Che prende Bergoglio da Montini?

Due parole d’ordine e il testimone delle riforme

Con Bergoglio si torna a Montini? E’ una domanda a primo suono sorprendente che mi è stata posta in più occasioni intorno alla beatificazione di Paolo VI (19 ottobre) e alla quale – per approssimazioni successive – sono arrivato a dare questa risposta: Francesco non torna a Montini ma a lui si richiama per un paio di temi centrali della propria predicazione e per le riforme. Dirò meglio: per l’idea che sia tornato il tempo delle riforme.

Papa Bergoglio è novità e va al nuovo senza ritorni a nessuno dei predecessori: questo vale per la figura papale, per la predicazione, per il governo. Ma è vero che tra i predecessori conciliari quello a cui si richiama di più è Paolo VI. Anche più che a Giovanni XXIII, al quale invece somiglia per l’attrazione del nuovo.

Lo chiama abitualmente

il grande Paolo VI”

Francesco ricorda spesso Montini “con affetto e con ammirazione”. Lo qualifica abitualmente come “il grande Paolo VI”. Ha usato questa espressione almeno undici volte: il 25 aprile, il 1° giugno, il 22 giugno (due volte) 2013; il 29 gennaio, il 16 giugno (due volte), il 25 giugno, il 26 luglio, il 19 ottobre (due volte) 2014. Una volta lo ha detto “grande protagonista del dialogo ecumenico” (25 gennaio 2014), un’altra “grande timoniere del Concilio” (19 ottobre 2014).

Lo dico in breve: Francesco ha favorito la beatificazione di Paolo VI (senza la sua spinta l’accertamento del miracolo non sarebbe stato così rapido), ne richiama come “insuperato” l’insegnamento sull’evangelizzazione e sul “servizio all’uomo”, ne riprende il programma riformatore.

Bisogna dire che un Papa si richiama sempre ai predecessori. Oggi poi vige una regola non scritta – che io non apprezzo – che vuole che ogni Papa si faccia proclamatore della santità dei predecessori. E vediamo che Francesco non resta indietro in questa corsa.

Che un Papa evochi i predecessori è secondo i riti. Conviene dunque individuare le ragioni per cui nomina l’uno o l’altro.

Francesco si richiama a Giovanni XXIII come al “Papa della docilità allo Spirito Santo”, che ha saputo essere “audace” nell’ascoltarlo, senza cedere al timore del nuovo di cui lo Spirito è portatore (omelia della canonizzazione, 27 aprile 2014). “Non abbiate paura dei rischi, come lui non ha avuto paura” aveva detto ai bergamaschi il 3 giugno 2013, nel cinquantesimo della morte di Roncalli.

Continuando il raffronto con i predecessori, potremmo dire che la “grammatica della semplicità” di Francesco si specchia in quella di Giovanni Paolo I.

La sua azione di missionario del mondo e di predicatore della pace si richiama a quella che in tale campi fu svolta da Giovanni Paolo II. Nell’omelia della canonizzazione l’ha qualificato come “il papa della famiglia” (27 aprile 2014): immagino che al termine dell’anno sinodale che stiamo vivendo capiremo tutta l’intenzione di questo appellativo.

Il richiamo di Francesco a Benedetto XVI è sul piano della teologia dell’amore (enciclica Deus caritas est, 2006): mettendo la sua parola tematica “misericordia” al posto di quella di Papa Ratzinger che era “amore-caritas”, troviamo frequenti risonanze.

Ma direi che tra questi Papi ultimi, il richiamo di Bergoglio a Montini sia più corposo rispetto a ogni altro e non sia solo simbolico, linguistico o di immagine: riguarda i contenuti della predicazione e le modalità del governo.

Primato dell’evangelizzazione

e servizio all’uomo

In particolare segnalo due richiami tematici e uno fattuale. I due tematici riguardano l’evangelizzazione e il servizio all’uomo, quello fattuale riguarda la trincea delle riforme.

Parlando a un pellegrinaggio bresciano nel 50° dell’elezione di Montini, Francesco afferma il 22 giugno 2013 che l’esortazione apostolica “Evangelii nuntiandi” (1975) “è il documento pastorale più grande che è stato scritto fino a oggi”; e ne segnala l’invito ad “annunciare il Vangelo all’uomo di oggi, con misericordia, con pazienza, con coraggio, con gioia”. In quella stessa occasione parla di Montini interprete “dell’attenzione del Concilio per l’uomo contemporaneo” e suggeritore dell’aspirazione a una Chiesa che “serve l’uomo, ama l’uomo, crede nell’uomo”.

Sull’insegnamento di Paolo VI in merito al “servizio all’uomo” due sono i testi montiniani che Francesco richiama in più occasioni: il discorso del 7 dicembre 1965 a chiusura del Vaticano II (lo cita al pellegrinaggio bresciano di cui parlavo qui sopra) e il paragrafo 90 dell’Ecclesiam Suam, dove pure si parla di “servizio” all’uomo (lo cita il 10 maggio 2014 alla Conferenza italiana degli Istituti secolari).

Tornando alla EN, segnalo che Francesco la cita 13 volte nella “Evangelii gaudium” e l’aveva evocata nel famoso intervento in congregazione generale prima del Conclave che, si dice, gli avrebbe aperto la via all’elezione: “Pensando al prossimo Papa, c’è bisogno di un uomo che aiuti la Chiesa a uscire da se stessa verso la periferia esistenziale dell’umanità, in modo da essere madre feconda della ‘dolce e confortante gioia di evangelizzare’”. Quest’ultima espressione è presa dal paragrafo 75 della “Evangelii nuntiandi” e da essa – e dalla Gaudete in Domino (l’ultima esortazione di Paolo VI che ha la data del 9 maggio 1975) – Francesco ricaverà il titolo della Evangelii gaudium.

Il documento pastorale

del post-Concilio

Richiami privilegiati alla EN come a un testo “non ancora superato” si ritrovano in molti discorsi di Francesco, come già nei testi del cardinale Bergoglio: 27 luglio (ai vescovi del Brasile), 13 giugno 2013 (al Consiglio della Segreteria del Sinodo); 26 luglio (visita a Caserta), 19 ottobre 2014 (angelus della beatificazione).

Una viva spiegazione di questa passione per la EN Francesco l’ha data in apertura del Convegno ecclesiale della diocesi di Roma, 16.06.2014: “Mi è piaciuto tanto che tu, don Gianpiero, abbia menzionato l’EN. Anche oggi è il documento pastorale più importante, che non è stato superato, del post-Concilio. Dobbiamo andare sempre lì. E’ un cantiere di ispirazione quell’esortazione apostolica. E l’ha fatta il grande Paolo VI, di suo pugno. Perché dopo quel Sinodo non si mettevano d’accordo se fare un’esortazione, se non farla; e alla fine il relatore – era san Giovanni Paolo II – ha preso tutti i fogli e li ha consegnati al papa, come dicendo: ‘Arrangiati tu, fratello’. Paolo VI ha letto tutto e, con quella pazienza che aveva, cominciò a scrivere. E’ proprio, per me, il testamento pastorale del grande Paolo VI”.

Se volessimo un’immagine riassuntiva di questo centrale richiamo di Francesco a Paolo VI, potremmo dire che Paolo afferma il primato dell’evangelizzazione e Francesco interpreta quel primato come priorità dell’uscita missionaria. Più puntualmente: in Paolo VI abbiamo l’affermazione dottrinale del primato dell’evangelizzazione su ogni altro momento della vita della Chiesa, mentre in Francesco troviamo la priorità “paradigmatica”, che è insieme teorica e pratica, dell’uscita missionaria rispetto a ogni altra urgenza apostolica (ne parla il 28 luglio 2013 al Comitato del CELAM, a Rio de Janeiro). Non che Paolo VI non mirasse a stimolare le comunità locali a tradurre quell’affermazione dottrinale in prassi pastorale: la scelta religiosa dell’ACI e i programmi della CEI sull’evangelizzazione ne sono state due applicazioni pratiche italiane, direttamente ispirate dal papa bresciano. Ma oggi vediamo affermata dal papa argentino l’intenzione di tirare, dal paradigma dell’uscita, applicazioni riformatrici universali e di sistema.

Dopo mezzo secolo

di apnea riformatrice

Quanto alle riforme e al governo, il richiamo è nei fatti: Francesco riprende il programma riformatore che fu di papa Montini, che Montini fermò nel biennio 1967-1968 temendo una divisione della compagine ecclesiale, e che ora Bergoglio riprende là dove Montini l’aveva fermato. Lo vediamo nell’anno del Sinodo, al quale ci ha condotti senza proclami: la convocazione di due assemblee tra loro collegate e la previsione di un intero anno di consultazione globale configurano – o prefigurano – una riforma dell’istituto sinodale.

Dalla prima assemblea – convocata da Paolo VI all’indomani del Vaticano II, nel 1967, in accoglimento di un voto conciliare – a quella del 2012, questo strumento principe della collegialità non evolve e resta celebrativo; dopo 25 assemblee fotocopia, se così possiamo dire, ecco che abbiamo appena assistito alla 26ma che per prima segna una vera novità. E’ come se Montini – che pure aveva previsto un perfezionamento nel tempo dell’istituzione Sinodo: “successu temporis, perfectiorem usque formam assequi poterit” – avesse tenuto la prima assemblea e ora Francesco abbia tenuto la seconda, dopo 47 anni, mezzo secolo, di apnea riformatrice. Lo stesso – io credo – si potrebbe dire per la riforma della Curia, delle finanze, del rapporto tra il papa e gli episcopati.

Così si fa discepolo

del papa bresciano

Forse in epoca moderna nessun papa è stato di insegnamento ai successori quanto Paolo VI, sia per il governo della Chiesa, sia per l’immagine papale. Papa Luciani appena eletto ne ricordò la “cultura”, Giovanni Paolo II lo chiamò “padre e maestro”, Benedetto ha definito “quasi sovrumano” il suo “merito” nei riguardi del Vaticano II.

In nulla o quasi i successori hanno osato imboccare vie che fossero realmente nuove rispetto a quelle prima esplorate e poi battute da papa Montini. Solo Francesco se ne distacca, sia nel governo sia nella definizione dell’immagine papale (dalle vesti all’appartamento). Ma anche il papa argentino si fa discepolo del papa bresciano e in ciò che più conta: cioè ponendolo a ispiratore della propria chiamata al governo collegiale, all’uscita missionaria, al servizio all’uomo.

Luigi Accattoli

www.luigiaccattoli.it

Il Regno attualità 20/2014

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