Mese: <span>Maggio 2006</span>

Dal papa polacco al papa tedesco: quanto è avvenuto domenica in Polonia ha chiarito che il senso di questa successione ruota intorno alla “valle oscura” di Auschwitz, come Benedetto XVI ha chiamato – con un’espressione biblica – quel “luogo di orrore”. E’ dal momento dell’elezione – come confidò il 19 maggio dell’anno scorso – che il papa teologo si interroga sul “provvidenziale disegno divino” che ha voluto che “sulla Cattedra di Pietro a un pontefice polacco sia succeduto un cittadino di quella terra, la Germania, dove il regime nazista potè affermarsi con grande virulenza, attaccando poi le nazioni vicine, tra le quali in particolare la Polonia”. Domenica Benedetto XVI ha confidato un elemento della sua riflessione su quel disegno: che era un “suo dovere” andare ad Auschwitz come era stato “un dovere” per il predecessore polacco, di andarvi dunque “come successore di Giovanni Paolo II e come figlio del popolo tedesco”. Vista in prospettiva epocale l’avventura di questi due papi lega la vicenda cristiana di oggi alla grande prova della storia contemporanea: quella dello smarrimento abissale del nazismo. A protagonisti di questo raccordo sono stati chiamati un figlio della nazione che più ha sofferto per quella prova e un altro di quella che più ha fatto soffrire. Vivendo gli stessi sentimenti, parlando le stesse parole, impugnando la stessa croce, questi due uomini si adoperano a riconciliare coloro che erano nemici e a tenere aperta l’interrogazione sul male che si scatenò nella stagione della loro giovinezza. Se l’elezione del papa tedesco a 60 anni dalla seconda guerra mondiale può essere interpretata anche come una “legittimazione della Germania” sulla scena mondiale, più efficace, si è detto, dell’eventuale conquista di un seggio al Consiglio di sicurezza dell’Onu – ebbene forse domenica abbiamo visto che la successione dell’un papa all’altro può costituire un passo culminante, magari decisivo, nella riconciliazione tra il popolo polacco e il popolo tedesco, che non si sono mai amati nella storia. Più ampiamente, per l’intera umanità, la “preghiera” del papa tedesco nel campo di Auschwitz sta a dire che l’anima profonda della Germania non ha ancora portato a termine la sua dolorosa interrogazione sul “cumulo di crimini che non ha confronti” rappresentato dall’avventura nazista e la tiene aperta – quell’interrogazione – e non l’archivia, così come la tiene aperta la Chiesa cattolica, impegnando in essa le sue migliori energie, rappresentate dai primi due papi non italiani dell’epoca moderna. I due papi – appunto – che si sono succeduti intorno ad Auschwitz e che ad Auschwitz sono voluti andare, per chiedere a nome di tutti dove fosse Dio e dove fossero gli uomini quando si scatenò l’abisso di quella tragedia.  

Sono alla messa del papa a Cracovia, nel parco di Blonie, sulla tribuna stampa, davanti allo spettacolo – si direbbe infinito – di ciò che mai può essere un milione di volti riuniti in unità di luogo e – chissà – di sentimento. Rivedo il tassista che mi ha detto, portandomi a Fiumicino, “preghi per me alla messa del papa”. Una donna che mi ha mandato, quand’ero qua, un sms che diceva “sono disperata”. I cinque figli che mi chiedono tutto meno che di pregare e dunque io ritengo che si aspettino anche questo. La mia sposa che ogni tanto mi fa: ti ho pensato e dicevo con te un’Ave Maria. Fratelli e sorelle nella carne, doloranti per età e altro. Tutti i ragazzi che conosco e voglio guardare come figli. Il papa tedesco che oggi pomeriggio entrerà nel campo di Auschwitz. La collega americana appena conosciuta, che corre al suo lavoro e ha tre figli e subito corre da loro. Lettori e persone che nomino negli articoli e che magari maltratto senza saperlo. Chi ho dimenticato, chi ho offeso. Chi non ho saputo ascoltare. Chi non so e non vedo e non vedrò. A nome di tutti dico “Padre nostro”.

Sul prato di Blonie il papa tedesco incontra mezzo milione di ragazzi polacchi, che gridano in italiano: “Bene-detto Bene-detto”. E poi: “We love you” in inglese. Le lingue nate dalla divisione di Babele possono aiutare al riavvicinamento. Dietro la facciata festosa di questa visita in Polonia del papa tedesco si avverte anche il dramma della lingua: papa Ratzinger non ha nulla del tedesco che grida ordini. ma la lingua tedesca farebbe comunque rivivere quell’incubo. La Polonia ha avuto sei milioni di morti nella seconda guerra mondiale, Varsavia fu rasa al suolo, centinaia di migliaia di persone furono deportate, fucilate o impiccate dietro ordini gridati in tedesco. Ero in Germania, nel novembre del 1980, quando vi ando’ papa Wojtyla e i tedeschi restarono colpiti dalla generosita’ dell’ospite, che parlo’ a favore della riunificazione della Germania. Ma era facile a un uomo fare forza ai suoi sentimenti per abbracciare un popolo, mentre in questi giorni e’ un popolo che impara ad amare un tedesco. E gli riesce meglio arrivarci per altre lingue. Ratzinger si sforza di parlare in polacco e dove non arriva usa l’italiano, mai il tedesco. I polacchi gli gridano il loro affetto in italiano e in inglese. Risorse dell’umanita’ poliglotta. 

Papa Ratzinger non improvvisa perchè è un uomo timido, ma anche perchè è un intellettuale e davanti a ogni battuta che gli viene in mente subito teme il ridicolo. Infine perchè è convinto che la figura papale debba diminuire negli aspetti più vistosi. Lo vediamo che cerca le parole – nelle pause degli applausi – e un poco le trova. Arriviamo quasi a leggerle – quelle parole – nello sguardo che si illumina. Ma vediamo anche che le cancella prima di completarle. Gli mettono davanti il microfono e  dice “grazie”. La sobrietà è la sua forza.

Bellezza delle folle polacche per il papa tedesco, risorse della cattolicità! Lo attendono per ore sotto la pioggia a Varsavia, lo festeggiano come un parente sugli spalti del santuario fortezza di Czestochowa, lo cercano con affetto la sera alla famosa finestra dell’arcivescovado di Cracovia. I ragazzi gli gridano che s’affacci, tenendosi per mano. Proprio come facevano con il “loro” papa. Ed egli ricambia tanta generosità evitando di parlare tedesco. Dicono pronunci bene il polacco, per qualche frase e poi continua in italiano. Inaspettato completamento storico della riconciliazione tra i due paesi, che tanto era stata voluta dai cardinali Wojtyla e Ratzinger. Anche solo con le biografie e le nazionalità, questi due papi hanno riportato il nome cristiano nello tsunami della storia.  

Sono in Polonia con il papa. Ci sono venuto sei volte con Wojtyla ed eccomi qui, per la settima volta, con Ratzinger. Primo fuoco dell’attenzione: il senso della successione di un papa tedesco a uno polacco. Forse in questi giorni ci verrà mostrato qualcosa che attiene al segno offerto al mondo con quella successione. Il segreto – io credo – della figura papale è che vi sia nel mondo un cristiano che possa parlare a nome di tutti. Eccolo qui, questo cristiano, che torna in Polonia e stavolta è tedesco e parla di perdono, come il predecessore e dice di Auschwitz che è “una cosa tremenda”. Ecco a che cosa io vorrei prestare attenzione in queste quattro giornate: non alla “politica” del nuovo papa, se va avanti o indietro rispetto a Wojtyla, ma che cosa dice quest’uomo chiamato a essere cristiano davanti al mondo, essendo segnato dalla propria origine tedesca e parlando a un popolo che tanto ha sofferto per mano tedesca. A risentirci.

Angelo Custode (vedi post del 17 marzo) continua il suo lavoro di cecchino vaticano tenendosi al riparo dello pseudonimo. Stavolta – a pagina 93 del fascicolo di Panorama arrivato in edicola l’altro ieri – spara su preti “coinvolti in vicende omosessuali”. Dà le iniziali di uno precisando il suo luogo di lavoro e la città di nascita, segnala il computer da cui un altro “passava il tempo a navigare nei siti gay pornografici”. Trattandosi di persone in difficoltà, non corre il rischio di essere querelato. Così il gossip curiale si fa redditizio, nel senso che viene pagato ad articolo. Ma non è gossip, caro Angelo, è cecchinaggio. Stavolta addirittura spari sui feriti.

Sono davvero contento che per Verona sia stata programmata una “mostra” dei “testimoni”, che sono la prima risorsa della Chiesa. Spero che ne venga un effetto trascinatore per ogni regione, città, paese della penisola: sogno che in futuro, ogni volta che si riuniranno, i cristiani di ogni luogo porteranno con sé i loro “testimoni”, per farli conoscere a tutti.

Sono a un dibattito e uno del pubblico – con riferimento al libro Islam. Storie italiane di buona convivenza – mi chiede come io veda e che destino avrà lo scontro tra l’Islam e l’Occidente. Mi affido all’estro e rispondo così: il mondo islamico sta vivendo una rivincita rispetto agli ultimi due secoli lungo i quali, dal Marocco all’Indonesia, è stato colonizzato dall’insieme dei paesi europei, dal Portogallo alla Russia; fa parte di tale rivincita la sfida al dominio americano sul mondo, che l’islamismo politico avverte come una seconda colonizzazione; lo scontro probabilmente crescerà e non troverà sbocco fino a quando il petrolio resterà la fonte di energia primaria per i paesi occidentali; auguriamoci che questo tempo non sia lungo e che, per quando sarà terminato, avremo imparato a convivere almeno con i musulmani che nel frattempo si saranno stabiliti tra noi. Un altro mi ha chiesto su quali energie possa contare il mondo musulmano per uno sviluppo che lo liberi dalla tentazione della violenza, ho risposto: i veri credenti e le donne, che sono i più danneggiati dallo tsunami del fondamentalismo.

Il cardinale Camillo Ruini chiude l’assemblea della Cei con l’abituale conferenza stampa. Come già da quindici anni, e prima per i cinque anni di segretario generale, conduce il ballo con maestria. Sono due decenni che non sbaglia una parola quando incontra la stampa e affronta ogni argomento con totale padronanza. C’è da riflettere sulla sua bravura e sul poco affetto che incontra anche nella comunità cattolica. Ma noi giornalisti un legame con lui l’abbiamo sviluppato: a differenza dei più, egli risponde alle nostre domande.