Mese: <span>Agosto 2006</span>

“Voi tutti mi scuserete per il ritardo. Sapevo di questa iniziativa, ma solo ieri ho potuto leggere alcune delle molte lettere che tutti voi avete scritto per dimostrare il vostro affetto, la vostra ammirazione, il vostro sgomento per la dura prova che Orazio sta sopportando. Molte delle vostre parole hanno toccato il cuore di mio marito e il mio. Sono sicura che molto meglio di come lo sto facendo io, saprebbe trovare le parole giuste per ognuno di voi. Non so ancora quando, ma vi assicuro che risponderemo personalmente a tutti voi. Per ora vi dico solo grazie. Una piccola parola che racchiude in sé tutta la riconoscenza per il grande aiuto che ci state dando con le vostre preghiere. Vi prego, continuate. Claudia B. Petrosillo”.

Claudia saluta con questo messaggio i 54 visitatori del blog, in maggioranza colleghi giornalisti, che hanno lasciato un “commento” ai post Un abbraccio a Orazio Petrosillo e Un nuovo abbraccio a Orazio Petrosillo pubblicati il 6 e il 13 agosto. In risposta a quei “commenti” avevamo già avuto un messaggio dai fratelli di Orazio, pubblicato il 24 agosto. A nome di tutti, un bacio a Claudia, alle due figlie e ai fratelli di Orazio.

“Paradosso” dei Vangeli: il papa oggi all’udienza ha usato questa parola forte per commentare il fatto che “Gesù non esclude nessuno dalla propria amicizia” e “accoglie tra i suoi intimi un uomo che era considerato un pubblico peccatore”, come Matteo l’esattore. “Nella figura di Matteo – ha detto – i Vangeli ci propongono un vero e proprio paradosso: chi è apparentemente più lontano dalla santità può diventare persino un modello di accoglienza della misericordia di Dio e lasciarne intravedere i meravigliosi effetti nella propria esistenza”. – Mi piace che il papa parli di “paradosso” dei Vangeli (mercoledì 23 aveva ricordato il “tipico paradosso cristiano” della sofferenza guardata come “punto di passaggio verso la felicità”), che troppo spesso vengono letti come le tavole del perbenismo. Tra quelli che oggi appaiono più lontani eppure vivono storie di conversione che li propongono come modelli di “accoglienza della misericordia” metterei i morenti di Aids che gridano a Gesù come il ladrone dalla croce.

Benedetto XVI ha nominato il nuovo arcivescovo di Genova, Angelo Bagnasco, mentre è ancora in carica il vecchio, il cardinale Tarcisio Bertone, che lascerà l’incarico soltanto il 15 settembre. I giuristi della Curia sono restati a bocca aperta: pare non si abbiano precedenti di due arcivescovi in contemporanea per una sede. Io sono contento di questa libertà dalle regole. Mi auguro che il papa teologo compia sempre più spesso gesti senza precedenti. Già era inedito che preannunciasse in giugno un nuovo segretario di Stato (che sarà Bertone) mentre era ancora in carica Sodano. Benedetto XVI vuole andare al cuore del cristianesimo che è la carità e sa che questo movimento richiede anche una certa libertà dalle consuetudini, dalla diplomazia e dal diritto. 

Felice rientro dal giro della Sicilia, con due soste a Paola e Pompei. A Paola per un aggiornamento d’amicizia con don Pietro De Luca, che lì è parroco e del quale sono amico di penna e di computer da una ventina d’anni. Quando passo da Paola gli telefono e mangiamo insieme. Un uomo intelligente, amico dei giovani, abituato a trattare con i giornalisti. Tre ore con lui vale qualcosa come prendere il polso alla viva sofferenza della Calabria che ancora non trova la sua strada, ma la cerca con piena vigilanza. – A Pompei invece la sosta mirava solo a una nuova visita agli scavi, a 32 anni dalla prima. Ne è venuta invece un incontro che mette conto raccontare, con Ciro il parheggiatore, che fa parte della cooperativa “La Sosta”, con partita Iva e tutto il resto. Gli chiedo la ricevuta per i cinque eruro che gli do, “così può lasciare la macchina per tutto il giorno” e la compila e nel darmela mostra l’avambraccio pieno di tatuaggi, tra i quali un pugnale con la scritta “La Vendetta” e accanto una svastica. Ciro, ma che roba è? “Li ho fatti da giovane”, risponde. Minorenne? chiedo e risponde: “Sì, nel carcere minorile. Lei magari pensa che io sono chissà chi, perchè vede questa che oggi è la svastica, ma noi neanche lo sapevamo, solo che bisognava passare il tempo lì dentro”. E vendetta che vuol dire? “Se uno ti manda dentro, tu gli giuri vendetta”, spiega e mi rassicura: “Ma è roba passata, sono diventato vecchio come lei e non mi sono mai vendicato. Però che vuole, questi non si cancellano più!” Sei giorni addietro avevo letto sui giornali che sono un milione i minorenni incarcerati, oggi nel mondo. Immagino che in verità siano di più. Penso ai miei figli e dico che è una vergogna. Mando un bacio a Ciro e a tutti i ragazzi ammanettati. Penso per un attimo che se Gesù tornasse sulla terra non starebbe a preoccuparsi per le statistiche della messa, ma ci direbbe: “Un milione di ragazzi in carcere? Che aspettate a legarvi una pietra al collo e a gettarvi in mare?”

A Lentini ho un amico di gioventù, Armando Rossitto, che da sei anni è preside mite e combattivo del “Quarto istituto comprensivo Marconi” e da sempre animatore di “Libera”, l’associazione per l’educazione alla legalità e l’uso civile dei beni confiscati alla mafia. Con la passione con cui l’ha organizzato mi fa visitare – insieme agli insegnanti e agli animatori – il campo scuola estivo, che da cinque anni colora la vita dell’istituto e costituisce un evento linguistico, pedagogico e sociale per tutta Lentini. L’edizione in svolgimento si intitola La fattoria didattica e questo titolo (che allude alla possibilità che una fattoria sequestrata ai mafiosi possa essere destinata alla didattica) campeggia a lettere colorate sull’edificio scolastico. Il colore delle scritte e dei murales è la nota dominante del campo. I ragazzi ne sono calamitati. C’è partecipazione, scherzo e vita nel sito internet dell’istituto, nei corridoi, nelle aule. Ogni campo lascia una traccia di vivi colori in un’ala dell’istituto. Quest’anno è il refettorio a uscirne pittato a festa. La prima edizione, del 2002, intitolata Sbulla la città, invitava a liberare dal bullismo rampante la città di Lentini. Dal bene al meglio è stato il titolo del 2003, poi sono venuti Gli aquiloni della mente (che sono i libri), A quando le rondini? e La fattoria di quest’anno. Armando mi mostra al computer video e spot, entusiasmandosi per le parole e i gesti dei ragazzi. “Questo progetto ci aiuta a diventare persone oneste e giuste”, dice un bambino a nome di tutti durante una seduta di un consiglio comunale. Un ragazzo bosniaco termina così il racconto di una visita a Palermo: “Con questo viaggio ho scoperto una cosa che non si doveva mai scoprire a me: la felicità”. Il preside creativo mi offre una granita e mi indica un poster autoironico con su uno Snoopy che ghigna: “Nessun preside è più importante del Grande Bracchetto”.

Volo in rete. Installazione di Maria Rosa Marcantonio, Maria Sambataro, Pippo Sambataro. Dal 20 al 27 agosto 2006. Monte Etna, cono vulcano quota metri 2000 (c/o Funivia). La salita all’Etna è stata allietata dalla sorpresa di trovare questo annuncio di un episodio creativo di Land Art su un cartellone legato a un palo, nella zona dei Crateri Silvestri. Prima di leggere il cartellone avevo provato a dare io un titolo a quei fili che correvano da un sasso all’altro, con sospesi – ogni dieci metri circa – degli spezzoni di plastica bianca: La ragnatela del Monte Fato. E tutt’ora lo preferisco, il mio primo titolo, ispirato a Tolkien, a quello degli autori dell’opera: Volo in rete. Trovato il cartellone, ho avuto questa spiegazione: “Nelle maglie che si allargano, si estendono, si moltiplicano, crescono, sono presenti forme irregolari che ricordano i gabbiani in volo. Il volo, metafora dell’andare oltre, per un discorso di armonia, leggerezza, equilibrio tra gli uomini e la natura tutta. Dal fondo e dalla parete interna del cono vulcanico si dipartono fili elastici che intessono una rete leggera che si diffonde in tutte le direzioni e vibra al soffio del vento”. Il soffio del vento come fosse quello del vulcano. Scampoli di plastica bianca come gabbiani. E da questi accostamenti il mio titolo definitivo: Gabbiani sull’Etna.

Il giro della Sicilia al sole d’agosto sta per terminare quando entro nella cattedrale di Siracusa, luogo di meraviglie e mi chiedo che cosa più mi abbia preso, in queste giornate. Un posto speciale certo lo conquista il tempio di Segesta, se non altro per il fatto di poterci entrare, cosa che non è permessa a Paestum e ad Agrigento.La sensazione di poter fare un qualcosa che sarà proibitissimo domani. Come mi capitò l’hanno scorso, vedendo che potevo calpestare il pavimento della cattedrale di Otranto, una specie di Divina Commedia in mosaico. E la memoria quasi imbarazzante di quando arrivai a Roma la prima volta, nel 1966 e vidi che si poteva entrare in automobile in piazza San Pietro e in piazza del Campidoglio. Ogni tanto dico ai miei figli che caso inverosimile sia ancora l’attuale, che ci permette di transitare in auto tra la facciata e l’obelisco di Trinità dei Monti! Se uno ha questi timori, rischia le palpitazioni a entrare in un tempio dorico. E che dire della cattedrale di Siracusa, che fu ed è tempio di Athena e chiesa e moschea e di nuovo chiesa? Già mi ero riempito di stupore a Valencia, visitando la cattedrale, che sorge sul luogo di un tempio pagano che lasciò il posto a una chiesa che poi divenne moschea e tornò chiesa e fu rifatta moschea e infine ridivenne chiesa, ogni volta in gran parte abbattuta e ricostruita (vedi post dell’8 luglio: Tre volte chiesa e due volte moschea). Ma a Siracusa la meraviglia raddoppia, perché non solo ci troviamo a visitare un luogo che ospitò templi e chiese e moschee, ma entriamo in un ambiente che si è mantenuto attraverso queste mutazioni: le colonne del tempio greco sono inglobate nelle mura della cattedrale, visibili all’esterno e all’interno, mentre le muraglie della cella del tempio, opportunamente tagliate e – si direbbe – ritagliate, forniscono i pilastri della navata centrale. Colonne e muraglie spettatrici inalterate del culto pagano, di quello bizantino, di quello musulmano e di quello latino. Forse l’emozione delle emozioni l’ho avvertita in quella cattedrale. Riassunta così dalla battuta di una visitatrice – che immagino insegnante di storia – al marito e ai figli: “Aspettatemi in piazza. Voglio restare ancora un poco con queste colonne”.

“La tua invidia è la mia gloria”: letto dietro una bancarella del pesce, sul lungomare di Donnalucata (Ragusa). Mi ricorda una delle prime scritte che decifrai senza capirla, da bambino delle elementari, sullo sportello dell’Ape di un pescivendolo che batteva le strade di campagna delle mie Marche, tra Recanati e Osimo, sul finire degli anni quaranta: “Chi d’invidia campa disperato muore”.

Un grazie di cuore a lei, dott. Accattoli, per il gesto di sincera amicizia verso nostro fratello Orazio, per aver aperto il blog “Un abbraccio a Orazio Petrosillo”, e a tutti coloro che hanno mandato un messaggio di affetto e di augurio. Invitiamo tutti a pregare Dio che è il “Signore della vita e della gioia”, ma soprattutto a pregare avendo in mente gli stessi pensieri di Dio, perchè si compia sempre la sua e non la nostra volontà. Il Signore è venuto a visitarci nella sofferenza e ha messo alla prova la nostra fede, chiedendoci una fede più matura, quella che chiese ad Abramo e continua a chiedere a coloro su cui si posa il suo sguardo: “fidarsi di Lui senza capire”. Grazie a tutti. I fratelli di Orazio: Piero, Anna, Umberto ed Eugenio.

“Circolo ricreativo tunisino di Scicli. Filippo 349.0941207″: uno si meraviglia di tanta compitezza ed entra e chiede: è lei Filippo? “Sì, sono io”. Ed è tunisino? “Sono tunisino, non si vede? Vedere si vede, ma Filippo non è un nome arabo. “Infatti non mi chiamo Filippo, ma qui nessuno capiva il mio nome e tutti mi chiamavano Filippo e allora ho messo questo nome sulla porta”. Da quando ha aperto il Circolo? “Da poco più di un anno”. Quanti soci ha? “Un centinaio, tutti tunisini, ma qualche volta vengono anche dei marocchini”. Filippo non ha difficoltà a parlare con un giornalista che viene da Roma. Sono del Corriere della Sera, faccio io e lui: “Complimenti!” Insomma è perfettamente italianizzato: “Sono qui da quindici anni”. Da due anni e mezzo a Scicli c’è una “sala della preghiera”, che Filippo chiama senza problemi “moschea” e spiega che sulla costa le “moschee” sono state aperte prima, a Donnalucata (resa famosa, come Punta Secca e Donnafugata, dalle riprese della serie televisiva del Commissario Montalbano) c’era dal 1992. Qui siamo all’interno – Scicli è a otto chilometri da Donnalucata – e la penetrazione degli immigrati è più lenta, ma già visibile nella vita quotidiana. I tunisini sono dappertutto e non più solo come ambulanti: li vedi uscire ed entrare nei portoni con la disinvoltura dei residenti stagionati. Ho detto “portoni” a bella posta: Scicli è solo una cittadina sui trentamila abitanti, ma ha una vocazione monumentale che ti incanta: se ti trovi a passare – poniamo – lungo la fiancata sinistra della chiesa del Carmine, che è solo la quinta o sesta, per importanza, delle chiese storiche del posto, resti a bocca aperta a vedere la muraglia che ti si erge di fronte, la fiumara che la labisce provvista di un letto in pietra a blocchi squadrati degno del fossato di un castello svevo, i ponti sulla fiumara che non sfigurerebbero a cavallo dell’Arno o del Tevere. Visitando la città trovi ragionevole che a Scicli anche un Mustafà divenuto Filippo realizzi una targa istoriata e la voglia arricchita dal disegno di un Aladino sul tappeto volante e di una sgargiante scritta in arabo.