Mese: <span>Giugno 2007</span>

Antonio Thellung (vedi post del 28 e 30 maggio) festeggia 54 anni di matrimonio e mi invita a pranzo. Gli chiedo come vanno le cose e dice: “Anche troppo bene!” Osservo che questa è locuzione rara in bocca agli umani. Risponde che è vero e quasi si vergogna a pronunciare quelle parole, ma con me sa che può azzardarle: “Ci abbiamo riflettuto, Giulia ed io, e abbiamo concluso che a noi il Signore ha mandato e manda così tanta grazia che si spreca”. “Il mio presente – dice ancora – non finisce di stupirmi”. Beato – dico io – chi riconosce la felicità che l’ha raggiunto.

Per via Panisperna strombazzante passa il furgone della Nettezza urbana. Saltano giù due ragazzi in tute verdi e bande rifrangenti, sganciano con il piede il freno ai cassonetti e bottonando su un telecomando li ribaltano come per gioco nel cassone. Risaltano sul predellino e se ne vanno ammiccando agli automobilisti impazienti. Lei scuote la coda di cavallo, lui guarda con zigomo ribaldo. Raccolgono monnezza, ma ridendo come raccogliessero mele.

Ai visitatori che vivono a Roma segnalo che mercoledì 27 alle 18.00 sarò con Espedita Fisher alla libreria “Don Bosco” di via Marsala 44 per la presentazione del volume Clausura: vedi post del 23 aprile e del 26 maggio. Sarà con noi l’editore Alberto Castelvecchi e la monaca di clausura Doris Damaris Herrera costaricana che vive a Roma, una delle intervistate del volume, nel quale tra l’altro dice: “Sono certa che la donna ha un potere immenso, ma non tutte lo sanno scoprire“. Sarà la prima volta che incontro Espedita e potrò dire la mia ammirazione per il suo libro, che considero tra le cose più vive dell’attuale stagione letteraria e cristiana.  

“Ro’… prima della pazzia la passione”: scritta rossa su un muro a lato della Strada Provinciale 73 a cinque chilometri da Bari Palese, sulla destra per chi è diretto ad Altamura. Mi appassiono a interpretarla come fosse un verso di Virgilio o dei Vangeli. Enzo Lamagna – simpatico coetaneo che mi porta in auto a Ferrandina per una conferenza – mi dà una mano: “Secondo me è un ragazzo che scrive a una ragazza”. D’accordo dico io, ma che vuole trasmettere questo ragazzo alla sua Rosina o Romina? Enzo si butta: “Non mi fare impazzire, gli dice, non vedi la mia passione?”

Per la forza delle parole che caratterizza la predicazione di papa Benedetto (vedi post del 13 maggio, 15 aprile, 19 febbraio…), segnalo un passo del discorso che ha fatto giovedì 21 all’assemblea delle “Opere per l’aiuto alle Chiese orientali”: “Insieme a ciascuno di voi desidero bussare nuovamente al cuore di Dio per chiedere con immensa fiducia il dono della pace. Busso al cuore di coloro che hanno specifiche responsabilità perché aderiscano al grave dovere di garantire la pace a tutti, indistintamente, liberandola dalla malattia mortale della discriminazione religiosa, culturale, storica o geografica“. Trovo nelle parole “bussare al cuore di Dio” e “busso al cuore” degli uomini la stessa dinamica della preghiera per avere preti che papa Ratzinger aveva proposto il 14 settembre nella cattedrale di Frisinga: “Scuotere il cuore di Dio e con Dio toccare nella nostra preghiera anche i cuori degli uomini” (vedi post del 19 settembre 2006).

“L’age de l’or était l’age où l’or ne régnait pas”: l’età dell’oro era l’età in cui l’oro non regnava. Letto a Parigi sul marciapiede di Avenue Voltaire da Brigida Pesce, cara amica giramondo che ringrazio per la segnalazione.

Invito i miei visitatori a fermarsi un paio di giorni sulle pagine 174 e 175 del libro di Raztinger-Benedetto su Gesù, che tratta dell’abuso umano del “nome” di Dio, nome che di per sè – in quando dono e rivelazione – riassume il “meraviglioso mistero della sua accessibilità da parte nostra”. Insomma: Dio si rivela, ci comunica il suo nome, “si rende invocabile” e noi quel nome lo macchiamo, lo deturpiamo, l’asserviamo ai nostri scopi, lo rendiamo irriconoscibile. Ecco i passaggi più intensi delle due pagine:

Il nome crea la possibilità dell’invocazione, della chiamata. Stabilisce una relazione. – Ciò che giunge a compimento nell’incarnazione ha avuto inizio con la consegna del nome. – Dio ora è davvero divenuto accessibile nel suo Figlio fatto uomo, Egli fa parte del nostro mondo, si è consegnato, per così dire, nelle nostre mani. – Ora del nome di Dio si può abusare e così macchiare Dio stesso. Possiamo impadronirci del nome di Dio per i nostri scopi e deturpare così l’immagine di Dio. – Quanto più egli è vicino, tanto più il nostro abuso può renderlo irriconoscibile. Martin Buber ha detto una volta che con tutto l’infame abuso del nome di Dio potremmo perdere il coraggio di pronunciarlo. Ma tacerlo sarebbe ancor più un rifiuto del suo amore.

Per entrare meglio in questa riflessione suggerisco due approfondimenti. Il primo riguarda il paragrafo 19 della Gaudium et Spes (1965), quando pone tra le cause dell’ateismo i credenti che in parole e opere “si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione”. Il papa non cita la costituzione, ma questo contenuto del documento conciliare corrisponde a una parte della sua riflessione. Il secondo è il testo di Martin Buber cui il papa rinvia senza citarlo. Si tratta di un brano del volumetto intitolato Eclissi di Dio (Mondadori 1990), che potrebbe essere letto come il testamento di quel grande ebreo della nostra epoca: “Sì, la parola Dio è la parola più sovraccarica di tutto il linguaggio umano. Nessuna è stata talmente insudiciata e lacerata. Generazioni di uomini hanno scaricato il peso della loro vita angustiata su questa parola e l’hanno schiacciata al suolo; ora giace nella polvere e porta tutti i loro fardelli. Generazioni di uomini hanno lacerato questo nome con le loro divisioni in partiti religiosi; hanno ucciso e sono morti per questa idea e il nome di Dio porta tutte le loro impronte digitali e il loro sangue”.

Essendo il punto di partenza della riflessione papale l’invocazione del Padre nostro “Sia santificato il tuo nome”, e partendo egli dalla rivelazione del nome di Dio a Mosè, dobbiamo ritenere che quando parla di “abuso” Benedetto intenda lo strazio che di quel nome hanno fatto – innanzitutto – gli ebrei e i cristiani. Per stare ai cristiani, ben sappiamo che le guerre di religione furono proclamate in nome di Dio, i roghi furono accesi in nome di Dio, i ghetti degli ebrei e ogni altra vessazione verso di loro i cristiani la compirono in nome di Dio. Anche gli omosessuali venivano posti alla gogna e qualche volta bruciati in nome di Dio. In quelle due pagine c’è questa profondità. Proviamo a calarci in essa, miei visitatori.

Viene pubblicato oggi un documento sulla Pastorale della strada firmato dal cardinale Renato Raffaele Martino e dall’arcivescovo Agostino Marchetto, presidente e segretario del Consiglio per i migranti e gli itineranti. Sono debitore al cardinale Martino di molte interviste e sono grato all’arcivescovo Marchetto per aver narrato in un piccolo libro la fuoriuscita da una grave malattia: chiedendone scusa ai due autori mi domando se quel documento fosse necessario. Contiene di sicuro pagine utili a chi è cristianamente impegnato sul fronte della prostituzione, dei ragazzi di strada e dei barboni. Trovo meno specifico il capitolo rivolto agli “utenti della strada”: mi pare – fin dal titolo – una materia da lasciare per intero agli uomini di buona volontà, che siano cristiani o meno. In esso viene proposto anche un “decalogo del conducente” che inizia con l’ovvio “non uccidere”. Ma anche per gli altri tre capitoli chiedo se sia necessario un testo vaticano. I cattolici impegnati su quei fronti fanno i loro convegni e hanno i loro sussidi, che bisogno c’è di una parola che venga dai collaboratori del papa? Non giova a tutti che – in materie non essenziali – lo scambio sia libero e la varietà incoraggiata? Tra le mie attese verso il pontificato di Benedetto XVI vi è anche quella che faccia dimagrire la Curia e la convinca a pubblicare meno documenti, a partire dalle materie periferiche. Mi piacerebbe un Vaticano che rinuncia a monete e francobolli e una Curia che si concentra sugli elementi essenziali della vita della Chiesa. 

All’alba su Roma arrivano i gabbiani. Negli anni hanno imparato a risalire il Tevere. Una volta restavano sul fiume ma ora cercano tutta la città. Con gridi e gridi scendono verso le piazze. Si affollano in picchiata intorno alla metropolitana che esce all’aperto sul ponte Pietro Nenni prima che si rintani. “Levate il capo” sembrano gridare: “Non vedete?”  

Siate, cari giovani, la mia gioia come lo siete stati di Giovanni Paolo II, prego!“: è stato l’ultimo saluto del papa ai giovani, sul piazzale di Santa Maria degli Angeli, ieri sera nella piana di Assisi. Dieci appuntamenti in undici ore, il passo sveglio, la parola pronta, le improvvisazioni – come sempre – senza sbagliare una virgola. Anche quest’ultima battuta aveva un elemento originale: quel “prego” che era un’aggiunta rispetto al testo scritto e si è sentito bene, dal tono della voce, che gli è venuta dal cuore. Mi racconta il padre Enzo Fortunato – direttore del Centro Stampa – che alla tomba di Francesco, dopo aver acceso la lampada votiva, il papa ha detto al padre Custode Vincenzo Coli: “Che bello qui”. Un momento divertente c’è stato invece durante la visita al Sacro Convento, quando il padre Custode gli ha mostrato il libro dei visitatori illustri e Benedetto lo sfogliava interessatissimo e diceva: “Ecco Abu Maze, c’è anche Mubarak, qui il nostro Napolitano”. Un papa più sciolto e voglioso di fraternizzare, pur nell’asciuttezza che lo caratterizza. Imparagonabile al Benedetto XVI della prima visita in Italia, quella del 29 maggio 2005 a Bari per il Congresso Eucaristico, quando arrivò, celebrò e riparti senza fermarsi neanche a pranzo. E i pugliesi – che hanno la religione della tavola più cara del cattolicesimo – ancora non riescono a crederci. Ad Assisi invece si è anche impegnato a tagliare la torta alzandosi in piedi ed esclamando “tocca a me”, a quel tavolo dove ha pranzato avendo a destra il presidente Prodi e a sinistra il vescovo di Assisi.