L’indulto, i corrotti e il rischio del bene

Il ministro Clemente Mastella “dedica” l’indulto a Giovanni Paolo che al Parlamento aveva chiesto un “gesto di clemenza”. Ma Antonio Di Pietro contesta: “Sono certo che il papa pensasse ai poveri e agli sfortunati che sono in carcere e non ai corrotti e ai corruttori”. Ho già segnalato che Wojtyla nella lettera per il “giubileo nelle carceri” aveva chiesto un gesto rivolto a “tutti i detenuti” (vedi post del 29 luglio). Aggiungo che Di Pietro sbaglia quando restringe ai diseredati “la carità e la solidarietà” insegnate dai Vangeli: oltre che dei poveri, dei lebbrosi e delle prostitute, Gesù era amico dei pubblicani, che prendevano in appalto le imposte, facevano opera di strozzinaggio nei confronti della popolazione ed erano “collaborazionisti” dell’occupante romano. Erano cioè parte di quel ceto dei “senza dignità” al quale oggi appartengono i tangentisti. Ma più che con ogni altro mi trovo con Adriano Sofri, che oggi su Repubblica parla del “rischio del bene” a proposito di questi dodicimila che usciranno dal carcere e che di certo, in parte, torneranno a scippare, rapinare e corrompore.

Commento

  1. Si può ben parlare di fallimento rieducativo dell’istituto della pena detentiva: e certo non per demerito del personale che a vario titolo vi opera, spesso con preziosa saggezza e rara, umanissima determinazione.

    31 Luglio, 2006 - 13:05

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