La Chiesa di Francesco tra riforme interne e dinamiche internazionali

 

Seminario di studi del Dipartimento di Giurisprudenza

Cattedra di Law and Religion – prof.ssa Silvia Angeletti

Venerdì 12 aprile 2019

 

Vincenzo Buonomo (Rettore Magnifico Pontificia Università Lateranense)

Marco Ventura (Direttore FBK Trento – Università di Siena)

Luigi Accattoli (Giornalista vaticanista – Blogger)

 

Ho scelto come mio sottotema il conflitto sulla figura di Francesco provocato dalle novità di cui è portatore. Il suo Pontificato è oggetto di maggiore conflitto rispetto a tutti quelli degli ultimi cent’anni e c’è una logica in questo primato: le novità che propone sono più audaci e dunque l’opposizione è più viva.

Indico tre provenienze del conflitto: dalle riforme che Francesco propone, dalla figura papale inedita che impersona, dalla parresia persino polemica con cui propone i suoi convincimenti e reagisce alle opposizioni.

Novità delle novità è il programma di “riforma della Chiesa in uscita missionaria” affermato nella “Gioia del Vangelo” (n. 17). Un programma che comporta scavalchi di priorità: del Vangelo sul Dogma, della pastorale sul dottrinale, del primo annuncio sui principi non negoziabili, dell’impegno diretto nel servizio all’uomo rispetto alla pedagogia della mediazione.

E’ comprensibile che una tale “uscita missionaria” provochi vertigine. Il papa gesuita non solo vorrebbe “Abbattere i bastioni” [titolo di un libretto del teologo gesuita Hans Urs Von Balthasar del 1953] ma propone di smontare l’accampamento e di partire tutti per la missione. L’uscita è per lui, in prospettiva, l’abbandono del modello di Chiesa costituita del secondo millennio. Il Vaticano II quell’uscita l’aveva avviata, poi essa si era fermata, nella seconda fase del Pontificato montiniano. E’ ripresa con la rinuncia di Benedetto e Francesco la sta portando avanti.

Meno rilevante rispetto alla “riforma” dell’uscita missionaria – che Francesco chiama “riforma paradigmatica” – sono le riforme istituzionali: sia quelle formali (della Curia, delle finanze, della comunicazione, delle procedure per il riconoscimento delle nullità matrimoniali), sia quelle fattuali (criteri per le nomine dei cardinali e per le scelte dei vescovi, presenza di laici e donne in ruoli decisionali).

Il programma delle riforme è vasto, il loro procedere è lento e talvolta confuso, il risultato al momento è incerto. Bergoglio forse è grande nella riforma missionaria, ma è modesto in quella delle strutture.

Ma vi sono state a oggi almeno tre riforme istituzionali che hanno una valenza di “paradigma” e che massimamente hanno allarmato gli oppositori e confermato gli estimatori: la costituzione del Consiglio dei cardinali per il governo della Chiesa universale (aprile 2013); la revisione del processo di nullità dei matrimoni (settembre 2015), da inquadrare nella pastorale della famiglia riformulata con “Amoris laetitia” (aprile 2016); il nuovo ordinamento del Sinodo dei vescovi (settembre 2018).

Quanto alle riforme fattuali, quella che ha attirato più critiche riguarda la scelta dei cardinali (e Perugia ne è stata beneficiata): gli oppositori si sono resi conto che se il pontificato durerà un decennio Francesco lascerà un Collegio con meno curiali, meno italiani, meno europei. Avremo cioè un collegio a dominante missionaria e del Sud del mondo, in grado forse di favorire una successione pontificale in continuità con la Chiesa in uscita.

Minore conflitto ha provocato la chiamata di laici e donne in ruoli ecclesiastici, dove pure qualcosa ha iniziato a muoversi: al recente summit degli abusi tre donne hanno avuto un ruolo di relatrici alla pari con i relatori ecclesiastici, da meno di un anno abbiamo per la prima volta due laici in ruoli apicali: un capodicastero e un rettore di università pontificia (e l’abbiamo qui oggi con noi). “Con la riforma della Curia ci saranno molte donne che avranno un potere decisionale” aveva detto Francesco a Dominique Wolton nel volume intervista “Dio è un poeta” (Rizzoli 2018, p. 231). Attendiamo con fiducia ma è comprensibile che vi sia chi vive male questa attesa.

Forse dovremmo riconoscere a Bergoglio un particolare genio per le riforme fattuali e possiamo considerare tale anche la scelta del nome Francesco: personalmente credo d’aver avvertito la vertigine del nuovo all’annuncio di quella scelta, prima di vederlo alla loggia. Quel nome voleva dire l’uscita simbolica dalla serie bimillenaria dei vescovi di Roma: nessun papa venuto dopo il Mille aveva mai preso un nome che non ci fosse già stato nel primo millennio. Con Francesco davvero cambia il millennio.

Egli esce da coordinate millenarie e ci mette a rischio, a molti rischi, persino a quello di una drammatica divisione. Fa bene a farlo. Era necessaria quest’uscita da un modello plurisecolare di ministero papale, ma essa non è indolore ed è senza rete.

Dopo la novità missionaria a provocare disagio è la figura papale inedita e spiazzante proposta da Francesco. In particolare suscita reazioni il prevalere, nella nuova figura, dell’elemento soggettivo su quello istituzionale e di quello del movimento su quello stabilizzante: un papa che non è posto lì come roccia che tiene il campo, ma come pastore che spinge a nuovi pascoli. A pensare il nuovo, a osare l’inedito.

Francesco coltiva un “pensiero incompleto”, come ama dire: cioè in sviluppo. Un vescovo di Roma in ricerca, che non definisce, non chiude, non sentenzia è così diverso dai papi conosciuti fino all’altro ieri da restare confusi a figurarselo. Eppure ci avvediamo ogni giorno che Francesco è così, sa di essere così, ama essere così. Avrebbe caro che tutti i cristiani fossero in perpetua ricerca: “Non preoccupiamoci solo di non cadere in errori dottrinali, ma anche di essere fedeli a questo cammino” (“La gioia del Vangelo” 194). Cioè alla scelta evangelica per i poveri.

Ed eccoci all’ultima provenienza dell’amore e del timore che Francesco provoca dentro e fuori la Chiesa: la libertà di parola. Egli rivendica a se stesso una piena facoltà di esprimere opinioni personali che i Papi dell’epoca moderna mai avevano osato praticare e che solo ultimamente Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avevano iniziato a sperimentare pubblicando libri e dando vere interviste.

Questa terza causa del conflitto tra oppositori e sostenitori invita a chiedersi se una parte di responsabilità per l’infuriare degli attacchi spetti al Papa stesso: Francesco non fa nulla per evitare le critiche o per riassorbirle, propone con schiettezza le sue idee, odia le cautele di linguaggio, persino polemizza con gli oppositori: spesso ha detto che crede nella funzione chiarificatrice dei conflitti.

Ma forse nella sua rivendicazione di una piena libertà di parola – ovvero di un pieno diritto a esprimere, da Papa, opinioni personali – c’è di più rispetto all’apprezzamento del conflitto: forse in quella rivendicazione c’è un’idea davvero vertiginosa di riforma del Papato, che non enuncia ma che di fatto persegue. Interrogato sugli oppositori interni una volta ha detto: “Fanno il loro lavoro e io faccio il mio. Continuo il mio cammino senza guardare di lato” (al quotidiano argentino “La Nacion”, 4 luglio 2016).

Questo è un punto sensibile: Bergoglio non intende il ministero petrino come totalizzante, riassuntivo dell’Ecclesia, ma come un servizio tra altri. Si considera parte, non forma del tutto. Questo ridimensionamento della figura papale appare indubbiamente epocale: riporta il Papa a Vescovo di Roma, e a un Vescovo di Roma più somigliante a come era nel primo millennio rispetto al secondo.

Luigi Accattoli

www.luigiaccattoli.it