Quella moschea di Segesta

Sorpresa delle sorprese, per chi – come me – aveva programmato il giro marittimo della Trinacria ponendo a obiettivo la raccolta di qualche segno della presenza antica e nuova dell’Islam; sorpresa massima a Segesta, dicevo, dove ho trovato un segno nuovo – non c’era nel 1992, l’ultima volta che ero stato qui – di una presenza antica: cioè la segnalazione nel punto più alto dell’area archeologica, sul monte Barbaro, dei resti di una moschea e di un cimitero islamico. Non credevo a quello che leggevo, sul pannello in vetro e alluminio! Insomma, qui a Segesta non abbiamo da esultare soltanto per il teatro che dà verso il mare e per l’incantevole tempio con colonne senza scanalature, ma anche per il ritrovamento, lungo l’ultimo decennio, di un insediamento musulmano databile al XII secolo e cioè in piena epoca normanna, qualche decennio dopo la cacciata militare degli arabi, quando quassù si rifugiano i contadini decisi a resistere alla forzosa riconversione al cristianesimo, come forzosa era stata – due secoli prima – la loro conversione all’Islam. Si rifugiano in un luogo da tempo abbandonato, dopo essere stato sicano, greco, romano e bizantino. Infine i vandali l’avevano devastano e dopo secoli di abbandono risorge come Qual’at Barbari, Calatabarbaro in siciliano. Questo nome non aveva una chiara interpretazione fino a che gli archeologi, l’altro ieri, non hanno rimesso in luce le mura perimetrali di una moschea, identificata come tale per la presenza della qiblà, cioè la nicchia che indica la direzione della Mecca. E accanto un cimitero dove i sepolti erano posti in “posizione laterale con il volto in direzione della Mecca”. Com’è pensabile che una comunità musulmana a dominante indigena abbia la forza di costruire una moschea forse mezzo secolo dopo la cacciata degli arabi (la caduta di Noto, ultima piazzaforte, è del 1091)? Sappiamo che la presenza musulmana cessa soltanto con Federico II (egli muore nel 1250), quando infine tutti i musulmani superstiti alla riconversione vengono trasferiti a Lucera di Puglia. Può essere che su un monte desolato, alcuni “giapponesi” dell’Islam, abbiano trovato – magari per cent’anni – un loro habitat relativamente indisturbato? I dotti ricostruttori delle stratificazioni di civiltà messe in luce dagli archeologi dicono di sì e a me piace crederlo. Chi volesse verificare vada ai capitoli La moschea e Il cimitero islamico del volume Segesta de La Medusa editore (Marsala 2005).

Commento

  1. Forse perché questi arabi dominatori della Sicilia non erano così cattivi, rispettando la libertà religiosa dei Cristiani nell’isola di allora, e quella degli ebrei. Forse perché erano conquistatori che finirono conquistati dall’Isola. Così tanto che Ibn Hamdis scrisse: “Vuote le mani, ma pieni gli occhi del ricordo di lei”. Lei era la Sicilia.

    20 Agosto, 2006 - 21:46

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