Mese: <span>Giugno 2006</span>

Guardo in televisione la parata per la festa della Repubblica e ascolto dai colleghi telecronisti che ci sono oggi nel mondo 28 missioni militari italiane, impegnate in 19 paesi e tre aree geografiche. Missioni di pace, ovviamente. Vado su internet e trovo il documento Presenza militare italiana all’estero del Ministero della Difesa, aggiornato al 5 maggio, che dà in 8.514 il totale dei militari impegnati in quelle missioni: ne sono orgoglioso, mi pare una bella notizia, vorrei che fosse molto più diffusa. Ottomila nostri ragazzi che dividono contendenti e cercano di mettere pace tra popolazioni nemiche, procurano prefabbricati, pane, acqua e medicine a profughi e rifugiati. Ci vedo una forma attuale dell’evangelico “avevo fame e mi avete dato da mangiare”. Leggo in quel documento che nell’opera di ingerenza umanitaria siamo al terzo posto nel mondo per numero di uomini e al sesto per contributo alle spese. Nel soccorso ai disperati otteniamo dunque un piazzamento migliore che alle Olimpiadi, o nella ricchezza pro-capite.

Nel discorso di domenica ad Auschwitz Benedetto XVI non aveva nominato Hitler, il nazismo, l’antisemitismo e i sei milioni di ebrei mandati allo sterminio ed ecco che all’udienza generale di ieri, in piazza San Pietro, ha detto tutto questo, rievocando le tappe del viaggio in Polonia: “Proprio in quel luogo tristemente noto in tutto il mondo ho voluto sostare prima di far ritorno a Roma. Nel campo di Auschwitz-Birkenau, come in altri simili campi, Hitler fece sterminare oltre sei milioni di ebrei. Ad Auschwitz-Birkenau morirono anche circa 150.000 polacchi e decine di migliaia di uomini e donne di altre nazionalità. Di fronte all’orrore di Auschwitz non c’è altra risposta che la Croce di Cristo: l’Amore sceso fino in fondo all’abisso del male, per salvare l’uomo alla radice, dove la sua libertà può ribellarsi a Dio. Non dimentichi l’odierna umanità Auschwitz e le altre ‘fabbriche di morte’ nelle quali il regime nazista ha tentato di eliminare Dio per prendere il suo posto! Non ceda alla tentazione dell’odio razziale, che è all’origine delle peggiori forme di antisemitismo!” – Io trovo un’alta ironia in queste “correzioni”, come se avesse voluto dire ai critici più competitivi: se vi fa tanto problema che io non abbia detto quelle parole, eccole!

Ieri si inaugurava – con una lectio magistralis del cardinale Walter Kasper – in via della Conciliazione 37 una libreria del Centro editoriale dehoniano. Siamo presenti quattro giornalisti che chiediamo a Kasper un commento sulle critiche a quanto detto dal papa ad Auschwitz e il buon cardinale si sfoga: “C’è chi pone domande e poi controlla le risposte e non ammette che qualcuno si ponga domande sue e non di altri. Il papa non ha fatto un discorso da politico, che deve rispondere all’attesa dei più. Ha posto le domande più profonde, quella sul silenzio di Dio innanzitutto, che è la domanda di molti ebrei e su questa si è fermato. Il suo discorso è stato di altissimo livello, straordinario”. E ancora: “Un papa tedesco che va ad Auschwitz compie un cammino molto molto difficile. Sono tedesco anch’io e questo penso di poterlo dire! Chi ha visto il suo volto in quel momento capisce che cosa io voglia dire. Fare un discorso in quel luogo per lui era difficile e certamente avrebbe preferito restare in silenzio, ma non poteva tacere. Perciò è essenziale ciò che ha detto, non ciò che non ha detto”. Voglio aggiungere che anche a me sembra curiosa questa attesa al varco del papa che parla: dice pensieri profondi, drammatici, mostra di interrogarsi in profondo, riconosce che non tutto si riesce a intendere di quel mistero del male; ma tra chi legge si scatena una gara a chi trova più obiezioni. A parte la questione delle responsabilità tedesche – un “gruppo di criminali” che “usa e abusa” del popolo, ai suoi fini “di distruzione e di dominio” – tutte le altre obiezioni mi sono sembrate piccine. “Non ha detto Shoah, non ha nominato Hitler e il nazismo, non ha ricordato i sei milioni di ebrei che furono sterminati, non ha nominato l’antisemitismo”. Nella bozza del testo non c’era “Shoah”, parola che poi il papa ha pronunciato due volte, come a dire che questo non era un problema. Ma c’era il concetto, tanto che uno degli inserimenti il papa l’ha fatto a modo di sinonimo: “Con la distruzione di Israele, con la Shoah”. Se c’è il concetto che importanza ha la parola? Lo stesso vale per gli altri casi e per i milioni di ebrei. E’ necessario dire sempre tutto? Si può ragionevolmente temere che Ratzinger voglia abbellire Hitler, o voglia proteggere l’antisemitismo? A che pensa quando implora Dio che “non permetta mai più una simile cosa”? Anche l’accusa d’aver taciuto sulle responsabilità della Chiesa in materia di antigiudaismo mi sembra fuori luogo: non ha senso pretendere dal papa che visita Auschwitz un riepilogo dell’elaborazione svolta dalla Chiesa cattolica sulla questione ebraica negli ultimi cinquant’anni. Dice ciò che gli preme in quanto papa tedesco e successore di un papa polacco, ed è tanto e dovrebbe bastare. Forse sarebbe stato meglio se non fosse entrato nella questione disputata delle responsabilità del popolo tedesco e dei suoi governanti. Ma io penso si debba rispettare la coscienza e il sentimento di uno che appartiene a quel popolo, almeno nel giorno in cui compie una così dolorosa confessione. – Suggerisco due letture a chi è interessato ad approfondire l’idea che l’uomo Ratzinger si è fatto del nazismo, in oltre sessant’anni di dolorosa riflessione: L’Europa in guerra e dopo la guerra (pp. 75-80 del volume J. Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti oggi e domani, San Paolo 2004), i primi cinque capitoli – in particolare quello intitolato Servizio militare e prigionia – del volume La mia vita. Autobiografia, San Paolo 1997. Vi appare chiaro che non si può attribuire al professore e cardinale Ratzinger un’intenzione banalmente assolutoria del proprio popolo.