“La carità è magnanima”. Se Paolo scrivesse oggi ai Corinti

A che penserebbe oggi l’apostolo Paolo dicendo “la carità è magnanima”? Era un richiamo ai cristiani di Corinto che circa il 53 dopo Cristo si cavavano gli occhi animatamente gareggiando per fazioni allo stato nascente: “Io sono di Apollo, io sono di Paolo”. Proprio come noi che diciamo “o con Biffi o con Martini”.
Cento pensieri pungenti come questo mi sono venuti preparando una conferenza per l’anno paolino intitolata L’inno di Paolo alla carità attualizzato da un giornalista che ho tenuto a Castelvenere (Benevento) su invito del parroco Filippo Figliola e del vescovo di Cerreto Sannita Michele De Rosa. E’ normale che a un giornalista vengano idee a girandola se appena si avventura in quella miniera di suggestioni che è il capitolo 13 della Prima lettera ai Corinti. A intendere qualcosa di più della fiorente e incasinata comunità di Corinto, amatissima da Paolo, mi ha aiutato un’amica del blog, Claudia Leo, che ha avuto occasione di studiarla e che ringrazio.

Erano appena battezzati
e già sdottoravano
Qui Paolo parla a una comunità scossa da entusiasmo carismatico e divisioni, inserita in una società libertaria che ostentava l’attrazione dei corpi proprio come la nostra. Tra loro c’è “uno che convive con la moglie di suo padre” (5, 1). Nelle assemblee volano accuse di eresia, c’è chi mescola riti pagani e cristiani e chi nega la resurrezione. La varietà dei carismi non edifica ma divide.
Erano appena battezzati quei cristianucci di Corinto, più o meno come Magdi Cristiano Allam, e già battagliavano su questioni grandiose: se valesse di più dare i beni ai poveri o fare miracoli. Ed ecco l’appassionato richiamo di Paolo: tutto questo per cui vi combattete finirà e intanto nella vostra diatriba sacrificate l’amore, che solo dà valore al resto e mai finirà.
La prima scossa il lettore d’oggi la sente al verso 2 dell’inno che è forse il più grande canto d’amore del cristianesimo:
Se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
La disputa sulla fede e sulla carità ci prende oggi più che mai. C’è chi svende tutto in nome del primato della carità e c’è chi quel primato lo mette in discussione perché attenta alla “verità”.
La fede non è al di sopra di tutto? No, ci dice Paolo e ci assicura che se anche la fede fosse clamorosamente grande, da operare segni straordinari, non eguaglierebbe l’amore, che è Dio: ecco perché è più in alto. Ed ecco perché è meglio leggere “amore” dove è scritto “carità”: in greco “agape”.
Il versetto 3 è ancora più spiazzante:
E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
Qui c’è un allarme per noi che siamo sensibilissimi all’amore ma tendiamo a farne un sentimento e siamo sensibili alla carità ma l’intendiamo come beneficienza. La carità non è la Caritas e non la possiamo ridurre al soccorso del bisognoso. Qui diviene chiaro che non basta tradurre “carità”, ma bisogna arrivare a tradurre “amore”.
Elaborati i primi due traumi, entriamo affascinati e guardinghi nella vivente foresta dell’inno che a partire dal versetto 4 canta a una a una le bellezze dell’amore.
La carità è magnanima: ha il cuore grande, accoglie tutti e fa festa se cade una scomunica. Non si chiude nei movimenti o nei piccoli gruppi.
Benevola è la carità: cioè benigna e benefica secondo l’insegnamento di Cristo che passava beneficando tutti.
Non è invidiosa: non dice al papa “concedi troppo ai tradizionalisti” ; oppure: “tolleri gli abusi della nuova liturgia”.
Non si vanta: qui mi viene un esempio in positivo, quello degli italiani che hanno soccorso gli ebrei nel 1943-45. Ho letto le storie di tanti e non ne ho mai trovato uno che si vantasse del rischio che aveva corso.

Quella lotta di sempre
per la prima fila nell’Aula Nervi
Non si gonfia d’orgoglio come chi dice “voi di sinistra non difendete la vita, voi di destra non accogliete lo straniero”. Chi è poi di centro si può gonfiare due volte e questa è un’operazione che anche a me – che non sono proprio di centro – riesce benissimo: “Ma che cristiani siete voi dei due poli?”
Non manca di rispetto: possiamo dire che non siamo d’accordo con il papà di Eluana senza chiamarlo “assassino”.
Non cerca il proprio interesse: perché cerca l’interesse di Cristo – che è quello di tutti – ed evita ogni mossa per occupare la prima fila nell’Aula Nervi o per accumulare pergamene gratulatorie.
Non si adira come chi dice “quel Messori” o “quel Melloni” hanno esagerato “e ora gliela facciamo pagare”, parole che vengono lanciate a chi esce dal coro, sia a Corinto sia a Milano.
Non tiene conto del male ricevuto come il papa teologo che perdona i vescovi lefebvriani, due dei quali – Bernard Tissier De Mallerais e Richard Williamson – l’avevano accusato di eresia.
Non gode dell`ingiustizia: quando un ladruncolo viene ucciso per “eccesso di difesa” e diciamo “gli sta bene”. O vediamo un potente finire sui giornali per intercettazioni di telefonate sconvenienti ma che non contengono notizie di reato.
Si rallegra della verità: anche quando non rispecchia la nostra opinione o tocca argomenti spinosi, come la presenza di cattolici in tangentopoli e i preti pedofili.
Tutto scusa: anche l’immigrato clandestino, come faranno i medici cristiani nonostante la nuova norma che li autorizza alla delazione.

Il cristiano tutto spera
anche il risveglio di Eluana
Tutto crede: comprese le giustificazioni di comportamenti apparentemente ingiustificabili, come fanno i genitori con i figli, tanto che la loro testimonianza non vale in tribunale.
Tutto spera: anche il risveglio di Eluana e fino all’ultimo giorno. Anche il ritorno dei figli alla messa domenicale.
Tutto sopporta: penso a una donna abbandonata dal marito che non sparla di lui con i figli.
Da genitore applicherei tutto l’inno di Paolo agli atteggiamenti delle madri e dei padri. Non c’è esperienza più diffusa dell’amore. E arrivo a pensare che per essere cristiano dovrei tendere ad avere con ogni persona la stessa “benevolenza” che ho verso i figli.
Anche l’intonazione perdonante che domina l’inno mi pare meglio comprensibile se la proiettiamo sulle piccole e grandi avventure dell’amore genitoriale. Carlo Maria Martini (nel volume L’Utopia alla prova di una comunità, Piemme 1998, p. 129) osserva che otto delle 15 “note” della carità elencate da Paolo sono in negativo e anche le altre “richiedono un patire più che un agire”. Forse – ipotizza Martini – Paolo vuole segnalarci che “amare non significa fare qualcosa per gli altri, come si pensa abitualmente, ma piuttosto sopportare gli altri come sono”. Dice “sopportare” ma io direi accettare, accogliere: come appunto fanno i genitori con i figli, che li accettano come sono. Non finirei di proporre l’amore materno-paterno come pietra di paragone dell’amore oblativo che è l’agape.

La profezia, le lingue
e i valori non negoziabili
Il versetto 8 mi riscuote da questa considerazione imbambolata:
La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà.
Mai si perde l’amore e anzi alla fine trionferà. E non solo l’amore che è Dio ma anche – in lui – ogni nostro sentimento dettato dall’amore. In un certo senso l’amore “vince sempre anche se al momento questo non appare: ciò che si è fatto con amore e per amore non avrà mai fine, anche se in questo mondo non viene riconosciuto” (Martini, l.c., p. 131).
Per esempio: quanto avremo dato ai figli in denaro e libri e tempo e libertà e severità, tutto potrà essere da loro contraddetto – “non mi hai mai dato un capretto” – e tutto comunque un giorno finirà, ma resterà l’amore che gli avremo trasmesso.
La possiamo applicare – questa idea dell’amore che non si perde e capitalizza in Dio – anche alle persone che amano senza essere riamate, o che continuano ad amare chi non è più sulla terra.
Né voglio restringere l’inno paolino alla prospettiva familiare e interpersonale. Indicando “la via più sublime” dell’amore (12, 31) l’intenzione di Paolo è certamente sociale. Egli vorrebbe indurre i litigiosi cristiani di Corinto e di oggi a mirare in alto nella loro vita comunitaria, lasciando le dispute su che cosa valga di più, la profezia o le lingue, o se i “valori non negoziabili” siano solo “quei tre”. E mira a ottenere quell’effetto non per autorità ma per attrazione, cantando le meraviglie dell’amore.
Passiamo la vita a chiederci se dovremmo privilegiare la solidarietà, la pace e l’accoglienza degli stranieri; o la difesa della famiglia, della vita e della libertà educativa. Paolo direbbe: tutto questo finisce, cercate l’amore che “non avrà mai fine”. Affermerebbe – immagino – che non è lo stare a sinistra o a destra che fa la differenza, ma il fatto che vi si stia o non vi si stia in nome dell’amore. C’è una prova per sapere se lo facciamo per amore: se il richiamo ai valori cristiani lo svolgiamo per convincere della loro bontà chi cristiano non è e non per darli in testa ai cristiani dell’altro schieramenti.

“Io voglio essere l’amore”
diceva la piccola Teresa
Eccoci alla conclusione folgorante dell’inno:
Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!
E’ come se Paolo dai petulanti cristiani di Corinto sentisse venire l’obiezione che anche la fede e la speranza non si perdono. Concede che così è ma insiste sulla priorità dell’amore che è Dio. Una priorità che oggi è affermata dall’enciclica Deus caritas est (al n. 34 pone l’inno di Paolo a “Magna Carta dell’intero servizio ecclesiale”) e già ieri lo era nelle parole di Teresa di Lisieux: “Nel cuore della Chiesa mia madre io voglio essere l’amore”. Teresa e Benedetto ci dicono insieme l’attualità dell’inno di Paolo.

Luigi Accattoli
da Il Regno 4/2009

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