Mese: <span>Giugno 2008</span>

Siamo in otto, due uomini, quattro hobbit, un elfo e un nano: così Legolas nella seconda parte del Signore degli anelli presenta la “Compagnia dell’anello” ai guardiani della foresta di Lothorien, chiedendo l’autorizzazione ad attraversarla. I guardiani rispondono che il nano non potrà entrarvi a meno che non accetti di essere bendato, perchè sarebbe pericoloso che un nano conosca il mondo degli elfi. Il nano Gimli figlio di Gloin non accetta quella che gli appare una mancanza di fiducia e una discriminazione. Aragorn propone allora che tutti gli otto – egli compreso – accettino la benda. A questo punto è Legolas l’elfo a trovare stravagante che egli debba camminare bendato nella sua foresta, ma infine così si fa e per un giorno e una notte la compagnia procede senza vedere, scortata dai due guardiani. Al secondo giorno sopraggiungono messaggeri della Dama del Lago che autorizza Gimli a vedere il proprio regno e tutti possono togliersi la benda. Applico il mito di Tolkien alla questione zingara e dico che sarà bene, se necessario, che vengano prese le impronte di tutti per non fare torto a nessuno. Ultimamente mi sono state prese le impronte per il visto di ingresso negli Usa e il gesto non mi ha offeso.

– Gerarchie cattoliche in discesa…

– Da che lo vedi?

– Un tempo Montini, oggi Vallini!

Incontro Giancarlo Bregantini ora arcivescovo di Campobasso (vedi post dell’8 e del 9 novembre 2008) e l’interrogo sul suo successore a Locri-Gerace, se cioè sia contento dell’insediamento appena avvenuto del nuovo vescovo Giuseppe Fiorini Morosini appartenente all’ordine dei Minimi. Mi dice di sì e aggiunge sornione che “era il minimo che potevano fare”.

Sono al mare e incontro meno gabbiani di quand’ero a Roma: vedi post del 19 giugno e 5 luglio 2007, 30 marzo e 9 maggio 2008. Ne trovo uno fermo su una boa galleggiante che guarda lontano e mi capita di gettare un’occhiata in quella direzione. Altrettanto fermo e lontanante mi era parso una settimana addietro un suo gemello metropolitano appollaiato sul tettuccio della mia Croma in via Urbana, davanti a Santa Pudenziana. Una piccola amica romana di nome Violeta mi racconta al telefono di un gabbiano che è svolato sul suo davanzale – quartiere San Lorenzo – a ghermire un pezzo di pane che era lì per i piccioni: “L’ha fatto con lo stesso tuffo con cui prende al volo i pesci sul pelo dell’acqua”. Sempre quell’amica dice che ne trova anche quattro per volta quando sale in terrazzo, persi nella loro faccenda del guardare più in là. Forse è il caldo che li spinge all’avvicinamento. Mai visti fino a oggi sull’automobile, o in picchiata ai davanzali a contendere il pane ai piccioni, o sui terrazzi a mostrarci da vicino come si guarda lontano. 

Stagione lenta, campi ancora colmi di grano e girasoli tra La Tolfa e il mare. Primo giorno di ferie con passeggiata in collina tra i colori, gli odori e i clamori della primavera che diventa estate in gran fretta e della sera che si fa notte.

Leggo L’aratro, l’ipod e le stelle. Diario di viaggio di un laico cristiano di Paolo Giuntella (vedi post del 23 maggio) appena pubblicato dalle Paoline: sono tra i presentatori del libro, domani pomeriggio alla Stampa Estera. Mi fermo felice alla descrizione del Gesù “provocatore” delle beatitudini, della “scelta” della figura del samaritano per dire la “compassione” di Dio e dell’altra “scelta” di parlare della fonte della fede con una “samaritana non certo virtuosa” e comunque appartenente a quella “gentaglia impura ed eretica” quali erano i samaritani per gli ebrei, “come oggi noi consideriamo gli zingari”. Grazie Paolo, vai avanti che ti seguo.

Sul Corsera dell’altro ieri Armando Torno colloquia con Emanuele Severino che riconduce la propria ricerca a questa sentenza di Eraclito: “Sono attesi gli uomini, quando sian morti, da cose che essi non sperano nè suppongono“. Sentenza che commenta così: “Da cose che sono infinitamente ‘di più’ di ciò che essi desiderano, suppongono, sperano di ottenere. Infinitamente ‘di più’ di ciò verso cui vuole condurre la stessa speranza cristiana, e dunque ‘di più’ di ogni immortalità e di ogni ‘resurrezione della carne’ che a speranze di questo genere sono connesse. Siamo destinati a qualcosa che è infinitamente ‘di più’ di tutto quanto il più insaziabile dei desideri può volere”. So che Severino da tempo non si riconosce nel dogma cristiano ma io cristianamente gioisco delle sue parole.

Oggi pomeriggio sono tornato alla chiesa della “Santissima Trinità dei pellegrini” per partecipare alla celebrazione feriale (vedi post del 15 giugno) secondo il vecchio messale. Venti i presenti, compresi il parroco e il chierico che l’assisteva. Tre sole le donne: anche domenica erano molto più numerosi gli uomini, che vuol dire? Perchè alle messe del nuovo rito sono di più le donne e qui avviene il contrario? A differenza di domenica non veniva offerto alcun sussidio per seguire la celebrazione e ho visto che mi risulta difficile capire a orecchio le preghiere e le letture in latino nonostante l’abitudine ad ascoltare in questa lingua alcune parti delle celebrazioni papali. Ho afferrato bene solo il Vangelo e un paio di oremus che lo echeggiavano. Al grande silenzio che va dal Sanctus al Pater stavolta ero più preparato e pur senza avere sotto il testo reputo di essermi abbastanza sintonizzato con quanto diceva e faceva il celebrante. Il confiteor è stato ripetuto prima della comunione come già domenica. Non c’è stata omelia ma la celebrazione è stata condotta con esemplare lentezza ed è durata 40 minuti. Grato di ciò. Curiosità di un gesto: dopo il sanctus il chierico ha accesso una piccola candela poggiata con il suo supporto tra i candelieri già accesi, dalla parte dell’epistola, come la mascotte ai piedi dei cavalli. E l’ha spenta dopo la comunione. Non ricordo d’ver mai visto quella candela in antico.

“Pisè, io e te contro ogni regola sempre”: scritta in nero sul muraglione di un terrapieno lungo la via Cavour a Roma, poco dopo la Salita dei Borgia per chi vada verso i Fori Imperiali.

Sono stato a messa nella chiesa della “Trinità dei pellegrini” (a due passi da piazza Farnese) che da domenica otto giugno è sede della “parrocchia personale” per quanti “desiderano la messa e tutti i sacramenti secondo la forma antica del Rito romano”. Centocinquanta persone, più uomini che donne. Una decina le donne con il velo in testa. Buono il gregoriano del Coro del Collegio americano. La comunione inginocchiati alla balaustra. Rigorosi i gesti e il silenzio tra il prefazio e il Pater, scandito dai gesti e dal campanello che segnalava la consacrazione. “Nobis quoque peccatoribus” – Anche a noi peccatori – è l’una frase del canone che si è udita. Il Pater l’ha pronunciato il sacerdote da solo. Un cultore del vecchio Rito che ho trovato in chiesa, Giuseppe Pallanch, già portavoce del Gemelli, mi ha fatto osservare che c’era dell’eccesso in quel celebrante nel dire sottovoce le parole della consacrazione e nel pronunciare da solo il Pater. Ho ammirato la lentezza e anche la modestia dei mezzi. All’omelia il “parroco” ha invitato a farsi vivo chi volesse “donare un banco”, perché non ce ne sono abbastanza con inginocchiatoio. Ho trovato ottima l’omelia, senza alcuna inflessione antimoderna. “Con questo rito l’altare prende un ruolo principale” ha spiegato, ma senza dire che nell’altro vi sia di meno. Sono contento di questa giusta misura e ci tornerò per intendere alcuni gesti che non ricordavo e per reimparare l’immersione in quel lungo silenzio di tutti che avevo dimenticato.

Oggi sono felice perchè si sposa Agnese, la seconda dei miei figli (vedi post del 12 giugno 2007)