Nella lunga “premessa” al volume su Gesù (vedi post del 18 e 24 aprile) papa Benedetto afferma che la “crocifissione” di quel rabbi ebreo e la sua “efficacia” – cioè la nascita di un culto che lo presenta come “uguale a Dio”, già vent’anni dopo la morte – si spiegano “solo se era successo qualcosa di straordinario, se la figura e le parole di Gesù avevano superato radicalmente le speranze e le aspettative dell’epoca”. Più che sull’ipotetica “azione di formazioni comunitarie anonime” che ne avrebbero rielaborato la memoria converrà dunque scommettere sulla dimensione sorprendente del suo insegnamento e degli eventi che ne avevano accompagnato la fine. Ed ecco il passaggio chiave della “premessa”:
Non è più logico, anche dal punto di vista storico, che la grandezza si collochi all’inizio e che la figura di Gesù abbia fatto nella pratica saltare tutte le categorie disponibili e abbia potuto così essere compresa solo a partire dal mistero di Dio? (18)
Ma papa Ratzinger pur prendendo le distanze così nettamente dal presupposto ideologico radicale del metodo storico-critico di interpretazione delle Scritture – che gioca tutto sulla rielaborazione comunitaria della memoria di Gesù – riconosce il suo debito conoscitivo nei confronti di quel metodo:
Naturalmente do per scontato quanto il Concilio e la moderna esegesi dicono sui generi letterari, sull’intenzionalità delle affermazioni, sul contesto comunitario dei Vangeli e il loro parlare in questo contesto vivo (18)
Questo libro non è stato scritto contro la moderna esegesi, ma con grande riconoscenza per il molto che essa ci ha dato e continua a darci (19)
Io ho solo cercato, al di là della mera interpretazione storico-critica, di applicare i nuovi criteri metodologici, che ci consentono un’interpretazione propriamente teologica della Bibbia e che però richiedono la fede, senza con ciò volere e potere per nulla rinunciare alla serietà storica (19)
In quell’affermazione sull’attendibilità storica del personaggio Gesù da cui dipende la “testimonianza” dei suoi discepoli e in questa disponibilità a un utilizzo critico e libero della moderna esegesi, io ritrovo il nocciolo di quanto aveva proposto il cardinale Carlo Maria Martini in una lectio sulla “figura di Gesù” tenuta nella Basilica di San Giovanni in Laterano nella Quaresima del 1997, in una serie di incontri che ebbero a protagonista anche il cardinale Ratzinger. “Si deve cercare la ragione sufficiente per il sorgere di una testimonianza, soprattutto se vicina ai fatti”, argomentava Martini con riferimento ai “vent’anni” di cui parla Ratzinger, che stanno tra la morte di Gesù e la prima testimonianza di una fede comunitaria nella “natura divina” di Cristo come è attestata dalla lettera di Paolo ai Filippesi (2, 6-11) . “E se tale ragione – continuava Martini – non è data in modo sufficiente né dall’ipotesi della creatività posteriore, né da quella del fanatismo, né da quella dell’inganno, mentre al contrario la testimonianza bene si adatta al suo ambiente originario, presenta caratteristiche di discontinuità con esso così da apparire inedita e sorgiva, allora l’ipotesi seria che rimane è che questa testimonianza deriva da un fatto reale e vi corrisponde”. Abbiamo insomma quello che Ratzinger chiama “qualcosa di straordinario”, superante “speranze e aspettative”; e una “grandezza” che si colloca all’inizio. Abbiamo molto discusso in questo blog sulla diversità tra il cardinale biblista e il papa teologo, ma c’è un punto – quello della lettura dei Vangeli – in cui i due si incontrano e si abbracciano (vedi post del 10 aprile).
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