Mese: <span>Novembre 2006</span>

Un saluto da un luogo straordinario: la “Collina dell’usignolo”, a picco sul Mare Egeo, a quattro chilometri da Efeso, dove si trova il santuario di Meryem Ana Evì (Casa della Madre Maria). Vi si venera una casetta che si dice abitata da Maria, venuta qui con l’apostolo Giovanni. Il papa sta celebrando in italiano e si fanno preghiere in ogni lingua, compreso il turco. In turco il papa ha salutato la piccola folla, dove sono anche dei musulmani, che pure onorano Maria “madre del profeta Gesù”. C’è sole sugli ulivi e davvero cantavano gli usignoli prima che iniziasse il suono dell’organo. Scrivo questo saluto seduto su un gradino della scala di accesso al santuario, contando mentalmente la gran quantità di militari appostati su ogni balza della collina. Mi godo il bel momento e dico tra me che certamente oggi non sarei andato in campagna se non fossi venuto qui.

Immaginavo di trovare il tempo per raccontare qualche aspetto sorprendente della giornata del papa ad Ankara, ma non l’ho avuto. Riesco a scrivere due righe solo ora che qui è quasi mezzanotte. Ci siamo alzati stamane alle 5 e domani la sveglia è alla stessa ora. Dunque solo un saluto e un’istantanea dall’aereo, con papa Benedetto impegnatissimo a spiegare a noi giornalisti la portata simbolica di questo viaggio. in tre giorni si può fare “ben poco”, ma si può affermare un ‘simbolismo’, sia in ordine al dialogo e alla pace, sia verso l’unità delle chiese. Per la prima volta tutti siamo rimasti al nostro posto, egli aveva un microfono e non c’era bisogno di accalcarsi per sentirlo. I fotografi erano davanti per poterlo riprendere, noi ‘redattori’ dietro a sentire. Ricordo papa Wojtyla assaltato dai giornalisti, proprio mentre veniva in Turchia, nel 1979, che restò sconcertato per la ressa indegna che gli facevamo intorno e se ne andò senza lasciare spazio alla consueta conversazione, adirato: ‘Chiedete sempre democrazia, e poi vi comportate così’.

Vado in Turchia con il papa, come uno dei settanta giornalisti che volano con lui. Quando ne parlo, magari casualmente, con familiari e conoscenti, raccolgo le raccomandazioni più varie: stai attento, non gli stare troppo vicino, non ti allontanare da lui, non andare in giro a vedere le moschee, non fare gesti cristiani. Io dico a tutti di non temere perchè il papa lo proteggono gli angeli. E’ la stessa risposta che davo quando papa Wojtyla partiva per luoghi di guerra e di guerriglia, Sarajevo, Beirut e Paese Basco. Sono contento di andare, da giornalista che ama essere sul luogo e da uomo che si sente solidale con il cristiano Benedetto chiamato a parlare a nome di tutti. In questi quattro giorni parlerà agli interlocutori più difficili. Egli è sapiente e attrezzato. Ogni parola, ogni gesto sarà un insegnamento sulla convivenza con l’Islam, con l’Ortodossia e con il mondo che guarda. Non credo che vi sia scuola più alta sul pianeta, da domani a venerdì.

“Ci siamo fatti una promessa, quella di non sentirci più. Ma non vorrei che avvenisse perché ti voglio troppo bene”: letto sui teloni che coprono l’obelisco di piazza del Popolo, a Roma.

Roma, 21 novembre 2006 – Caro Direttore, Le scrivo questa lettera aperta dopo che Lei ha respinto, a più riprese, le mie richieste di  colloquio diretto e personale. Ho provato un brivido quando ho sentito, nell’incontro col Sindacato, che i giornalisti e l’informazione non erano parte essenziale del progetto originario di Telepace.
Mi sono tornate in mente le parole di Giovanni Paolo II sul frontespizio del volume “Giornalisti abbiate coraggio”, da me curato insieme ai colleghi Guarasci e Ingrao: “Poche professioni richiedono tanta energia, dedizione, integrità e responsabilità come questa ma, nello stesso tempo, sono poche le professioni che abbiano un’uguale incidenza sui destini dell’umanità”.
Mi è tornato in mente il discorso che Lei mi fece quindici anni fa, convenendo che il compito di un’emittente cattolica non è soltanto quello di riprendere e diffondere gli eventi, così come sono, ma di presentarli in un linguaggio idoneo al mezzo. Mi è tornata in mente, soprattutto, la mia prima intervista a un capo di Stato, quando Lei e io salimmo insieme al Quirinale, nel centenario della Rerum Novarum.
Sì, Don Guido, la Dottrina Sociale. Tradirei quel principio temporale e quei principi morali, se oggi non sostenessi l’impegno della FNSI, riguardo a Telepace e al mondo dell’informazione.
So bene che Lei mi considera all’origine di una vicenda che ha portato a contestazioni e accertamenti, non senza concreti riscontri oggettivi. Ma so anche di avere seguito l’imperativo della coscienza e il metodo del Vangelo: appellandomi dapprima a Lei, invano e per lunghi mesi; informando successivamente, con delicatezza e riservatezza, le istanze ecclesiali; solo da ultimo rivolgendomi al Sindacato. So infine – e questo è il punto che mi sta più a cuore – di non essermi limitato a  contestare: quale segno efficace di condivisione, Le ho offerto in via conciliativa, sin dall’inizio, la rinuncia ai miei pregressi economici.
Davanti a un sacerdote che rischia di tradire la dottrina sociale della Chiesa e destare scandalo, licenziando i propri dipendenti nel XXV anniversario della Laborem exercens, un laico ha il compito di testimoniare con ancora più forza e sacrificio il principio cristiano della solidarietà, verso i colleghi e verso Telepace stessa. Le offro nuovamente in via conciliativa la  rinuncia ai miei pregressi, sufficienti a pagare per un anno l’intera redazione, dato che i nostri stipendi come sa sono tutti bassi, al minimo contrattuale. Le rinnovo altresì l’invito al dialogo, guardandoci negli occhi e guardando avanti, senza vincitori né vinti, facendo tesoro di ciò che ciascuno ha imparato.
Se la ragione dei licenziamenti è davvero economica – come Lei sostiene – il problema per il momento si può considerare risolto, confidando per il futuro nella Provvidenza, secondo lo stile di Telepace. Se invece il motivo è la rivalsa contro i  miei colleghi che hanno chiesto equità, e contro di me che ho sostenuto la loro causa, allora sono io ad affidarmi alla Provvidenza, e alla giustizia degli uomini, per i giorni difficili che mi aspettano.
Piero Schiavazzi

Il papa teologo esce in campo aperto: pubblica un libro su Gesù e avverte che “ognuno può contraddirmi”. E’ capitato alle volte di vedere dei parlamentari che rinunciavano all’immunità per essere “liberi di difendersi” ed ecco un papa che si spoglia dell’autorità magisteriale per testimoniare – più liberamente – la sua fede da cristiano a cristiano, anzi da uomo a uomo. Trovo straordinaria questa mossa, più ardita delle analoghe imprese più volte tentate da papa Wojtyla. Perchè il polacco scendeva dalla cattedra per parlare da uomo, il tedesco invece lo fa per parlare di Gesù, cioè dello stesso argomento che svolge dalla cattedra. Bello anche il modo nuovo della firma, scelto per questa nuova uscita: “Joseph Ratzinger – Benedetto XVI”. Papa Wojtyla firmava pur sempre come Giovanni Paolo II i suoi libri (sono stati cinque) di memorie e di poesia e immagino che un giorno per ogni papa crescerà a dismisura la parte da svolgere come Joseph Ratzinger e diminuirà quella da attribuire a Benedetto XVI.

Nel discorso del papa ai vescovi svizzeri (vedi ultimi quattro post) c’è un passaggio sulla preghiera tanto breve quanto efficace: “Da noi stessi non abbiamo le parole per Dio, ma ci sono state donate delle parole: lo Spirito Santo stesso ha già formulato parole di preghiera per noi; possiamo entrarci, pregare con esse e così imparare poi anche la preghiera personale, sempre di più ‘imparare’ Dio e così divenire certi di lui, anche se tace – diventare lieti in Dio”. Tre tempi, dunque: entrare nelle parole – poniamo – del Padre nostro, attraverso di esse imparare Dio, in questo “contatto” (parola usata in altro passo del discorso, vedi primo post del 20 novembre) divenire certi di lui e lieti in lui.  

Ecco il brano della lettera di Ignazio ai Romani da cui Benedetto XVI ha preso l’espressione che citavo al post precedente  ‘Il cristianesimo non è opera di persuasione, ma di grandezza’: “Quando infierisce l’odio del mondo nelle persecuzioni, la fede cristiana non è più effetto di persuasione ottenuta con parole dagli uomini, essa allora è opera della grandezza divina”. Sta a dire che l’adesione alla fede in tempo di persecuzione è più manifestamente che mai un dono che viene da Dio. Penso che possiamo accostare la nostra epoca a quella delle persecuzioni, almeno nel senso che anche oggi, in mezzo alle mille avversità culturali che sappiamo, gli uomini possono essere attirati alla fede cristiana solo da una forte esperienza dell’amore di Dio e non certo dalle parole dei credenti. Ognuno può misurare la forza di questa affermazione patristica, attualizzata da papa Benedetto, riflettendo sulle conversazioni in materia di cristianesimo che gli capita di fare quotidianamente, con i colleghi, gli amici, i figli. Certo non è immaginabile che siano le nostre povere parole, oggi, a convertire qualcuno!

Eccoci al cuore del discorso del papa ai vescovi svizzeri, che sto commentanto da tre post in qua: “Mi è venuta in mente la parola di sant’Ignazio: ‘Il cristianesimo non è opera di persuasione, ma di grandezza’ (Lettera ai Romani 3,3). Non dovremmo permettere che la nostra fede sia resa vana dalle troppe discussioni su molteplici particolari meno importanti, ma aver invece sempre sotto gli occhi in primo luogo la sua grandezza. Mi ricordo, quando negli anni ottanta-novanta andavo in Germania, mi si chiedevano delle interviste, e sempre sapevo già in anticipo le domande. Si trattava dell’ordinazione delle donne, della contraccezione, dell’aborto e di altri problemi come questi che ritornano in continuazione. Se noi ci lasciamo tirare dentro queste discussioni, allora si identifica la Chiesa con alcuni comandamenti o divieti e noi facciamo la figura di moralisti con alcune convinzioni un po’ fuori moda, e la vera grandezza della fede non appare minimamente. Perciò ritengo cosa fondamentale mettere sempre di nuovo in rilievo la grandezza della nostra fede – un impegno dal quale non dobbiamo permettere che ci distolgano simili situazioni”. – Più avanti torna a parlare della “grandezza” della fede: “Questo intimo essere con Dio e quindi l’esperienza della presenza di Dio è ciò che sempre di nuovo ci fa, per così dire, sperimentare la grandezza del cristianesimo e ci aiuta poi anche ad attraversare tutte le piccolezze, tra le quali, certamente, esso deve poi essere vissuto e – giorno per giorno, soffrendo ed amando, nella gioia e nella tristezza – essere realizzato”. – Ed ecco come insiste sull’argomento per la terza volta: “La cosa veramente grande nel Cristianesimo, che non dispensa dalle cose piccole e quotidiane, ma che non deve neanche essere coperta da esse, è questo poter entrare in contatto con Dio”. – Nel parlerò ancora, in altri post, di questo concetto che in Ratzinger è davvero centrale. Qui mi limito a tre osservazioni. 1: Benedetto XVI può essere visto come un cantore della “grandezza” della fede cristiana; egli sa che il futuro del cristianesimo dipende dalla percezione di quella grandezza. 2: Si tratta di una “grandezza” (bellezza, felicità, pienezza) che consiste nel porre il credente in  contatto con Dio e che si sperimenta essenzialmente nella preghiera. 3: per mostrare al mondo la grandezza della fede cristiana è necessario averla conosciuta; a nulla giovano le campagne promozionali che si appoggiano a mezzi umani.

“Il Signore ha un corpo in questo nostro tempo”: parole vive di papa Ratzinger ai vescovi svizzeri (vedi post precedente), improntate al coraggio cristiano e al sentimento del tempo difficile che viviamo. Eccole con il terreno da cui spuntano: “Vangelo e istituzione sono inseparabili, perché il Vangelo ha un corpo, il Signore ha un corpo in questo nostro tempo. Perciò le questioni che a prima vista appaiono quasi soltanto istituzionali, sono in realtà questioni teologiche e questioni centrali, perché vi si tratta della realizzazione e concretizzazione del Vangelo nel nostro tempo”. La contrapposizione tra Chiesa mistero e Chiesa istituzione fu tipica del ’68 cattolico. Ratzinger è stato sempre tra coloro che mantennero inseparabili le due attenzioni ed è l’attaccamento a quell’unità cattolica che l’ha fatto papa. Ma mutano i tempi e oggi non è più alla sua difesa che si deve applicare il papa teologo, ma alla riscoperta della “grandezza del cristianesimo” (come vedremo nel prossimo post), in un’epoca che ne percepisce la stanchezza. E’ già sentimento di quella grandezza poter affermare – avere cioè l’anima e l’animo di farlo – che il Vangelo anche oggi ha un corpo: cioè un piccolo gregge che lo incarna, prima di professarlo. Ma ancora più felice è la proclamazione che “il Signore ha un corpo in questo nostro tempo”: sta a dire che non ci sono solo le parole di Gesù a ricordarlo all’umanità contemporanea, ma c’è pur sempre sulla terra la famiglia di coloro che egli ha chiamato amici e con i quali ha promesso di restare per sempre.