Il blog di Luigi Accattoli Posts

“No, non ti voglio, ma sono bugiarda…”: scritto a grandi caratteri su un muro della via Aurelia, davanti all’Arena Lucciola, a Santa Marinella (Roma).

Istruttivo viaggio in treno da Macerata a Roma con Luciano Corradini, il grande pedagogista, tre figli e dieci nipoti. Siamo stati insieme relatori a un convegno della Provincia di Macerata “Vicini ai più giovani”. Andando al treno stamattina incrociamo tre giovanissimi che aspettano il regionale in direzione Civitanova Marche e Corradini vede una di loro che sta per accendere una sigaretta. Si ferma e le dice: “Non accendere quella sigaretta, perchè fa male davvero. Sei così giovane, così bella. Io fumavo ma poi l’ho capito che non giova e non fumo più”. Facciamo il sottopassaggio e sbucati sul secondo binario Luciano sbircia verso il primo e riprende: “Vedo che ancora non l’ha accesa. Forse è servito. Una volta che l’ho detto a un ragazzo, è restato così sorpreso che mi ha dato il pacchetto: lo tenga lei che è meglio”. Saliamo sul regionale per Fabriano e mentre sistemo la valigia il pedagogista in funzione permanente vede altri ragazzi e uno con una maglietta su cui è scritto “Ho letto che il fumo uccide” – oltre non si legge perchè il ragazzo è seduto e la scritta è ripiegata in vita. Luciano gli si avvicina e chiede: “Che dice il resto della scritta?” Il ragazzo allunga la maglietta e ci godiamo l’intero aforisma: “Ho letto che il fumo uccide e ho subito smesso di leggere”. “E’ una bella battuta – dice il mio Socrate all’Eutifrone occasionale – ma io non l’indosserei perchè può aiutare qualcuno a morire. Lo hanno stabilito i medici che il fumo fa male e conviene credergli. Non è sbagliato scriverlo sui pacchetti”. Alla stazione di Tolentino osserviamo i ragazzi che scendono per andare a scuola e hanno un’aria zombi che te li raccomando. Luciano fa ad alta voce: “Ma ragazzi, ci andate così controvoglia a scuola?” Lui per la scuola ha una passione folle e immagino che ci andasse saltando. Un’ora dopo a Fabriano passiamo sull’interregionale Ancona-Roma e troviamo due ragazzi che ascoltano canzoni ad alto volume. Fa cenno di abbassare: “Eh no ragazzi!” “Disturba?” chiedono quelli a mo’ di scusa e mettono le cuffie. Lui li saluta simpaticamente allargando le braccia: “Grazie grazie!”. All’incontro di ieri avevo detto che chi ha figli dovrebbe guardare a tutti i ragazzi che incontra come fossero suoi figli. E io così cerco di guardarli, ma Luciano li tratta come figli. Credo che così facesse Socrate ad Atene.

Mi piace ricordare Orazio Petrosillo (vedi post del 12 maggio) come amico esuberante, anche se questo modo di pensarlo raddoppia la pena che ci viene dalla percezione – ogni volta incredibile – che tanta vitalità sia oggi spenta. Era curioso di tutto, combattivo, amante del buon mangiare, della natura, dell’arte. Quando eravamo in giro per il mondo aveva sempre con sè una guida turistica e voleva – anche con pignoleria – leggere tutto su una piazza o una torre. A tavola spesso gli passavo metà delle mie pietanze.

L’ho conosciuto 37 anni addietro nella presidenza nazionale della Fuci. Non faceva parte di questa associazione, ma aveva conosciuto una di noi e non fece nessuna fatica – si direbbe – a imporci la sua amicizia. Con questo atteggiamento di cordialità per tutti ha attraversato la professione. Ieri, tornando dal Brasile con il volo papale una giovane collega americana, Patricia Thomas, mi confidava come Orazio fosse stato il primo a parlare con lei quando si era presentata in quell’ambiente e gli altri “vaticanisti” la snobbavano.

Tutti sappiamo quale fosse la sua capacità di lavoro. altro segno di esuberanza direi incontrollata. Qui era anche il maggiore dei suoi difetti, perchè certo Orazio non era senza difetti: non sapeva moderare la sua energia. Se io – che pure passo per un lavoratore – avessi svolto nelle settimane dell’ultima sede vacante la mole di lavoro che gli vedevo compiere, di certo sarei morto allora. Oltre al lavoro del giornale, che per me era già troppo, lui partecipava a due-tre-quattro programmi televisivi ogni giorno.

L’Ansa, il Tempo, il Messaggero sono i capitoli di una vita professionale intensa. Collaborazioni e conferenze dappertutto, i libri, la Sindone, i commenti domenicali al Vangelo, la partecipazione alle trasmissioni di Telepace e di altre reti televisive.

Nessuno tra gli accreditati in Vaticano aveva la sua capacità di approfondimento storico e dottrinale. Si andava da lui per un riscontro: “Devi chiedere a Petrosillo”. Era sempre a disposizione.

E’ vissuto nella fede cristiana, sperimentando – e facendo in qalche modo sperimentare a ognuno che lo conosceva – il dono raro di una certa sicurezza, quasi una certezza delle cose sperate. Anche questo ci aiuta a sopportare, se non a vincere, la tristezza di questo saluto.

L’attaccamento alla famiglia, infine. In questi mesi tutti abbiamo conosciuto il combattivo amore di Claudia. A lei, alle figlie Eleonora e Marta, ai fratelli il nostro abbraccio. L’abbraccio di tutti i colleghi di Orazio.

Mi piace vedere l’alba e tantissimo mi piace spiarla dall’aereo, prima che ne abbia sentore chi è a terra. Stamattina l’ho vista dal volo papale mentre eravamo sull’Atlantico al largo del Senegal, a undicimila metri di altezza. Avanti a destra c’era la falce della luna calante e sotto, tra mare e terra,  è baluginato e poi si è profilato per intero il rosso dell’alba che si è allungato velocemente su tutto l’orizzonte. Il rosso dell’alba e poi quello del deserto. Mauritania ormai e non più Senegal. Sul mondo addormentato quella mezzaluna splendente, come è giusto che sia in terra d’Islam. Ma si vedeva nel blu il giro della sua circonferenza, come se il disegnatore l’avesse tracciato per dare la giusta forma alla falce che infine ha acceso.

Celebrando stamattina presso la basilica di Nostra Signora di Aparecida, in Brasile, papa Benedetto ha parlato del modo in cui “si sviluppa” la Chiesa, segnalando che quella crescita avviene “per attrazione”: ha proposto cioè una delle sue espressioni forti, a volte folgoranti per capacità di sintesi, che mi sono impegnato a segnalare ai visitatori del blog (vedi post del 15 aprile e 19 febbraio). “La missione di Cristo si è compiuta nell’amore (…) La Chiesa si sente discepola e missionaria di questo amore: missionaria solo in quanto discepola, cioè capace di lasciarsi sempre attrarre con rinnovato stupore da Dio, che ci ha amati e ci ama per primo. La Chiesa non fa proselitismo. Essa si sviluppa piuttosto per ‘attrazione’: come Cristo ‘attira tutti a sè’ con la forza del suo amore, culminato nel sacrificio della croce, così la Chiesa compie la sua missione quando, associata a Cristo, compie ogni sua opera in confornità spirituale e concreta alla carità del suo Signore“.

Stamattina alle 6,15 un gruppo di giornalisti che seguono la visita del papa in Brasile ha pregato per Orazio (vedi post precedente) nella stanza 189 dell’Hotel Club Dos 500 a Guarantiguetà. Ha celebrato la messa il padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa vaticana. Ha ricordato che in occasione dell’anniversario della morte di Giovanni Paolo II la moglie di Orazio – Claudia – ha dato a lui due lettere, una per papa Benedetto e l’altra da portare sulla tomba di papa Wojtyla. Ha anche riferito che Benedetto XVI è stato informato via via delle condizioni di Orazio. Ha osservato che il nostro collega – come tutti noi giornalisti, d’altra parte – collaborava in qualche maniera con il papa, contribuendo alla diffusione del suo messaggio. Ha segnalato la passione di Orazio per il lavoro. Poi ha detto del grande amore tra lui e Claudia, quale si è manifestato “nella salute e nella malattia”. Ha concluso che stamattina noi non pregavamo per Orazio, ma con lui e lui con noi.

Orazio Petrosillo, il collega del Messaggero colpito da ictus in Valle d’Aosta il luglio scorso mentre era lassù per seguire la vacanza del papa (vedi post del 6, 13, 24, 31 agosto), è morto in mattinata al Policlinico Gemelli di Roma. La notizia raggiunge noi giornalisti che siamo al seguito del viaggio del papa in Brasile il mattino presto, mentre facciamo colazione all’Holiday Inn di San Paolo, presi in gesti e faccende che abbiamo condiviso con Orazio in centinaia di occasioni. Aveva tre anni meno di me e lo conoscevo dai tempi della Fuci, cioè dal circa il 1970. Gli mando l’ultimo abbraccio e lo ricordo con una battuta che ebbe a dirmi in un albergo di Cracovia alcuni anni addietro, un giorno che venimmo a sapere della morte improvvisa della moglie di Henri Tincq, caro collega del quotidiano Le Monde. “Ma guarda il mistero della vita” mi disse allora Orazio dopo il commosso colloquio che avevamo avuto con Henri: “Da un momento all’altro puoi restare solo senza neanche il tempo di rendertene conto!” Allargo il mio abbraccio a Claudia e alle due figlie, loro hanno avuto un tempo lunghissimo per l’addio al marito e al papà. Possiamo immaginare la pena vissuta di questi mesi. Le aiuti a vincere il dolore la memoria della bravura umana e della fede di Orazio.

Sul B777 dell´Alitalia che ci portava da Roma a San Paolo del Brasile il papa ieri mattina ha parlato per mezz´ora con noi giornalisti ed é stata la sua prima vera conferenza stampa sul modello di quelle di papa Wojtyla. Negli altri quattro viaggi – tutti europei, facendo europea anche la Turchia – si affacciava nella “zona riservata dei giornalisti” per un saluto, o rispondeva a “quattro domande” selezionate dal portavoce. Trovo che questa uscita in campo aperto sia stata felice e trovo utile che il papa si avventuri nelle forme di comunicazione del nostro tempo. Lo fa con l´impresa massima del libro su Gesú – autorizzando ognuno a contraddirlo – e lo fa con questa avventura minore delle risposte improvvisate che ogni giornalista riferirá a suo modo. “Preferisco non leggere tutto” disse una volta Wojtyla in riferimento a quel rischio che fa viva la comunicazione. E´stato bello sentirlo parlare con semplicitádi Romero “grande testimone della fede”, della sfida delle sette che la Chiesa deve affrontare facendo “piú missionaria e piú dinamica la sua risposta alla sete di Dio” che “proprio i poveri vogliono avere vicino”. Ha parlato anche della “grande lotta della Chiesa per la vita” e – in risposta a un collega tedesco – della sua appartenenza all´umanitá: “Rispondo in italiano. Mi ha chiesto se mi sento sufficientemente appoggiato dai tedeschi e se ho anche un po’ di nostalgia della Germania. Sì, mi sento sufficientemente appoggiato; è normale che in un paese misto (protestante e cattolico), i battezzati non siano tutti d’accordo con il papa; questo è del tutto normale. Ma mi sembra che ci sia un grande appoggio, anche di persone che appartengono alla parte non cattolica della Germania. Quindi, sì l’appoggio c’è e mi aiuta. Amo la mia patria, ma amo anche Roma e adesso sono cittadino del mondo. E così sono a casa dappertutto e sono vicino al mio paese, come a tutti gli altri“.

La domanda che ogni lettore del Nuovo Testamento deve porsi, e cioè dove Gesù abbia attinto la sua dottrina, dove sia la chiave per la spiegazione del suo comportamento, trova la sua vera risposta soltanto a partire da qui”, cioè dal fatto che “egli vive al cospetto di Dio, non solo come amico ma come Figlio; vive in profonda unità con il Padre”: così il papa nel suo libro su Gesù, alle pagine 27 e 26.

E’ verissimo – come osservava un visitatore di questo blog – che il libro del papa non è di facile lettura. Dopo una premessa teologica sulla questione del metodo “storico critico” di interpretazione delle Scritture, viene un’introduzione intitolata “Un primo sguardo sul mistero di Gesù” che è di lettura altrettanto complessa e che comunque non va saltata, perchè propone al lettore l’idea guida della ricerca che Ratzinger ha condotto per l’intera sua una vita e che trova l’ultima espressione in quest’opera: se prendiamo sul serio i Vangeli, dobbiamo mettere a fondamento della nostra lettura lo stretto legame che unisce il Figlio al Padre. Ecco altri due brani dell’introduzione che svolgono questo concetto:

La reazione dei suoi ascoltatori fu chiara: questo insegnamento non viene da alcuna scuola. E’ radicalmente diverso da quello che si puà apprendere nelle scuole” (27)

L’insegnamento di Gesù non proviene da un apprendimento umano, qualunque possa essere. Viene dall’immediato contatto con il Padre, dal dialogo ‘faccia a faccia’, dalla visione di Colui che è ‘nel seno del Padre’. E’ parola del Figlio. Senza questo fondamento interiore sarebbe temerarietà” (27)

       Poi verranno pagine meglio fruibili che illustreranno le beatitudini, il Padre nostro, le grandi parabole, le “immagini” giovannee dell’acqua, della vite e del vino, del pane, del pastore. Ma la chiave per entrare in ognuna di quelle porte viene fornita in questa “introduzione” che propone un ardito paragone tra Mosè e Gesù e presenta Gesù come “il nuovo Mosè”. Può aiutare la lettura di queste pagine sapere che a “Mosè tipo di Gesù” è dedicato un corso di esercizi spirituali del cardinale Carlo Maria Martini molto apprezzato a suo tempo dal cardinale Joseph Ratzinger, che a seguito della lettura di quel testo volle Martini nella Congregazione per la dottrina di cui era prefetto. Ecco come di quel lavoro di Martini ebbe a parlare lo stesso Ratzinger in un testo del 1997:  “In occasione del­la Pasqua del 1981mi capitò tra le mani la traduzione tedesca del libro di Martini Vita di Mosè – Vita di Gesu. Esistenza pasquale ed ebbi modo di capire come, al contrario di posizioni di quel genere, nel caso di Martini l’esegesi e la pastorale fossero tra loro congiunte. In quel piccolo libro trovai quella capacità di rendere attuale la parola biblica, che sempre avevo auspicato (…)  La tipologia Mosè-Cristo perde ogni carattere artefatto; corrispondenze e analogie interiori si rendono manifeste” (vedi il testo completo in questo blog, al commento n. 1 del post del 10 aprile).  

Ristrutturano la Stazione Centrale di Milano e spero che non “mi tocchino” la Sala d’attesa. Tra le passioni che coltivo come utente professionale delle Ferrovie dello Stato (vedi post del 19 marzo) c’è la sosta in quella sala monumentale con i colombi che l’attraversano a volo, la fontana sul fondo degna dell’ambulacro di una moschea, marmi e tendaggi simili a quelli degli androni di Montecitorio, pavimento a lastre colorate come in una cattedrale. Sui suoi pancali stamattina c’era una coppia di zingari che dormivano con le teste appoggiate ai braccioli, avvolti in coperte caldose. Sembravano Gelsomina e Zampanò.