Medico in malattia informa i familiari dei ricoverati

Leonardo Castellazzi, 52 anni, di Codogno, medico rianimatore, fa l’esperienza della malattia e passa quindici giorni al Sacco. Poi per due mesi da casa, risultando positivo a 12 tamponi, passa i pomeriggi al telefono con i parenti dei malati ricoverati in terapia intensiva. Accompagna in questo modo il lavoro dei colleghi e svolge – da volontario – il ruolo prezioso del collegamento tra i ricoverati e le famiglie. Nei commenti riporto parte delle risposte a un’intervista che gli fa “Il Cittadino” il 14 giugno 2020.

8 Comments

  1. Luigi Accattoli

    Mi sembrava di essere inutile. Intervista 1. Sono rimasto ricoverato, al Sacco, fino al 3 marzo. Nel giro di 3 o 4 giorni, la febbre è scesa, è rimasta la difficoltà respiratoria, che è durata per più settimane. Io capivo che stavo andando bene, ma vedevo gli altri vicino a me che stavano male. Il mio compagno di stanza, prima ha messo la Cpap e poi è stato intubato. Vedendo gli altri in gravi condizioni ho avuto momenti di angoscia. Il fatto di essere lontani da casa, aumentava la paura per quello che sarebbe potuto succedere alla mia famiglia. Avevo la percezione di non essere grave, ma il peggioramento avrebbe potuto essere repentino e senza preavvisi. Ero in allerta.
    Dopo 15 giorni di ospedale sono tornato a casa, ma i tamponi erano sempre positivi. Appena arrivato a casa ho chiesto di poter lavorare da casa per dare una mano. Quello che potevo fare era tenere i contatti con le famiglie, dando loro le notizie di giornata dei loro cari. Questo mi ha permesso di lavorare, non sentendomi escluso. Ha fatto bene a me, e anche agli altri, credo. A casa mi sembrava di essere inutile, quando i colleghi in ospedale, invece, stavano facendo tanto.
    La mattina mi collegavo telefonicamente con i colleghi al momento delle consegne, poi vedevo dal computer quello che loro scrivevano dei pazienti. Mi tenevo aggiornato su quello che stava accadendo. Le consegne duravano moltissimo. Il pomeriggio chiamavo i famigliari.

    28 Settembre, 2020 - 11:47
  2. Luigi Accattoli

    L’esperienza della malattia aiuta a capire. Intervista 2. Ogni reparto ha adottato delle modalità diverse per rimanere in contatto con le famiglie degli ammalati. Ho trovato positivo il fatto di dedicare loro del tempo. Era meglio che fossimo noi a chiamare loro, piuttosto che il contrario. Le loro telefonate, magari, arrivavano nel mezzo della nostra giornata lavorativa, quando c’erano altre cose da fare, in urgenza, e non c’era tempo di parlare.
    Io lasciavo che le persone usassero il mio tempo per parlare, io ascoltavo i loro problemi. È stato importante creare questi contatti. Non c’erano la fretta e l’ansia di terminare la conversazione. La fretta era un ospite sgradito. Essere ammalato consente di capire cosa passa nella testa di una persona che sta in un letto. Mi ha permesso di stare più vicino agli ammalati e di essere più coerente con quello che stava accadendo. Mi ha consentito di avere atteggiamenti meno distaccati e più accondiscendenti verso eventuali sfoghi di collera dei famigliari. Mi era chiaro da dove arrivasse la loro collera. Veder andar via i malati in ambulanza e poi non rivederli più era terribile. Poteva creare tensioni. Mi riconoscevo in certe situazioni di angoscia perché ero appena passato anche io da lì.

    28 Settembre, 2020 - 11:52
  3. Luigi Accattoli

    Comunicare cattive notizie. Intervista 3. Mi colpiva la compostezza nei dialoghi. Era una costante. Anche se le comunicazioni non erano mai di buone notizie, ho sempre trovato nei famigliari grande gratitudine per gli operatori che si davano da fare per i loro cari, anche quando i loro cari non si mettevano bene. Le persone erano consapevoli che si stava facendo il possibile. Mi ha stupito. Tutti si sono comportati in maniera molto civile. A volte si cercava di stemperare un po’ l’ansia con delle battute. “Quando torna dall’ospedale, mi sente”, dicevano. Era un modo per esorcizzare la paura.
    Le storie erano pesanti. Io di solito avevo un interlocutore solo in famiglia. Si fa sempre così, per non interrompere il dialogo e ricominciare da capo con le spiegazioni. In questo periodo, invece, più di una volta, mi è capitato di cambiare gli interlocutori perché, nel frattempo, questi si ammalavano e a volte morivano. Dava davvero l’idea di quello che stava accadendo. La cosa più difficile era comunicare cattive notizie e anche decessi dei famigliari di colleghi che lavoravano in ospedale. Dare cattive notizie a un collega è ancora più difficile. Ho vissuto momenti tragici.

    https://www.ilcittadino.it/stories/Cronaca/castellazzi-rianimatore-in-smartworking_56361_96/

    28 Settembre, 2020 - 11:53
  4. Luigi Accattoli

    Provvido volontariato. Almeno tre delle storie già narrate segnalano la drammatica difficoltà di comunicazione tra i ricoverati e le famiglie: è su quello sfondo che va collocato il provvido volontariato svolto da Leonardo Castellazzi per rimediare a quella difficoltà. Ecco le storie segnate da quel dramma:

    http://www.luigiaccattoli.it/blog/le-ho-tenuto-la-mano-come-avrebbe-fatto-una-figlia/

    http://www.luigiaccattoli.it/blog/dite-a-mia-moglie-che-le-ho-sempre-voluto-bene/

    http://www.luigiaccattoli.it/blog/dottore-dica-a-mio-marito-pietro-rota-che-lo-amo/

    28 Settembre, 2020 - 12:16
  5. Fabrizio Scarpino

    Caro Luigi.

    Siamo alla trentaseiesima storia sul tema Covid ed è giunto il momento di dirTi grazie ed esprimerTi la mia personale gratitudine.

    Senza piaggerie, ma stai svolgendo davvero un servizio pubblico e mi aiuti a capire più di cento telegiornali (senza nulla togliere ai tuoi colleghi) cosa sia stata, cosa sia questa terribile pandemia.

    Un caro saluto.

    _Fabrizio_

    28 Settembre, 2020 - 16:10
  6. Luigi Accattoli

    Grazie Fabrizio. Il mio è un lavoro di vendemmia: percorro le vigne e raccolgo quello che altri hanno prodotto. Solo in un caso si trattava di una mia informazione su una persona che non era apparsa nelle cronache.

    29 Settembre, 2020 - 8:55

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