mai benedetto nessuno”.  “A me vien fatto di benedire sempre, in cuor mio, i bambini”. Tre donne che frequentano il mio blog mi hanno inviato queste confidenze in risposta alla richiesta di narrare la propria esperienza della benedizione come liturgia del cristiano comune, che non ha rituali e che è affidata alla spontaneità della vita. Il mese scorso avevo abbozzato qui una rassegna narrativa della varietà delle benedizioni scambiate ai nostri giorni, comprese quelle dei laici ai consacrati. Torno sul tema per meglio calarlo nella quotidianità.

“Io benedico nei luoghi affollati, per le strade, negli autobus” racconta la prima delle tre visitatrici: “Soprattutto quando nei dintorni c’è qualcuno molto arrabbiato. Mi guardo intorno, poso un rapido sguardo su un volto, poi su un altro, e a ognuno dico mentalmente ‘Dio ti benedica’. A volte tra i volti arrabbiati se ne nota uno calmo, assorto. Se su quello indugio con lo sguardo, corre tra noi un abbozzo di sorriso e allora mi sento benedetta. Se solo ci si fa un po’ caso, siamo avvolti di benedizioni”. Mio lettore, io credo che questa sarà anche la tua conclusione se leggerai per intero. Svolgeremo un esercizio di applicazione alla vita quotidiana dei mille modi nei quali ognuno può farsi benedizione per sé e per gli altri.

 

Così benedico i figli

prima di andare a letto

La visitatrice del blog che afferma di benedire i bambini così continua: “Li vedo così belli nella loro spontaneità non ancora toccata dal Male che il mio ‘Dio ti benedica’ è un pensiero naturale, un desiderio forte che restino sempre al di fuori del Male, e nello stesso tempo un ringraziamento al Creatore che li ha chiamati alla vita”.

Una quarta visitatrice racconta di una benedizione detta in parole e non solo nel cuore: “Ero ferma a un semaforo, un povero si avvicinava ai finestrini chiedendo l’elemosina. Era un ragazzo, nordafricano probabilmente, di quindici, sedici anni, e sembrava sconsolato. Quando è arrivato da me, gli ho porto la moneta, e insieme ho detto ‘Il Signore ti benedica’. Non posso dimenticare il cambiamento nell’espressione del suo viso, la luce che si è accesa: ‘Grazie’ ripeteva. Sono ripartita e dallo specchietto l’ho visto che guardava verso di me sorridendo”.

Non sono solo le donne a benedire. “Da un paio d’anni – racconta un papà – do la benedizione ai figli prima di andare a letto pronunciando la formula della chiusura della liturgia delle ore: ‘Il Signore ti benedica, ti preservi da ogni male e ti conduca alla vita eterna’. Con la risposta dei figli: ‘Amen’. La sera è una benedizione individuale con il segno della croce sulla fronte, come nella celebrazione del battesimo, con l’aggiunta di una carezza sulla guancia e il bacio della buona notte. La mattina invece la benedizione è collettiva. E’ la forma di conciliazione più semplice ed efficace che ho trovato con i figli piccolissimi e piccoli. E’ la forma più sincera di buona notte. Anche il più piccolo, un anno e mezzo, viene alla sponda del lettino e non vede l’ora tutte le sere”. “Dall’abitudine consolidata di dare la benedizione ai figli – racconta ancora il papà benedicente – mi accorgo che passo con facilità anche a benedire espressamente ma con disinvoltura e quasi con naturalezza altre persone, quando la situazione lo consente”.

Un visitatore esperto delle lingue di Calabria e di Sicilia narra la frequenza delle benedizioni tutt’ora alta laggiù e conclude: “Quando vado a trovare don Daniel, alla fine per saluto mi faccio sempre benedire”. Ma ovviamente non sono solo i sacerdoti a benedire in quelle terre. Lo stesso visitatore riferisce che in Sicilia si dice ancora: “U Signuri t’u paja”, che il Signore ti ripaghi per il buon gesto che hai fatto. Leggendo queste parole a me è venuto alla memoria che nelle mie Marche gli anziani dicono: “Il Signore ti rimeriti”.

 

“Babbo, mamma

la benedizione”

Ancora il visitatore calabro-siciliano: “Mia zia Anna in Calabria mi congedava sempre con un ‘Va’ figghiu n’santa paci’, vai figlio in santa pace. A Bagheria è uso salutare tra persone in età con un ‘Sa binidìca’, vossignoria mi benedica. Mia nonna dice che ‘i cosi ca no su giusti ‘u Signuri no t’i benadìci’, ossia che Dio non ti benedice le cose che fai pestano i piedi agli altri o con sotterfugi”.

Una visitatrice che vive negli USA ma è di origine napoletana ricorda la formula “A’ Madonna t’accumpagni” che “detta da nonne, zie, mamma è sempre stata una benedizione che è discesa su ognuno di noi. L’ho detta anch’io alle mie figlie, proprio così, in napoletano, per anni; e la nuova generazione viene su ricevendo la stessa benedizione quotidiana”.

Un visitatore del blog che è di Ferrara ha un racconto analogo: “Una mia nonna nel nostro sermo nativus salutava i nipoti rivolgendogli queste parole: ‘Banadèt al miè putìn’, ‘banadèta dal Sgnòr’; o semplicemente ‘banadìt!’ Benedetta nonna. Benediceva continuamente”.

Anche nel linguaggio familiare dei contadini marchigiani la richiesta e il dono della benedizione erano frequenti. Ricordo che la ritualizzazione del dialogo benedizionale era arrivata a togliere il verbo “dammi” dalla richiesta dei figli. Al termine del rosario, recitato nella cucina o nella stalla, prima di andare a letto si diceva a casa mia: “Babbo, mamma, la benedizione”. Lo dicevamo tutti insieme confusamente, come in una gara a chi faceva prima e quelli rispondevano: “Dio vi benedica”.

 

Un rito di benedizione

nello “Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo

Il dialogo diveniva più impegnativo quando uno partiva per un viaggio o per l’ospedale, o andava soldato, o in guerra. Ma anche per andare a “garzone” per la settimana della mietitura o della vendemmia da un altro contadino, dormendo la notte nel fienile. E la corrispondenza di chi era lontano portava sempre la richiesta della benedizione e non solo tra i contadini: “Mi benedica, mio caro Papà, e preghi Dio per me, che le bacio la mano con tutto il cuore” (Giacomo Leopardi al padre Monaldo, da Firenze, 3 luglio 1832).

Il Foscolo ha un memorabile rito di benedizione nello Jacopo Ortis (1801), quando il protagonista prende commiato dalla mamma avendo deciso di suicidarsi: “Jacopo le strinse la mano e la guardava come se volesse affidarle un secreto; ma bel tosto si ricompose, e le chiese la sua benedizione. Ed ella alzando le palme: Ti benedico – Ti benedico; e piaccia anche a Dio Onnipotente di benedirti. Avvicinatisi alla scala s’abbracciarono”.

La benedizione di chi è vicino a morire aveva e ha il valore simbolico di un testamento. Aldo Moro manda queste parole alla “dolcissima Noretta” dal carcere delle Brigate Rosse, avuto l’annuncio della morte: “Ti abbraccio forte forte e ti benedico dal profondo del cuore. Aldo” (senza data, maggio 1978).

Flavio Chemello, un ragazzo di Verona che muore di tumore a 24 anni nel 1988, così prende commiato dal parroco: “Ora chiedo al Signore che mi lasci andare, e chiedo anche una benedizione per te e la comunità”. Rita Sivelli, di Parma, mamma di due bambini, muore anche lei di tumore a 35 anni nel 1994 così ringraziando le amiche per l’aiuto da loro avuto nei mesi della malattia: “Sono certa che questo amore donato è stato accolto dal Signore e lo ha trasformato in benedizione per voi e per le vostre famiglie”. Queste due ultime storie sono nei miei volumi intitolati “Cerco fatti di Vangelo” 2 e 3, ambedue della EDB.

 

Quei soldati riconciliati

dal Kyrie eleison

Una formula simile usa – nell’ultima lettera ai genitori – un partigiano condannato a morte dai tedeschi, Leonardo Corona, che così scrive da Firenze il 23 marzo 1944: “Sono rassegnato alla volontà del Signore che per questo sacrificio darà a voi ogni benedizione e a me darà il Paradiso dove tutti ci ritroveremo” (Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, Einaudi 1994, p. 84).

A volte si danno “benedizioni” nelle quali non compare la parola “benedire” in nessuna delle sue varianti ma compare l’atto dell’affidamento al Signore. Don Italo Ruffino, prete di Chiavari che fu cappellano militare della spedizione in Grecia e che ha appena compiuto cent’anni, in un’intervista ad Avvenire del 21 novembre 2012 racconta di un soldato italiano che dopo una battaglia si trova accanto a un greco agonizzante: “Mosso a pietà avrebbe voluto dirgli qualcosa, chiudergli gli occhi. La prima cosa che gli venne in mente furono le uniche due parole in greco che conosceva: Kyrie eleison. Le disse chinandosi sul volto di quell’uomo prima nemico. E lui rispose: Kyrie eleison”.

 

Come donne e uomini

di benedizione per tutti

Il linguaggio e le forme del benedire sono di grande varietà. Nelle “Premesse generali” al Benedizionale (edizione CEI del 1992) si parla a p. 21 di “Dio che benedice” le sue creature, di uomini che “benedicono Dio” e di uomini che “benedicono gli altri”. Il linguaggio dei teologi è ancora più libero: “Una madre che traccia un segno di croce sulla fronte del suo bambino lo benedice e se traccia il segno della croce sulla propria fronte benedice se stessa” (Peter Paul Kaspar, Il linguaggio dei segni, Queriniana 1988, p. 69).

Benedire Dio, benedire un fratello, benedire un figlio, benedire se stessi, benedire un nemico, benedire chi ci passa accanto. Un neonato o un morente. Un Papa in affanno o un prete colpito da Parkinson. Un condannato a morte di cui incrociamo lo sguardo nel telegiornale. Con o senza parole o gesti. Questa liturgia minima, ampiamente offerta al cristiano comune, è una delle modalità più frequenti con cui il segno dell’amore di Dio viene partecipato e accolto nella vita quotidiana. Un pieno protagonismo laicale comporta che i cristiani avvertano se stessi come uomini e donne di benedizione per sè, per l’umanità, per il mondo.

Luigi Accattoli

www.luigiaccattoli.it

 

Da Il Regno 22/2012

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