Mese: <span>Aprile 2006</span>

Nuova strage di italiani a Nassiriya. I giornalisti vanno a cercare i familiari dei carabinieri che morirono nel novembre del 2003. “Sono sempre in contatto con altre vedove. Ci siamo messe a piangere. Ho perso tutto, con mio marito” dice dolente Sabrina Brancato alla collega Elisabetta Rosaspina del Corsera. E Tiziana Ragazzi: “Veglio che i miei bambini crescano senza odio e senza desiderio di vendetta, fieri del padre”. “Io e lui eravamo quasi uguali – confida Marco Intravaio, gemello di uno dei morti di allora – e quando mi chiamano Mimmo, anzichè Marco, mi rendono felice”. Infine un padre, Enzo Vanzan, parla così dei parenti delle nuove vittime: “La loro sofferenza durerà per sempre, ma tutto quello che si può fare per loro è pregare che non si smarriscano, come sto facendo io nel solo modo che conosco, andando a trovare i lagunari”. Questo padre amputato del figlio ci insegna che infiniti sono i modi di pregare. Lo si può fare andando a trovare i lagunari, essendo contenti d’essere chiamati “Mimmo anzichè Marco”, aiutando i figli a crescere senza odio, piangendo i morti degli altri come una piange quello che era tutto per lei.

Arriva in libreria la traduzione italiana del volume di Uwe Michael Lang, con introduzione del cardinale Ratzinger, intitolato Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica, che era apparso nell’originale inglese nel 2003. Nella prefazione a questo volume, come già in tante altre occasioni, il cardinale Ratzinger rinnova la sua critica agli altari che la riforma liturgica ha girato verso il popolo e invita a “un nuovo dibattito, più disteso” su quella come su altre innovazioni. Mi ha sempre colpito la libertà di parola del cardinale Ratzinger in merito alla riforma liturgica di Paolo VI. Egli ne è severissimo giudice, il suo linguiaggio si fa quasi stroncatorio sul tema – che ritiene decisivo – della proibizione del vecchio messale: parla di “rottura senza precendenti” nella storia della liturgia. Quella libertà di parola mi ha colpito – e mi colpisce ancora di più ora che egli è papa – in senso favorevole: egli cioè ci insegna che c’è un modo ecclesiale di essere critici, anche totali, di una decisione papale. Perchè di questo si tratta: il cardinale Ratzinger non solo critica, ma sostanzalmente respinge alcune decisioni di quel papa contenute nelle sue “istruzioni” postconciliari, in specie quelle riguardanti la traduzione integrale della messa nelle lingue moderne, la redazione del nuovo messale, la proibizione di quello antico e le indicazioni a riguardo dell’altare rivolto al popolo. Non mi pare che altri papi dell’ultimo secolo fossero stati pubblicamente altrettanto critici, da cardinali, di un loro predecessore. Vedo qui una delle novità liberanti di questo pontificato.

Dialogo “sulla vita” tra il cardinale Martini e il chirurgo Marino: lo pubblica l’Espresso, di cui Marino è collaboratore e fa correre i vaticanisti. Scrivo quattro pezzi in due giorni: vedili in questo sito nella sezione “Dal Corriere della Sera“. In qualche passaggio non comprendo bene il lungo scambio di e-mail da cui è nato il dialogo, forse per impreparazione sull’aspetto scientifico delle varie questioni, ma quando capisco condivido. Soprattutto mi ritrovo nell’invito del cardinale – che vale anche per gli altri uomini di Chiesa – a non ostentare un’improbabile sicurezza di giudizio su materie nuove e prima d’aver svolto su di esse un qualsiasi confronto critico. Aggiungo che ogni Chiesa dovrebbe aver cura di non pronunciarsi in modo impegnativo su nessuna delle nuove questioni prima di un’ampia consultazione ecumenica. Altrimenti va a finire che mentre si sanano le ferite del passato, si mettono le basi per nuove divisioni.

Con una lettera al Corriere della Sera Berlusconi torna a proporre una larga intesa all’Unione, che gli risponde a brutte parole: forse non si può pretendere una risposta diversa, ma avendo votato per il centrosinistra, non mi ritrovo nella mala risposta. Già nella prima dichiarazione dopo il voto, martedì 11 aprile, Berlusconi aveva fatto quell’invito e già allora la sua uscita mi era parsa degna di attenzione. Certo il contesto non favoriva la riflessione. L’ostinazione – che dura tutt’ora – a criticare i festeggiamenti della vittoria da parte del centrosinistra e la retorica sui “brogli” non aiutavano chi pure avesse apprezzato la proposta per un’intesa. Ma la proposta c’era e in qualche modo, da qualcuno, andava onorata. Essa indirettamente costituiva una presa d’atto della sconfitta e non le era estranea una componente di umiltà: quella di chi si espone a un rifiuto annunciato. Forse la politica costringe a semplificare e impedisce di cogliere la serietà altrui mentre ancora festeggi. Ma in quella proposta una serietà io ce la vedo.

“Volevo solo aiutare un vecchio” dice Giuseppe Lo Bue che portava i pacchi a Bernardo Provenzano, nascosto nel casolare sulla Montagna dei Cavalli, nella campagna di Corleone. Leggo queste parole sul Corriere della Sera e mi ci fermo un attimo. Ovviamente Lo Bue è accusato di associazione mafiosa. Dietro i pacchi e i pizzini ci sono i morti e tutto il malaffare di quel mondo. Ma anche nella mafia c’è la vecchiaia e l’occasione per aiutare un vecchio.

Oggi, Venerdì Santo, viene spontaneo ricordate papa Wojtyla con il crocifisso nelle mani, ripreso di spalle il Venerdì Santo dell’anno scorso, otto giorni prima della morte. Aveva il sondino nasogastrico e per non mostrarlo con un segno così invasivo i responsabili della “famiglia pontificia” decisero che la telecamera lo riprendesse solo da dietro, o di lato. L’inserimento del sondino per l’alimentazione sarà annunciato il mercoledì seguente, 30 marzo. Ma in verità il papa lo portava stabilmente dal lunedì della “settimana santa” e a più riprese gli era stato inserito durante gli ultimi giorni del secondo ricovero al Gemelli, che andò dal 24 febbraio al 13 marzo. Ho ricostruito la vicenda del sondino con una minuta inchiesta tra le persone che accostarono il papa in privato lungo l’ultimo mese, sia al Gemelli che “nella sua casa”, come si espresse con i collaboratori quando scelse di morire nel palazzo vaticano. Quella sui tempi dell’uso del sondino è l’unica discordanza di rilievo che la mia indagine ha messo in evidenza rispetto a quanto era stato annunciato pubblicamente, giorno dopo giorno, dal portavoce Navarro-Valls, ma rispetto anche alla narrazione delle ultime settimane stesa dal medico curante Renato Buzzonetti e pubblicata dagli Acta Apostolicae Sedis il 19 settembre 2005. Per non affermare il falso e non contraddire – post factum – le dichiarazioni del portavoce, gli Acta affermano: “Il 30 marzo veniva comunicato che era stata intrapresa la nutrizione enterale mediante il posizionamento permanente di un sondino nasogastrico”. Era stata “intrapresa” infatti, ma non quel giorno! Alla riga successiva la narrazione ufficiale della morte del papa così riprende: “Lo stesso giorno, mercoledì, il Santo Padre si presentava alla finestra del suo studio e, senza parlare, benediceva la folla. Fu l’ultima statio pubblica della sua penosa via crucis“. Si affacciò – quell’ultima volta – senza sondino, come senza sondino si era già affacciato altre due volte da quando gli era stato inserito con l’intenzione che fosse “permanente”: e cioè il mercoledì della “settimana santa” e il giorno di Pasqua. La televisione aveva mostrato tutto del papa operato alla trachea – per l’inserimento della cannula – e reso muto dall’operazione: il cerotto che copriva l’ago della flebo sul polso della mano destra e la veste aperta che lasciava indovinare la presenza della cannula. Egli voleva mostrarsi alla finestra ogni domenica e ogni mercoledì e i collaboratori l’ubbidivano consolandosi con il motto – caro a don Stanislaw, il segretario polacco – che “il papa non può essere invisibile”. Quando veniva l’ora della finestra gli toglievano il sondino e lo rimettevano poco dopo. Essendo praticamente annullata la capacità di ingestione di cibi – le ultime comunioni le riceve con una goccia di vino sulle labbra – l’uso del sondino era inevitabile. Ma toglierlo e rimetterlo ogni tre giorni era un tormento che il papa sopportava male e Buzzonetti disse: “Basta, il papa non si affaccia più”, scontrandosi però con don Stanislaw che voleva farlo contento e replicava: “La prossima volta si affaccerà con il sondino”. Ed ecco che si arriva al Venerdì Santo, 25 marzo. E’ la «Via Crucis» numero 26 di Papa Wojtyla, che si tiene come sempre al Colosseo, ma senza di lui, che vi partecipa per televisione, dall’appartamento privato e si fa vedere in collegamento video più volte ma soprattutto alla fine, quando tiene un crocifisso con le mani tremanti, mentre si svolge l’ultima stazione. Legge un suo messaggio di apertura il cardinale Camillo Ruini: “Offro le mie sofferenze, perché il disegno di Dio si compia e la sua parola cammini fra le genti”. Più forte del verbo è l’immagine curva e silenziosa del papa che appare sui maxischermi, ripreso di spalle nella sua cappella, seduto davanti all’inginocchiatoio, che segue la «Via Crucis» attraverso la diretta di Rai 1, guardando verso un grande schermo piatto, collocato sul davanti dell’altare. Più volte, tra una stazione e l’altra, il papa ricompare sugli schermi, mentre ascolta i testi dettati – su sua richiesta – dal cardinale Ratzinger. La camera del Centro televisivo vaticano – che passa le immagini alla Rai – lo riprende da dietro e da lato, mai di faccia. Molti si chiesero, anche sui media, perché quella sera non fosse stato mostrato il volto del papa. Vi furono risposte del tipo: non voleva togliere la scena alla croce. La verità è che non ebbero il coraggio di togliergli e rimettergli il sondino. Era a letto, lo vestirono, lo portarono in cappella, dove ebbe la forza di restare inginocchiato per un’ora e mezza e stabilirono di riprenderlo di spalle mentre teneva quel crocifisso al quale ormai così tanto assomigliava.

Gran parlare sui giornali delle cinque Bibbie trovate nel casolare del capomafia Bernardo Provenzano. L’altro ieri il cardinale De Giorgi esprimeva “amarezza” per quell’ostentazione della “sacra Bibbia” e invitava Provenzano a convertirsi, ricordandogli che anche a lui erano “dirette le roventi parole di Giovanni Paolo II ad Agrigento”, quando minacciò il giudizio di Dio sugli uomini della mafia. Non mi sono trovato del tutto d’accordo. Certo Provenzano va richiamato alla conversione. Ma il fatto che avesse con sé più Bibbie e su una ci fossero sottolineature mi chiede di stare attento a ciò che succede tra cielo e terra e mi ricorda che la Bibbia non è proprietà delle Chiese. Mi ritrovo di più con quanto dichiarato oggi a Repubblica dalla poliziotta anonima – “la gatta” – che ha partecipato alla cattura: “Provenzano e tutti gli altri mafiosi latitanti vivono in una solitudine assoluta, non si fidano di nessuno. Cercano qualcosa sopra, qualcosa oltre. E forse cercano anche il perdono di Dio”. Mi sono garbate anche le parole del procuratore antimafia Pietro Grasso al Corriere della Sera: “Lo sguardo è quello di un uomo che ha una grande forza d’animo. Per carità, non ne voglio dare un’immagine positiva, però quel suo sorriso, che non era un ghigno come qualcuno ha detto, mi pare un modo per accettare la situazione e cercare di sopportarla nel migliore modo possibile”. Il magistrato e la poliziotta parlano cristiano. Gesù cercava l’uomo dietro ogni peccato.

A Terranuova Bracciolini trovano in un fosso i corpi di due fratelli calabresi con polsi e piedi legati, uccisi a revolverate. Il vescovo di Arezzo, Gualtiero Bassetti, sgomento chiama il popolo a pregare: “A pochi giorni dalla Pasqua, un episodio di sangue che non sembra avere precedenti nella nostra provincia, scuote dal profondo le coscienze”. Un suggerimento: perché in casi come questi non si invita al digiuno, oltre che alla preghiera? Certi diavoli, diceva Gesù, non si cacciano altrimenti. Mi era balenata l’idea del digiuno domenica 9, vedendo in televisione la messa del vescovo di Parma per il bimbo Tommaso. Papa Wojtyla diceva che “forse” la gente oggi può mostrarsi sensibile al digiuno, se è invitata a farlo “per tale causa”. Egli propose il digiuno per la pace almeno quattro volte. Ogni vescovo – io penso – dovrebbe fare altrettanto, per ogni causa che scuote la comunità, dandone l’esempio personale e magari prolungando il digiuno per più giorni.

Si può fare peccato trascorrendo “una quantità di tempo sproporzionata nel leggere quotidiani e giornali, nel guardare la televisione e nell’utilizzare internet”: l’avrebbe affermato il cardinale James Francis Stafford, penitenziere maggiore, durante la celebrazione penitenziale comunitaria che si è tenuta per la prima volta in San Pietro in questo martedì santo. Povero me, mi viene da pensare, badando al mestiere che faccio. E mi torna all’occhio il fare sornione del migliore cardinale Biffi che durante il congresso eucaristico di Siena del 1994, dov’era legato papale, durante una conferenza stampa ci diceva: “La vostra professione non vi aiuta certo a salvare l’anima”. I preti – ma non tutti – hanno questo di curioso, che ritengono di sapere dov’è Satana (vedi sopra, 6 aprile) e dov’è il peccato, come se fosse possibile assegnare qualcosa come un domicilio coatto a ogni mistero.

Nottata elettorale stregata dalla luna e incertezza sull’esito fino quasi alle 13,30! Grande impressione del paese diviso a metà. Partecipo alla febbre collettiva intervistando per il Corriere della Sera il vescovo Rino Fisichella prima che si sappia alcunché e – anzi – in uno dei momenti più ballerini, verso le 20, quando sembra che vinca tutto il centrodestra. Ma partecipo ancor più attraverso Matilde, 18 anni, che fa la scrutatrice al seggio speciale di Castelnuovo di Porto, riservato ai voti degli italiani residenti all’estero. che ci hanno tenuti sospesi per una decina di ore oltre il risultato della Camera. Alla fine di tanta tensione anch’io festeggio con Isa e i quattro figli maggiorenni, avendo tutti votato per l’Unione. Ma non condivido l’entusiasmo di chi grida “finalmente” e crede arrivato un “nuovo giorno”. Ricordo due battute scambiate con Gianni Baget Bozzo nel 2001, quando giubilava per la vittoria di Berlusconi e diceva che nulla sarebbe più stato come prima e io a obiettare che non valeva la pena di esultare per un evento effimero come un voto, che se va bene dura cinque anni. Stavolta poi i cinque anni sembrano una chimera.