Mese: <span>Maggio 2015</span>

“Quando parliamo dell’uomo, non dimentichiamo mai tutti gli attentati alla sacralità della vita umana. È attentato alla vita la piaga dell’aborto. È attentato alla vita lasciar morire i nostri fratelli sui barconi nel canale di Sicilia. È attentato alla vita la morte sul lavoro perché non si rispettano le minime condizioni di sicurezza. È attentato alla vita la morte per denutrizione. È attentato alla vita il terrorismo, la guerra, la violenza; ma anche l’eutanasia. Amare la vita è sempre prendersi cura dell’altro, volere il suo bene, coltivare e rispettare la sua dignità trascendente”: così il Papa oggi all’Associazione Scienza e vita. Nel primo commento altre parole di Francesco utili a conoscersi.

Oggi pomeriggio Francesco ha incontrato al Santa Marta un gruppo di una ventina di bambini malati: ha svolto una meditazione sul mistero della sofferenza dei bambini e ha invitato i genitori “a non aver paura di chiedere, di sfidare il Signore: perché? e a sentire il suo sguardo su di noi, lo sguardo di tenerezza del Padre che dice: anche il mio figlio ha sofferto”. Il Papa ha espresso la sua ammirazione per il coraggio dei genitori che rifiutano l’aborto, che è una falsa soluzione del problema della sofferenza e ha qualificato come “eroismo” la loro disponibilità ad accompagnare la sofferenza dei piccoli e a vivere nella preoccupazione per la loro sorte qualora rimangano soli nella vita.

I venditori di rose del mio rione vengono dal Bangladesh e quello che mi è caro si chiama Hossain. Chissà se ho capito lo spelling: siamo due pignoli e ci siamo stati sopra per un po’. Mi aspetta ogni domenica all’uscita dalla chiesa e ultimamente porta anche un amico, così torno a casa con sei rose, tre dell’uno e tre dell’altro. Non profumano ma sono belle. Mi ha visto oggi pomeriggio alla fermata del bus e mi ha detto che sta per tornare in Bangladesh dove la moglie Sufia dev’essere operata alla pancia. Non ho saputo di più: “Ha male qui” e indicava l’addome con le due mani, una con il mazzo delle rose. “Abbiamo due figli”. Quando parti? “Tra sette mesi”. Ti sei trovato bene in Italia? “Sì, bene”. Da quanto tempo non vedi tua moglie: “Da due anni”. Faccio le domande per volergli bene.

Sono stato a Treia, bel paese del bel maceratese, a parlare della “Gioia del Vangelo” di Papa Francesco. M’avevano assegnato i paragrafi 61-109, che trattano di “sfide e tentazioni” del nostro tempo. Nei commenti dico del tema, qui ricordo che “del senso di sconfitta” parla il paragrafo 85 e osservo che nella Vicaria di Treia questa tentazione la sanno combattere: da ottobre a oggi hanno fatto otto incontri di “formazione per catechisti e animatori pastorali” sul documento del Papa, ottenendo una giovane partecipazione. Il mio grazie a don Gabriele, motore dell’iniziativa.

Cerca di essere l’adulto che vorresti incontrassero i tuoi figli: è quello che presi a dirmi – allo specchio – quando i figli iniziarono ad andare per il mondo. Ora che iniziano a farlo i nipoti, metto la parola “nonno” al posto di “adulto” e cerco di non ridere parlando allo specchio.

Non è un’utopia pensare che si possa sradicare la povertà? “Sì, ma le utopie ci fanno andare avanti. Sarebbe triste se un ragazzo o una ragazza non le seguissero. Ci sono tre cose che dobbiamo avere tutti nella vita: memoria, capacità di vedere il presente e utopia per il futuro”: è un passaggio dell’intervista di Francesco a “La Voz del Pueblo” che il quotidiano argentino pubblica oggi. Apprezzo il carattere laico della risposta. Qui non è in questione la scelta personale della povertà, o l’ideale della Chiesa povera e per i poveri, o l’evangelico “beati i poveri”, ma l’idea che si possa togliere dal mondo la povertà, ovvero – come Francesco afferma nella Gioia del Vangelo, 202 – “risolvere radicalmente i problemi dei poveri”. Egli l’afferma quell’idea, ma l’afferma in proprio, a suo rischio e pericolo. Io condivido questa scelta: sia l’utopia di vincere la povertà, sia la necessità di perseguirla come tale e non come un comando evangelico.

La bandiera dell’Isis sulle pietre di Palmira. “Salomone ricostruì Tadmor nel deserto” leggiamo nel capitolo 8 del “Secondo Libro delle Cronache” e non dimentichiamo che era già stata splendore e rovina. Tadmor è parola aramaica che vuol dire palma, da cui Palmira. Che fu anche della regina Zenobia, ribelle ai romani, memore di Cleopatra. Uno guarda le colonne ancora in piedi e vede la vanità delle pietre e della sabbia, dei carri falcati, delle regine.

“In tempi di difficile convivenza, monsignor Romero ha saputo guidare, difendere e proteggere il suo gregge, restando fedele al Vangelo e in comunione con tutta la Chiesa. Il suo ministero si è distinto per una particolare attenzione ai più poveri e agli emarginati. E al momento della sua morte, mentre celebrava il Santo Sacrificio dell’amore e della riconciliazione, ha ricevuto la grazia d’identificarsi pienamente con Colui che diede la vita per le sue pecore”: è un passaggio felice del messaggio di Francesco per la beatificazione di Romero, redatto nel linguaggio solenne dei martirologi. Ci vedo la consapevolezza di Papa Bergoglio di appartenere alla storia martiriale dell’America Latina. Nei commenti altre parole del messaggio.

Il peccato più grave per un cattolico? «Essere chiusi al perdono. Pensare che le persone non possono cambiare». C’è qualcosa che cambierebbe nella dottrina della Chiesa cattolica? «Non sono all’altezza di risponderle. Ma se tante persone continuano a imprigionare la speranza nella morale, come queste domande dimostrano, vuol dire che il Vangelo va comunicato meglio»: sono due risposte di Alessandro Sortino a “Vanity Fair” in un’intervista dell’altro ieri. Mando un bel saluto al collega fu nel team delle Iene e che oggi è vice-direttore di TV2000. Nei commenti altre risposte di Alessandro a domande di morale che spiegano la sua ribellione espressa nella seconda risposta riportata qui sopra. Condivido quella ribellione: la riduzione del Vangelo a morale – e a morale sessuale – è la prima iattura dell’attuale condizione cristiana.