Mese: <span>Agosto 2007</span>

Terza scena. Dopo la terza preghiera e la terza sigaretta arriva uno spuntino: pesce secco e riso. “Porca miseria” sbotta il missionario allargando le braccia con un pezzetto di pesce secco nella mano sinistra e un pugno di riso nella destra: “Sempre questo pesce schifoso”.
“Ti manca la carne di maiale?” chiede ironico – facendo il verso del maiale e mostrando disgusto – il capo dei sequestratori.

“Il maiale è buono”, ribatte il missionario: “Perché fai quella faccia se non l’hai mai assaggiato?”
“Il maiale è impuro come la sigaretta. Ma stai tranquillo, quando avranno pagato e ti avremo liberato, i tuoi amici ti festeggeranno con quel maiale arrostito tutto intero senza il quale in quest’isola non riuscite a stare allegri”.
“Ti ripeto che il maiale è buono e questa povera gente non ha altro con cui fare festa. Se poi c’è anche un boccale di birra il maiale è ancora più buono!”
“Maiale, birra e fumo: che Dio abbia misericordia di voi”.
“L’avrà, l’avrà! Fossero tutti questi i peccati… Ma voi sapete che noi missionari quando partiamo per la nostra missione firmiamo una dichiarazione con la quale invitiamo i superiori a non pagare riscatti in caso di rapimento?”
“Lo sappiamo, ma sappiamo anche che i riscatti li pagano i vostri governi. E’ sempre andata così e così andrà con te, se questa è la volontà di Dio”.
“Se vi interessa, sappiate che io prego perché non vada così. Non è giusto finanziare la guerra con i rapimenti”.
“Solo Dio conosce il giusto e l’ingiusto”.

Seconda scena. Giunta l’ora della seconda preghiera i sequestratori tornano a turno sulla stuoia, poggiano i mitra a lato di essa – sulla sinistra dello spettatore, mentre il missionario si trova sulla destra – e pregano.

Quando hanno finito il missionario si inginocchia nel fango – cioè fuori della stuoia – e legge in silenzio il suo breviario come nella prima scena.

Poi fuma la seconda sigaretta. “Buona davvero” dice ad alta voce e domanda al capo dei sequestratori: “Perchè mi avete rapito?”
“Abbiamo bisogno di soldi”.
“Ma perché avete rapito me? Perché sono un cristiano?”
“No, perché sei ricco”.
“Cavolo che ricco, vado in giro in ciabatte!”
“Vieni da un paese ricco e hai un telefonino con il quale possiamo mandare i messaggi per chiedere il riscatto”.
“Che ci fate con i soldi?”
“Servono per finanziare la guerra”.
“Chi lo comanda questa guerra? Voglio dire: a chi vanno i soldi?”
“Noi non sappiamo molto, ma sappiamo che vanno in mani sicure. Dio sa tutto”.

Racconto in dodici scene. Prima scena. Un missionario burlone viene rapito da quattro guerriglieri musulmani (vedi post del 24 luglio). Eccoli tutti e cinque all’interno di una tenda, seduti su dei grossi sassi. All’ora della preghiera i quattro stendono a terra la stuoia, nel mezzo della tenda e a turno – due per volta – si prostrano nell’invocazione rituale. Fuori campo si odono queste parole: “In nome di Dio, il compassionevole, il misericordioso. Te noi adoriamo e a te chiediamo aiuto. Guidaci sulla retta via, la via di coloro che hai colmato di grazia, non di coloro che sono incorsi nella tua ira, né degli sviati”.

“Cavolo, siamo uno a zero” dice il missionario con voce fuori campo: “Questi pregano e io che faccio?” Mette la mano nella bisaccia, ne cava il breviario, si inginocchia nel fango, si segna e legge. Voce fuori campo: “Beato l`uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti;  ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte”.

Quando ha finito rimette il breviario nella bisaccia e incontra il pacchetto delle sigarette, ne accende una. Fa una lunga tirata e poi soffia il fumo intorno estasiato, a occhi chiusi. Li apre, vede le facce severe dei sequestratori, tutti giovanotti che potrebbero essergli figli e riprende il pacchetto: “Scusate – dice – ho dimenticato di offrirvene, sono buone! Tabacco americano”.
“Noi non fumiamo” risponde il capo dei sequestratori: “Se fumi la tua bocca non è pulita per la lode dell’Onnipotente”.

“E’ il cuore che dev’essere pulito e non la bocca”, risponde il missionario vivamente seccato: “Il tuo cuore non è pulito se tieni prigioniero un fratello”. Fa una pausa e poi dice soddisfatto: “Uno pari!”

Cinque agosto: ancora una volta ho visto piovere fiori bianchi durante il canto del Gloria dal quarto rosone centrale del soffitto dorato di Santa Maria Maggiore. La tradizione vuole che la Basilica sia sorta sul luogo di una nevicata agostana al sommo dell’Esquilino. Una leggenda delicata come un verso del Petrarca: “Da’ bei rami scendea – dolce nella  memoria – una pioggia di fior sovra il suo grembo”. In ottimo italiano il cardinale Law arciprete rievoca intrepido la neve, la visione avuta in quella notte da papa Liberio (352 -366), “la reliquia della mangiatoia che qui è custodita”. Tra la folla col naso al cassettone sollevato per il lancio dei fiori c’eravamo Sandro Magister ed io, genitori di figli nella carne e perciò trepidi scommettitori sulla tenuta delle tradizioni.

Siccome in casa nostra è mia moglie quella che parla della morte con più coraggio e più apertamente, i figli la prendono in giro. Dicono che dovrebbe andare ad abitare nella casa della Famiglia Addams e vestirsi di nero come Morticia. Lei, poverina, sta allo scherzo ma non demorde: ‘Chiedo al Signore di poter morire prima di te’, mi dice davanti a tutti i figli schierati“: scrive così Aldo Maria Valli che di figli ne ha sei e che è appena passato dal Tg3 al Tg1. Tra i colleghi vaticanisti Aldo Maria è forse quello che sento più vicino per ubbie e miti follie. Quel brano di deliziosa cronaca familiare l’ho preso da “Appunti per il dopo”, una lunga divagazione sull’aldilà che ha scritto per Il Foglio, dov’è apparsa il 31 luglio. Poco più avanti – nella stessa divagazione – Aldo Maria riassume così l’idea televisiva della “fine della vita” con cui vengono su i nostri figli: “Che la morte non sia vera, che riguardi sempre gli altri, che dipenda da un atto criminale. In famiglia ricordiamo ancora con divertimento un episodio di qualche anno fa quando Paola, che all’epoca aveva forse quattro anni, sentendo che la mamma e il papà stavano parlando di una parente morta improvvisamente chiese: chi le ha sparato?” – Ad Aldo Maria un cordiale buon viaggio con il Tg1.

“Dio è papà, più ancora è madre” ebbe a dire papa Luciani in uno dei quattro “angelus” del suo veloce pontificato. Benedetto condivide ma afferma che comunque Dio lo dobbiamo chiamare “padre” e non “madre”, perché il linguaggio della preghiera dev’essere quello della Scrittura: ne parla nel libro su Gesù (vedi post del 21 giugno) a proposito del “Padre nostro”. “Dio non è anche madre?” si chiede e risponde positivamente citando Isaia 49,15 e 66,13 (“Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò”), afferma che “il paragone dell’amore di Dio con l’amore di una madre esiste” e conclude:

Se nel linguaggio plasmato a partire dalla corporeità dell’uomo l’amore della madre appare inscritto nell’amore di Dio, è tuttavia anche vero che Dio non viene mai qualificato né invocato come madre, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. ‘Madre’ nella Bibbia è un’immagine ma non un titolo di Dio”. Il perché “solo a tastoni possiamo cercare di comprenderlo (…), ma anche se non possiamo dare delle ragioni assolutamente cogenti, resta per noi normativo il linguaggio della preghiera di tutta la Bibbia, nella quale, nonostante le grandi metafore dell’amore materno, ‘madre’ non è un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio. Noi preghiamo così come Gesù, sullo sfondo della Sacra Scrittura, ci ha insegnato a pregare, non come ci viene in mente o come ci piace. Solo così preghiamo nel modo giusto” (pp. 169-171).

(Continua nel primo commento a questo post)