Mese: <span>Marzo 2011</span>

Il Mattutino nella Certosa [vedi i due post precedenti] viene cantato tra le 00,30 e le 02,30. Nella notte tra il sabato e la domenica arriva a tre ore. Ogni giorno i monaci vanno a dormire tra le 20 e le 21 e si alzano poco dopo la mezzanotte convocati dalla campana alla più lunga delle liturgie quotidiane. Stamane sono stato anch’io al Mattutino illuminando con una torcia il pavimento davanti a me, dalla Foresteria alla Chiesa, mentre vedevo per il Grande Chiostro arrivare alla spicciolata i singoli monaci. Nel mezzo della notte, nel mezzo del sonno, con il cappuccio in testa, i certosini si aiutano a mettersi in Dio con lunghe pause nel buio integrale, restando accesa soltanto una piccola luce davanti al tabernacolo. Si vedono le nervature dell’architettura e le sagome degli oranti. Cantano in gregoriano 14 salmi e leggono brani del Primo e del Secondo Testamento e dei Padri. Un poco in italiano e un poco in latino. Ho memorizzato questi versetti: Schiacciò le teste dei draghi sulle acque – I figli di Giacobbe e di Giuseppe – Ecce somniator veniet – Come pula che il vento disperde – Ogni primogenito in terra d’Egitto bestia o uomo – Lo sazierei con miele di roccia – Sub tuum praesidium confugimus. Vedendoli così presi dal canto e dal Signore rimpiangevo di non disporre anch’io di un cappuccio.

“Facendosi monaco lei ha deciso di non avere figli e scegliendo tra tutti gli ordini monastici quello dei Certosini lei ha messo nel conto di non avere neanche il nome sulla tomba. Queste scelte l’aiutano a guardare al futuro? Pensa che l’aiuteranno un giorno ad affrontare la morte?” E’ una delle domande che ho posto al priore della Certosa di Serra San Bruno [vedi post di ieri] dopo aver visitato il cimitero che è nel Chiostro Grande, con 33 croci di legno sui tumoli erbosi che coprono i monaci avvolti nel saio e posti a diretto contatto con terra. “Non mi tocca la prospettiva di non avere il nome sulla tomba. Ho già cambiato il nome entrando nella Certosa e ho poi cambiato paese e lingua, cercando sempre di intendere come un dono ognuno di questi cambiamenti. Mi vado preparando a cambiare patria ancora una volta e ad accogliere i doni più grandi che mi attendo dal ‘passaggio’ che è la morte”. Al centro delle 33 croci c’è un roseto che tutte le guarda.

Sono nella Foresteria interna di Serra San Bruno, nel cuore della Calabria, dove starò due giorni per intervistare il priore Jacques Dupont: la Rubettino mi ha incaricato di preparare un libro intervista sulla vita dei certosini che dovrebbe apparire in occasione della venuta del Papa il prossimo ottobre. Sono l’unico ospite e i monaci mi “servono” il pranzo e la cena come fanno tra loro: me lo portano con una cassetta di legno sulla quale è scritto OSPITE, con il primo il secondo e il contorno in gavette sovrapposte che tengono calde le vivande. Prendo tovaglia e tovagliolo dal cassetto e mangio in solitudine su un mobiletto davanti alla finestra. Spaghetti al tonno e cozze gratinate, fagioli e spinaci. Un’arancia, un bicchiere di barbera e un’intera ciotola di miele. Poi rimetto tutto nella cassetta che domani mattina qualcuno ritirerà. Le posate le lavo nel lavandino. Non ho capito il miele dei monaci apicultori: lo dovevo mangiare tutto o solo un cucchiaino e rimandare indietro il resto? L’ho appena assaggiato, buonissimo.

Ogni notte Bruno Serato, cuoco veneto di San Bonifacio e titolare di uno dei ristoranti più in voga della California, serve venti chili di pasta a 3000 bambini che altrimenti andrebbero a letto senza cena“: è il richiamo in prima pagina di un servizio pubblicato ieri dal Corsera a p. 20 con il titolo UNO CHEF ITALIANO TRA GLI EROI D’AMERICA. “SFAMO CHI NON HA NIENTE NEL MOTEL KIDS”. Quello che mi è piaciuto di più, in questa storia, è la battuta della mamma di Bruno, Caterina, che è all’origine dell’impresa che va avanti da dieci anni: “Non possono cenare? Bruno, preparagli tu una pastasciutta!“.

Una parola utile alla vita ci può venire dalle persone più semplici che incontriamo in situazioni del tutto ordinarie. Una è venuta a me sabato partecipando alla presentazione a Palazzo Valentini, a Roma, di un libro scritto da Filomena Di Pace e pubblicato dalle Edizioni Era Nuova: Un altro mondo. Scienze umane per una scuola multiculturale (143 pagine, 20.00 euro). La parola utile è venuta da Giulia, una ragazza di trent’anni che fu alunna di Filomena alle elemntari e che ha parlato così, quando la parola è passata al pubblico: «La maestra Filomena continua a insegnarmi ogni giorno: non soltanto è stata, ma è la mia maestra quando incontro nuove persone o guardo nuovi mondi». Filomena ha avuto in classe, negli anni, tre miei figli e so la passione, la curiosità, l’ironia per la vita e per l’umanità che cerca di trasmettere ai suoi alunni: ieri nelle elementari, oggi in un liceo. Bevo alla sua salute un bicchiere di Vino Nuovo.

“Spetta a voi, cari giovani, far sì che, nel vostro Paese e in Europa, credenti e non credenti ritrovino la via del dialogo. Le religioni non possono aver paura di una laicità giusta, di una laicità aperta che permette a ciascuno di vivere ciò che crede, secondo la propria coscienza. Se si tratta di costruire un mondo di libertà, di uguaglianza e di fraternità, credenti e non credenti devono sentirsi liberi di essere tali, eguali nei loro diritti a vivere la propria vita personale e comunitaria restando fedeli alla proprie convinzioni, e devono essere fratelli tra loro”: così il papa nel messaggio videotrasmesso ieri ai partecipanti alla veglia di chiusura della sessione di apertura del “Cortile dei gentili”, sul sagrato della cattedrale di Notre-Dame di Parigi. Apprezzo l’audacia delle parole del papa che nello stesso messaggio – ricorrendo al linguaggio dell’apostolo Paolo – ha parlato anche di “sagrato dell’ignoto” e di “preghiera al Dio ignoto”: “Credenti e non credenti, presenti su questo sagrato dell’Ignoto, siete invitati ad entrare anche all’interno dello spazio sacro, a varcare il magnifico portale di Notre-Dame e ad entrare nella cattedrale per un momento di preghiera. Per alcuni di voi, questa preghiera sarà una preghiera a un Dio conosciuto nella fede, ma per gli altri essa potrà essere anche una preghiera al Dio Ignoto”.

Abbondanza di leoni a Cremona dicevo ieri, ma anche a Lucca aggiungo oggi. Ho presentato – su invito dell’Uciim: Unione cattolica italiana insegnanti medi – il libro intervista del papa Luce del mondo e rientrando a notte all’albergo Diana nei pressi della piazza di San Martino, Giampaolo Violi – amico dei tempi della Fuci e cultore di iconografia medievale – mi ha portato davanti alla cattedrale e mi ha detto: “Guarda quanti ne abbiamo qui”. Aveva letto la mia divagazione sui leoni di Cremona e me ne ha indicati tre sulla facciata e otto sotto il portico di accesso e uno – il più elegante – sull’immancabile zodiaco: dunque dodici. “E chissà quanti ce ne saranno all’interno, sia qui sia a Cremona”. Gli chiedo perchè i nostri padri fossero così attratti da leoni e leonesse. Con garbo mi ricorda il Leone di Giuda che è immagine di Cristo, il leone e la leonessa che fanno Cristo e la Chiesa, il leone che va intorno cercando chi divorare, il leone dell’Apocalisse e quello di Marco l’evangelista. Quelli dell’araldica, delle costellazioni, del solleone, delle favole. “Sono molti perchè portatori di più segni spesso contrastanti. Tutti trovavano posto nelle cattedrali come oggi nelle enciclopedie”.

Ma quanti leoni intorno al Duomo di Cremona a onorare la casa del Signore. Ho visto per primi i due scolpiti da Giambonino da Campione che ruggiscono – a fauci appena sollevate – davanti alla porta del transetto settentrionale e subito dopo gli altri due in marmo rosa posti da Giambonino da Bissone all’ingresso principale. Sempre sulla facciata ve ne sono quattro più piccoli che reggono le colonnine della loggetta sopra il portale; e due ai lati della facciata, posti alle estremità del primo cordolo; e un altro ancora su un capitello, abbinato a un bue. Ero così arrivato a undici quando mi è apparso il dodicesimo dal quadrante dell’orologio del Torrazzo dove sta a segno dello zodiaco. Nella Cremona del XII-XIV secolo un leone vero non l’avevano mai visto mai e infatti questi felini assomigliato nel corpo più al bove padano che al re della savana. Non l’avevano visto ma l’amavano più di ogni altro animale come figura di Cristo, chissà, e di lealtà e maestà. Una leggenda – mi hanno detto – vuole che un leone sia sepolto sotto le fondamenta del Torrazzo a dargli forza nei secoli.

Parole utili sono venute ieri dal ministro Maroni che prospettava ai presidenti delle Regioni la “previsione realistica” dell’arrivo – da qui a giugno – di cinquantamila migranti dalle coste africane, che distribuiti nell’intero Paese verrebbero a essere “meno di mille per ogni milione di abitanti” e dunque meno di uno su mille. Le trovo parole utili a comprendere che i numeri – in questo caso – sono uomini e donne. Mille si stringono per fare posto a uno. Oggi lodo il leghista Maroni che tante volte ho criticato.

Ventenne ricciuta parlava a un ragazzo al semaforo girata verso il sole. Come lucevano i suoi occhi.